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Articoli correlati
Un progetto per fare
incontrare i territori (cibo e cultura)
(08.11.16)
Sono già due gli incontri realizzati a Cà Berizzi, a
Corna Imagna nell'ambito di un itinerario attraverso le culture
contadine e pastorali e le loro espressioni culinarie.
I
magnifici sette (ieri a Gandino)
(12.01.16)
L'incontro
di rappresentanti di sette località lombarde con in comune un prodotto
agroalimentare ricco di storia, emblema e orgoglio della comunità ma
anche stimolo di progettualità locale e veicolo di relazioni. Primo
evento pubblico 6 marzo, festa di San Giuseppe,
sempre a Gandino
Asparago
rosa di Mezzago
(09.01.16) con l'asparago,
rappresenta un'esperienza trainante nel movimento dei "cibi
di comunità". Lanciato come DeCo da Luigi Veronelli è assurto a
elemento di una continuità dalla società contadina
a quella post-industriale è divenuto un riferimento
identitario per una comunità che non vuole essere fagogitata dalla
conurbazione milanese.
Milano
città d'acque e di latte (08.01.16) sistemazione
della Darsena e la bella mostra Milano Città d'acque(Palazzo
Morando, Via Sant'Andrea sino 14-02-2016) rappresentano
occasioni perché Milano riscopra anche i legami che le vie d'acqua
hanno storicamente stabilito con i territori vicini ma anche con
lontane valli alpine. Sono legami che riguardano anche l'agricoltura,
la zootecnia, gli alpeggi e il caseificio. Vediamo come.
Cibi di comunità in rete
(04.12.15) Quali sono le realtà che
costituiscono la rete partita dal progetto "Cibo e identità
locale" e quali altre realtà possono candidarsi a partecipare. In
attesa che la rete si formalizzi presentiamo alcune indicazioni emerse
dalla ricerca e dal volume che ha dato il via a questa
iniziativa
La nuova frontiera del cibo locale
(03.12.15)
Dopo l'uscita del libro "Cibo e identità locale" , ricerca partecipata
con soggetto sei cibi di comunità, in occasione degli incontri di
presentazione del libro, ma anchedel tutto spontaneamente, si sono
infittite le relazione tra la rete. A Gandino l'11 gennaio si
farà il punto di questi sviluppi aprendo una fase nuova di questa
storia di ricerca-azione
Il valore sociale e culturale
del cibo locale trova una definizione
(19.02.15) In stampa il libro che
ricostruisce il "modello" sul quale si basano alcuni casi di successo
dove la difesa e la valorizzazione del patrimonio legato ai
sistemi agroalimentari locali tradizionali innesca processi virtuosi di
rigenerazione comunitaria. All'insegna di uno sviluppo autosostenibile.
uscirà a metà marzo il volume di Michele Corti, Sergio De La Pierre,
Stella Agostini Cibo e identità locale. Sistemi agroalimentari e
rigenerazione di comunità.Sei esperienze lombarde a
confronto . Edita dal Centro Studi Valle
Imagna l'opera comprende una presentazione di Alberto
Magnaghi, fondatore della scuola territorialista" .
Lo strachìn
quàder , storia allo stato puro, ma esiste ancora?
(27.01.15) La domanda che ci eravamo posti oltre dieci anni
fa avava ottenuto risposta positiva. Lo strachìn
quàder della Valsassina l'archetipo degli stracchini lombardi
era ancora vivo e vegeto. E nel 2015? Nell'attesa di farvi sapere
la risposta riproponiamo lo studio eseguito nel 2003 e
apparso sul numero di giugno 2004 di Caseus. Che appare molto
interessante alla luce del grande fermento che c'è nelle Orobie intorno
ai formaggi storici e al recupero di tradizioni e razze
autoctone.
|
Cibo territoriale
- Iniziative
culturali
Cucinare = atto agricolo e sociale
(12.11.16) Nel
2017 la Lombardia orientale sarà regione europea dell'anno della
gastronomia. Una buona occasione per riflettere sul carattere della
gastronomia dei territori delle quattro provincie della
Lombardia
orientale caratterizzati da una notevole varietà di
ambienti (da quelli del lago di Garda all'alta valle
Camonica,
agli ambienti fluviali, alle colline).
Erg come occasione per sperimentare in un'area con opportununità ma anche criticità e necessità di cambiamenti, formule di
valorizzazione delle cucine microterritoriali come strumento di rilancio di
produzioni agricole messe "fuori mercato" dalla modernizzazione e della
globalizzazione. Ma oggi, con il latte a 30 cent. tante alternative
locali, tante microfiliere, trainate da un risveglio di cultura
gastronomica identitaria ancorata ai luoghi, possono
rappresentare una delle soluzioni alla crisi dell'agricoltura.
Lavorando, però, fuori dalle logiche corporative, coinvolgendo le
comunità e le loro varie componenti sociali e culturali.
La
Lombardia orientale
rappresenta un grande comprensorio agricolo (solo Brescia produce più
del 10% del latte italiano) che, però, oggi vive la crisi delle
produzioni di massa mentre si fa strada anche nel mondo agricolo più
"imprenditoriale" la riflessione sulla necessità di
trovare nuove strade. Veramente nuove. Non quelle che il mondo
finanziario e delle multinazionali che controllano il cibo mondiale
(e la cultura tecnoscientifica ad esso organica) ripropongono
con il fine di far cadere quello che resta di un'agricoltura non
internalizzata nei sistemi industriali in trappole quali gli OGM.
Sono seduzioni (rese appetibili dai contributi pubblici sottratti ad
altri interventi) che portano vantaggio ai suddetti interessi
finanziari e globali espopriando l'agricoltura di tutta la sua
dimensione locale, culturale.
La posta in
gioco non è poi
così difficile da afferrare
Chi voglia considerare le cose
lucidamente, però, non deve esercitarsi in grandi sforzi
mentali per capire che eliminare le relazioni locali (commerciali,
sociali, umane), il ricorso a risorse locali (materie prime
territorialmente connotate e, ancor più, i saperi locali contestuali
controllati dal basso) con le materie prime fornite dalle
miltinazionali, con il software e le tecnologie informatiche, con i
manuali su come allevare, coltivare, cucinare, validi per tutto il
mondo, significa semplicemente e drammaticamente ridurre il potere
dei territori e aumentare quello delle centrali globali. Che non sia
complottismo ma la pura realtà lo dimostra il passaggio nelle mani
di poche multinazionale delle principali materie prime agricole ( e
gradualmente anche di quelle secondarie).
Discutere di queste
cose nella Lombardia orientale dove convivono l'agricoltura delle
duemila frisone con le malghe dove si munge a mano e si effettuano
ancora i trasporti con i quadrupedi è particolarmente stimolante.
Tutto ciò, però, può restare sullo sfondo in occasione di
un evento che vuole presentare in una dimensione europea la ricchezza
del patrimonio di cultura gastronomica della regione.
Cucina
e turismo come opportunità per l'agricoltura
L'importante
ed
essere consapevoli che la cucina territoriale ha un grande ruolo per
stimolare e sostenere la differenziazione dei sistemi agricoli, oggi
invocata anche da chi sino a ieri predicava il verbo produttivista.
Una differenziazione che non può che significare (altrimenti
difficilmente avrà successo) ricerca della qualità e
dell'eccellenza, da perseguire attraverso la comprensione
delle
opportunità offerte dall'ambiente, dalla cultura agricola e
alimentare locali.
La
ricchezza della cultura gastronomica rurale italiana è ancora da
scoprire come dimostra la frequente riscoperta di preparazioni
apparentemente dimenticate (così come i semi rurali che,
fortunatamente, ogni tanto rispuntano). Una ricchezza non
casuale, non ancora esplorata e non valorizzata. Che deriva dalla
presenza di civiltà rurali antichissime evolutesi attraverso
percorsi storici differenziati, sotto l'influenzata dal policentrismo
dei centri urbani maggiori e minori e della segmentazione geografica,
particolarmente forte nell'Italia appennica ma presente anche sulle
Alpi.
Un
immagine della Lombardia che pesa negativamente ma che è anche il
risultato di scarsa attenzione ai valori culturali e paesistici
Nel caso
della Lombardia, che si è avvantaggiata in
passato dalla
trasmissione dell'immagine di una realtà tutta-moderna che quasi aveva
fatto tabula rasa del passato rurale nascondendolo sotto il tappeto ,
fare i conti con la memoria culturale, la specificità locale,
i substrati, è ancora più vitale. Non è la Toscana dove il turista
quasi si meraviglia di trovare industrie tanto è stata efficace la
diffusione dell'imagine di regione di eccellenze agricole, città d'arte
e paesaggi rurali . In Lombardia è l'inverso: il turista si meraviglia
che esistano realtà rurali, prodotti agroartigianali, tradizioni
variegate e - fortunatamente - non ancora scomparse. Questi
stereopiti vanno cancellati, proprio perché la Lombardia è in testa
nell'industrializzazione agricola essa oggi ha bisogno di strade
alternative (almeno per una parte significativa delle sue strutture
agroproduttive). Mancano risorse di paesaggi diversificati?
Di borghi rurali? Di clture culinarie? No di certo. Anche se le lande
dei capannoni troppo spesso si danno il cambio alle lande
della monocoltura maidicola (con la sua "fame" di
pesticidi e di acqua di irrigazione). Certo che a differenza della
Toscana e dei borghi appenninici addormentati qui abbiamo avuto lo
scempio dei condomini di otto piani che svettano come funghi velenosi
dal tessuto urbano di borghi e villaggi fatti di edifici a uno o due
piani allineati lungo le sinuose strade del passato non rettificato e
abbellite dai classici portici.
Buona
parte della pianura dove
l'agricoltura produttiva si è concentrata, hanno spianato i campi con
il laser e sradicato sino all'ultimo olmo, ontano, quercia. Non
parliamo del masochismo turistico delle selve di cartelloni
pubblicitari che appestano anche zone di valore paesistico e turistico
(chissà come mai quando si passa dalla Lombardia al Trentino
spariscono).
Il turismo rurale e gastronomico stimolo a
recuperare qualità ecologica, agricola, paesistica
C'è da
fare molto maquillage ai nostri paesaggi (ex)rurali
oggi rurbani o lande desolate dell'agribusiness, ai nostri borghi, alle
nostre strade. Ma lontano dalle arterie principali, dai non luoghi
lineari dei centri commerciali e dei capannoni c'è ancora tanto da
recuperare e di recuperabile. Qualcosa è ancora intatto o quasi (ma
sono isole e a volte reliquie). Fuori dagli stradoni autostradalizzati
esistono ancora (specie se si va in bici e non in auto) i paesaggi
della pianura, contrassegnati dai filari arborei sugli argini dei corsi
d'acqua, dal mulini, dalle cascinette, dai boschetti. Qui, ed
è giusto che sia così, trovate ancora le vecchie osterie (o quelle
"neo", finte, ma spesso dignitose) . Ma quanti
prodotti del territorio possono ragionevolmente inserire nelle
preparazioni del loro menù. La mega porcilaia a poche centinaia di
metri spedisce i maiali in un grande macello si un'altra provincia o in
Emilia. Latte, cereali e carne suina (i prodotti principali della
Bassa, entrano in filiere lunghe). Vanno un po' meglio le cose nel
Casalasco, nel Mantovano dove c'è frutticoltura, viticoltura,
orticoltura di pieno campo. Poi ci sono i casi virtuosi della bassa
bresciana dall'agricoltura turboindustriale dove sboccia il fiore
prezioso del monococco. Qua è là piccoli allevamenti di oche e altri
palmipedi. Gli storioni (che sfruttano l'acqua calda delle centrali
elettriche). Qua e là persino le vacche al pascolo nella pianura
cremonrse e caseifici aziendali che ripropongono formaggi
artigianali.
Non lamentiamoci se le osterie ripropongono i menù del territorio senza
le materie prime del territorio. Ringraziamole, invece, perché così
hanno mantenuto in vita una tradizione che può tornare a vivere nella
sua vitalità di tradizione agroalimentare e non più solo gastronomica.
Oggi le opzioni per la differenziazione agricola valgono in
quanto opzioni di differenziazoni differenziate. Non è un gioco di
parole. Se le differenziazione significa nuove scelte di massa essere
saranno presto o tardi reincapsulate nel sistema globale. Solo la
piccola scala garantisce la sostenibilità. Piccolo e
piccolissimo non è "bello" è spesso l'unica alternativa. A dispetto
della nauseante retorica delle aziende condannate a crescere. Crescere
in che cosa? In fatturato, in volumi fisici? E se si crescesse in
qualità e in capacità di produrre valori, beni e servizi connessi e
complementari?
La
sirena della "cucina regionale" o "provinciale" rischia di banalizzare
e disperdere il vero giacimento
La
microdifferenziazione dei sistemi e dei codici
culinari che è una risorsa di valore inestimabile. Chi non lo riconosce
fa parte di quelle componenti della società italiana che si sono
trasformate in avvoltoi. Mirano a svendere a saldo Italia per ottenere
lucrose commissioni. Ma da dove viene questo immenso giacimento? Quali
sono i fattori che hanno prodotto in Italia e in Lombardia - lo
sottolineamo con forza - un
"gradiente di diversità" che
segna significative variazioni di lessico e sintassi gastronomica
nell'ordine
di pochi chilometri quando, in realtà meno “dense,” la stessa
variabilità si osserva su distanze di decine o centinaia di
chilometri. Quasi ogni comunità rurale in Italia ha elementi
caratteristici: varietà di piante coltivate, di preparazioni
alimentari che differiscono anche su aspetti significativi dalle
comunità vicine. Quando le sagre non sono piegate ad esigenze di
cassetta questa rigogliosa diversità è orgogliosamente (e
giustamente) esibita come una bandiera, un emblema, un elemento di
appartenenza. La
necessità di presentare al turista un'offerta per certi versi
facilmente riconoscibile ha indotto, non da oggi, a forme di
standardizzazione di ricette togliendo al turista più consapevole il
piacere della scoperta delle varianti (spesso anche su base
microlocale). Va anche sottolineato come l'aderenza filologica alle
espressioni della cucina contadina è stata spesso sacrificata con
l'intento di “arricchire” l'offerta della gastronomia
“tradizionale” con piatti più ricchi ed elaborati spesso assurti
quale espressione della “cucina regionale”. Valorizzare il patrimonio
di cultura gastronomica in tutta la sua variegata
ricchezza significa compiere alcune operazioni: innanzitutto risalire
al nesso tra preparazioni e sistemi agricoli, agropastorali (ma c' è
anche la pesca, la caccia, la raccolta) tradizionali. I piatti
nascono per valorizzare quanto i sistemi agricoli rendono disponibile
semmai attraverso qualche ingrediente minore importato. Spesso, però,
l'obiettivo è quello di valorizzare forme di scambio, ovvero materie
prime provenienti da ambienti vicini ma diversi (tipico lo scambio
tra costa e montagna). Il piatto si spiega non solo sulla base dei
sistemi agricoli e agropastorali. Questi sono caratterizzati da
differenti condizioni pedologiche e climatiche ma anche dal regime
fondiario, dalle condizioni di stanzialità piuttosto che di
transumanza e di fenomeni di emigrazione/immigrazione stagionale per
i lavori agricoli. Grande importanza nella costruzione della
“tipicità” (un ossimoro che mal si concilia con la peculiarità)
assumono anche le reti commerciali (presenza di fiere e mercati,
collocazione su direttrici commerciali a medio e lungo raggio).
Un
altro rischio: il feticismo della nostalgia
Le
esigenze di vita e le abitudini di consumo a livello individuale,
famigliare, sociale (legate alle forme di insediamento, alla distanza
tra le abitazioni e i campi, alla disponibilità di forni, magazzini)
le tecniche disponibili per la conservazione delle vivande, la
disponibilità stagionale, le esigenze rituali (feste, celebrazione
dei raccolti) spiegano la varietà di costumi alimentari che
condizionano, al di là della disponibilità di determinate materie
prime, il modo di preparare gli alimenti. Essere consapevoli di
queste condizioni significa sapere perché nasce una preparazione, se
è possibile riproporla e con che finalità. Il feticismo della "cucina
contadina" (mitica) è una degenerazione altrettanto pericolosa della
"regionalizzazione" o "standardizzazione provinciale" (ma perché ogni
paese non può mettere il suo ingrediente negli agnolotti o nei
casoncelli?). La cucina è sempre stata in evoluzione come tutte le
cose. La tradizione è un'innovazione selezionata perché utile e messa
in buona evidenza. Intenderla diverasmente signifa tradire il senso
sociale dell'innovazione. Però c'è differenza tra evoluzione
e "terminazione". E quando si dice che la tradizione di deve adattare
alla globalizzazione non si è capito nulla.
Il
significato generale da attribuire alla ricerca di preparazioni
capaci di valorizzare materie prime fortemente ancorate nei sistemi
agricoli locali (in quando condizione della loro specificità e ,
spesso, unicità) consiste infati nel determinare una domanda non
surrogabile con prodotti globali. Tanto più la produzione è
specifica e limitata ad un territorio ristretto quanto più essa
consente di mantenere vitali le specifiche strutture agricole
nell'insieme delle loro relazioni fatte di manufatti, utensili,
saperi, paesaggi. Oggi l'attività su piccola e piccolissima scala
(legata ad offerte molto limitate e caratterizzate) “rischia” di
essere economicamente (oltre che socialmente ed ecologicamente) più
sostenibile di scale medium o large (è il tempo delle strutture XXL)
secondo le ben note implicazioni virtuose delle filiere corte, capaci
di generare una catena di valore moltiplicativa in ambito locale non
solo in termini di valore economico, occupazione, ma anche di valori
e capitale sociale. La strategia di una differenziazione delle
produzioni agroalimentari rispetto alle produzioni commodificate che
trascinano a valori infimi il prezzo delle produzioni di massa (uva,
latte, cereali) (meri volani dell'economia finanziaria e tutt'al più
della grande distribuzione) è tanto più efficace quanto più
attuata su scala limitata ribaltando i vantaggi delle economie di
scala che oggi portano – progressivamente ma inesorabilmente - al
vicolo cieco della perdita di valore e quindi dell'espulsione di
risorse dall'economia globale con quanto ne discende in termini di
marginalizzazione.
Rendere
sostenibili i sistemi di produzione agroalimentare frutto
dell'adattamento alle condizioni dell'ambiente significa minimizzare
gli impatti dell'agricoltura industrializzata impigliata nei
meccanismi perversi della produzione quantitativa che trascina la
perdita di valore e compromette i valori non economici, i beni
comuni, i capitali territoriali, culturali, sociali, umani. Si fa
riferimento agli mpatti legati all'impiego di energia fossile, ai
trasporti, alle materie prime non rinnovabili, alla chimica
(pesticidi). Mezzi adottati sotto la spinta del mercato
internazionalizzato che consentono di adattare le condizioni locali
ai requisiti di una produzione standardizzata richiesta dai processi
di trasformazione industriale e alle esigenze di una competitività
globale che spinge a minimizzare gli input di manodopera sulla spinta
dell'applicazione di tecnologie meccaniche, informatiche, chimiche
che spostano solo in là la compressione dei margini economici e
autoalimentano l'erosione della quota di valore aggiunto agricolo,
sulla spinta del costo degli input tecnologici e della continua
discesa dei prezzi del prodotto commodificato.
La
sottrazione di spazi di produzione agroalimentare alla dittatura del
global food system è atto di valore sociale, culturale, ambientale e
politico, capace di catalizzare risorse locali per processi di
sviluppo rurale endogeno e autopropulsivo . Se questo, però, è il
fine generale è anche vero che non vi sono ricette automatiche. Il
cibo deve essere comunque prodotto a condizioni economiche tali da
poter consentire margini per i diversi attori della filiera e il
prodotto in quanto tale (o le sue trasformazioni e le preparazioni in
cui entra) devono altresì incontrare una domanda, devono presentare
caratteristiche tali da essere graditi al consumatore di oggi, sia
pure attraverso adeguate forme di trasmissione di informazioni e di
educazione al gusto.
Di
qui l'interesse a una ricerca sul terreno dell'elaborazione
gastronomica per sperimentare le condizioni alle quali piatti
“poveri” della cucina contadina e pastorale possono essere
riproposti, senza stravolgerli ma apportando degli adattamenti entro
il quadro di una naturale evoluzione di gusti al consumatore d'oggi.
Una necessità di adattamento che a volte è dettata anche dalla
impossibilità di disporre di alcuni ingredienti del passato o dalla
non opportunità per ragioni dietetiche o igieniche di ricorrere al
loro utilizzo. Va comunque considerato che, anche nella più povera
delle cucine contadine esistevano i piatti delle festività, più
ricchi , e che anche in passato la monotonia dei “piatti base”
era rotta dalla disponibilità dei frutti della raccolta (funghi,
piccoli frutti, lumache, piante spontanee commestibili, della caccia,
della pesca). Questi “extra” consentivano di arricchire la tavola
e alcune preparazioni solitamente più “povere”.
Il
consumatore deve poter decifrare i codici delle cucine locali
Qualcuno
considera esercitazioni pedanti quelle
sulla filologia del cibo. Tutto sta nel aiutare a capire il linguaggio
del cibo. La cucina è analoga ad una lingua, se l'utente la padroneggia
l'atto del mangiare - così inestricabilmente caratterizzato da stimoli
sensoriali, emotivi, cognitivi interagenti - sarà un atto gratificante,
tale anche da gratificare chi lo propone. La
consapevolezza delle ragioni alla base della diversificazione della
cucina contadina (stagionalità, disponibilità occasionale di
prodotti “ricchi”, esigenze di celebrazione rituale) se
convenientemente trasmessa al consumatore può diventare elemento utile
e necessario di
apprezzamento dell'offerta di una cucina di riproposizione e di
ricerca. Lo stimolo di un'attività di ricerca e di sperimentazione
nella pratica culinaria nell'ambito della ristorazione tradizionale
non va comunque limitato alla valorizzazione dell'offerta agricola
esistente. Sotto la spinta della Pac e dell'internazionalizzazione
del mercato gli ordinamenti colturali si sono impoveriti e
semplificati e le antiche vocazioni alla policoltura e al
poliallevamento si sono ridotte alla monocoltura basata vuoi sulle
coltivazioni legnose specializzate (vite, olivo) o la zootecnia
intensiva (spesso abbinata alla produzione di mais da foraggio).
Sarebbe impensabile riproporre la tradizione alimentare senza
riattivare coltivazioni e allevamenti un tempo tradizionali (basti
pensare a quello dell'oca così radicato in diverse aree della
pianura lombarda) , senza attivare quelle produzioni abbandonate da
tempo quali quelle dei cereali minori, del grano saraceno alla base
di interi sistemi di cucina locale. La spinta a questa
diversificazione colturale e allevatoriale (capace di autoalimentarsi
attraverso i nessi che legavano i sottoprodotti di un'attività di
allevamento e coltivazione a un'altra) punta non solo a ridare valore
a quelle superfici agricole che oggi forniscono un reddito (modesto)
solo grazie ai premi Pac ma che sono già marginalizzate dal mercato
e quindi facile “preda” di usi non agricoli, ma - ancor più - a
recuperare quegli spazi colturali del tutto abbandonati o regrediti a
forme estensive un tempo impensabili. Basta pensare ai campi divenuti
prati, ai prati divenuti pascoli e ai pascoli divenuti boscaglie, ma
– soprattutto – alle tanti superfici terrazzate, frutto di
bonifiche che implicarono immenso lavoro di generazioni e che oggi
vengono gradualmente cancellate dalla crescita delle essenze arboree
che con lo sviluppo radicale minano la stabilità dei muri.
Fortunatamente non mancano le idee per il riutilizzo per la
produzione orticola (ma anche a certe condizioni cerealicola) con
sistemi biointensivi e con colture ad alta intensità di manodopera
ma di elevato pregio (vedi zafferano). Non mancano altre esperienze
di rivalorizzazione delle superfici agrosilvopastorali. Così per il
rilancio della castanicoltura, attraverso impegnativi interventi di
rinnovamento e risanamento delle selve castanili, così attraverso lo
sviluppo della tartuficoltura e – in area alpina –
dell'olivicoltura.
Conoscersi
per riconoscersi e trovare motivazioni e leve per azioni di sviluppo
rurale e comunitario
Non
sono poche le iniziative in atto (vedi il rilancio della coltura del
grano saraceno, del farro, delle antiche varietà di mais, il
rilancio della segale e dei cereali antichi). Appare però utile che
il variegato panorama costituito da esperienze che avanzano per
tentativi trovi le occasioni per raccontarsi e confrontarsi e per
trovare forme di collaborazione (attraverso le reti di località
legate alla valorizzazione di antiche varietà di una specie
coltivata, attraverso lo scambio di prodotti, che ricalca – anche
in forme nuove - le antiche connessioni ecologico-commerciali del
passato). Collegarsi significa anche costituire delle coalizioni per
farsi conoscere e per contare di più. Tante piccole realtà ed
esperienze che sono in grado di mettersi in rete senza far valere
gerarchie e primazie possono diventare un soggetto in grado di
intervenire sulle scelte politiche, sull'attività regolativa degli
organi pubblici.
Conoscersi
significa stimolare anche l'autoriconoscimento e il senso di identità
appannato di comunità più o meno piccole. Il valore di quest'azione
è tanto più elevato quanto più questo processo si rafforza per via
di una parallela esperienza di altre comunità e lo stimolo
reciproco.
Chiamare
delle realtà territoriali specifiche a presentare la propria
tradizione gastronomica contadina nel contesto di un progetto in
grado di coinvolgere parecchie comunità e di lasciare traccia di sé
attraverso materiale video e cartaceo e un volume rappresenta il
cuore del progetto avviato dal Centro studi valle Imagna e dalla
Bibliosteria di Cà Berizzi (di Corma Imagna) con la collaborazione
del Festival del pastoralismo e della rete lombarda dei Territori del
cibo (ne abbiamo parlato qualche giorno fa, vai all'articolo).
L'auspicio è che nel contesto di ERG si abbia la lungimiranza
di aprirsi a queste esperienze agricultuali (la u non è un refuso).
Oggi la sinergia tra componenti sociali e culturali delle comunità per
elaborare progetti di sviluppo rurale centrati sul cibo e
l'alimentazione diventa un elemento chiave dell'agenda locale. Siamo
ben consapevoli che la componente professionale del mondo dei pubblici
esercizi arriccia il naso quando si parla di sagre , di pro loco, di
iniziative in tema di gastronomia gestite da soggetti informali o
"spuri". Ma è necessario mondare il grano dal loglio. Siamo
stati i primi con il "Manifesto
della sagra di qualità" a denuncciare
le stumentalizzazioni che ci sono dietro le sagre. Però continuiamo a
ritenere che nell'ambito delle sagre si muove un mondo affascinante di
cuoche rurali depositarie (più e meglio delle osterie finte, non
importa se chiocciolate o meno) . Mettere in rete queste realtà
"ruspanti" ma preziose con le associazioni culturali, gli ecomusei, i
musei contadini e del territorio facendoli spesso uscire dalle
incrostazioni di eruditismo, sindrome della torre d'avorio, del "il
cibo non è cultura" è necessario, non solo utile. Così come tutti
questi soggetti devono poter parlare alla ristorazione consapevole che
ha gli strumenti culturali, tecnici, operativi per tradurre in
iniziativa concrete l'azione dei soggetti diffusi". Così si creano
"territori del cibo" che poi sono le comunità locali in senso vero e
pieno. Non si può restare fermi a "comunità del cibo" fatte solo di
produttori agricoli e di risptoratori. Anche solo per riuscire a fr
dialogare tra loro queste due componenti è necessario che ci siail
tessuto di commessione rappresentato dalle forze vive locali (quelle
culturali, dia ltri settori economici, le amministrazioni locali quando
virtuose). Da parte loro i soggetti citati: il Centro studi
valle imagna (con i suoi bracci operativi nell'ambito dell'ospitalità
rurale e della cucina: Cà Berizzi e Locanda Roncaglia), il Festival del
pastoralismo, la rete dei Territori del cibo (con i produttori e i
ristoratori che vi fanno capo) si imegneranno per costruire modelli di
riferimento su queste linee.
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