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COMUNICATO. RIPARTE LA CAMPAGNA DI
AZIONARIATO POPOLARE A SOSTEGNO ALLO STORICO RIBELLE (EX-BITTO STORICO)
Dopo il cambio di statuto per
divenire Società Benefit, secondo la nuova legge in vigore dal 1
gennaio 2016, la Società Valli del Bitto riapre
la campagna di azionariato popolare. Società benefit è quella che non
mira solo al proprio utile ma a vantaggi per la società, il territorio,
l'ambiente.La Società Valli del Bitto punta solo alla sostenibilità
economica e non al lucro. Senza di essa non potrebbe conseguire i
propri scopi che sono in primo luogo garantire - attraverso la
valorizzazione economica - la sopravvivenza del formaggio "storico
ribelle" (ex-bitto storico) con tutto il suo sistema di produzione in
alpeggio che rappresenta un monumento di cultura e di
biodiversità. Lo
"storico ribelle" è Presidio Slow Food, il presidio che - a detta di
Slow Food - incarna forse al meglio il principi del cibo "buono -
pulito - giusto". Tutti possono partecipare a questa Società che
incarna l'ideale dell'agricoltura etica sostenuta dalla comunità che, a
sua volta, sostiene il territorio. Sottoscrizione minima 150€ ( massimA
20 mila €). Ai soci viene riconosciuto un "dividendo etico" in
natura pari al 2% del capitale sottoscritto. Per sapere come
associarsi:
TEL. 334 332 53 66
Articoli
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Lo
storico ribelle che porta benefit alla società e all'ambiente
(23.12.16)
Dal 29 novembre la Società Valli del Bitto (meglio nota come
"ribelli del bitto") è bcorp. Una formula che impegna le società a
promuovere vantaggi (in inglese "benefit") per la società, la comunità
locale, l'ambiente. Riducendo, attraverso le sue attività (e nonla
beneficienza) gli impatti negativi per le persone e l'ambiente e
determinando impatti positivi.
Valtellina
che gusto... industriale
(23.11.16) Uno
stile industriale di marketing del fasullo per promuovere un
agroalimentare industrializzato, banalizzato, omologato. Sperperando i
soldi di chi paga le tasse. Ma non basta. Dopo aver espropriato
il bitto storico del nome "bitto" la promozione "ufficiale", continua a
mimetizzare il bitto "legale" ovvero quello "Nuovo omologato" con
lo "Storico ribelle" (il vero bitto che si fa come secoli fa).
Ribellarsi
è giusto e paga (17.11.16)
Lo storico ribelle, liberatosi del nome "bitto" che ormai procurava
solo grane (ed esponeva alla minaccia permanente di denuncia per "lesa
dop") va meglio di prima. Chi ragiona restando nelle coordinate della
vecchia politica pensava che fosse un salto nel buio. Invece i
sostenitori aumentano e lo storico ribelle sbarca in nuovi prestigiosi
templi del gusto.
Varrone
e Biandino cuore di ferro e formaggi (28.08.16)
28.08.16 Nei giorni cruciali in cui l'ex bitto storico cambia nome
approfondiamo alcuni aspetti sinora poco messi a fuoco della storia e
della geografia di questo mito caseario
È ormai bittexit
e fa paura ai nemici del bitto storico (17.07.16)
I nemici del bitto storico
non potranno più utilizzarlo come "traino" di una dop
massificata . Non sarà più possibile giocare sull'equivoco di
due produzioni "simili".
E con la fuga del vero bitto dalla dopsi
profila una figuraccia di grandi proporzioni
per la Valtellina
(13.06.16)
Commercianti si spacciano per l'ex bitto storico
Se si danneggiano i ribelli del bitto si può usare del
tutto impropriamente la denominazione "Bitto storico" e
illegittimanente quella "Bitto".
La storia di una degustazione organizzata in
Umbria da un'incolpevole Ais con il "bitto storico" ...
senza che vi fosse l'ormai ex bitto storico presidio Slow food
(29.04.16)
Assemblea a difesa delbitto storico il 7 maggio a Gerola
Lo Storico formaggio prodotto sugli alpeggi delle
Orobie, da secolo noto come formaggio del Bitto non può essere più
chiamato con il proprio nome. Dopo vent'anni le lobby
politico-burocratico-industriali sono riuscite ad espropriare i
produttori storici. Ma la società civile sta preparando la
mobilitazione
(14.04.16) Il
formaggio Storico dei ribelli del bitto da Peck
Lo Storico formaggio prodotto sugli alpeggi delle
Orobie è in vendita da Peck . Quello dell' estate
2015) a 92€ al kg, quello del 2009 a 26€ all'etto. Il bitto dop
dei mangimi e dei fermenti , prodotto senza latte di capra, a
volte in condizioni semi-industriali, continua a calare di prezzo
Bitto storico:
rivoluzione permanente (2.10.15)
A Cheese ques'anno il tema era il formaggio dei pascoli e, complice
anche l'indignzione per il tentativo di imporre il formaggio senza
latte, il bitto storico non poteva che essere al centro dell'attenzione
in quanto "campione" della resistenza casearia. Ma l'attenzione è stata
anche per la sua "rivoluzione dei prezzi"
(08.09.15) Nuovi
documenti storici incoronano il formaggio Vallis Biti (bitto
storico)
Cirillo Ruffoni ci ha segnalato nuovi documenti storici che consacrano
già nel Cinquecento il formaggio delle Valli del Bitto. Già
allora riconoscibile rispetto ai formaggi prodotti in altre
zone, tanto da costituire per loro anche un termine di paragone.
Scusate se è poco
(02.09.15) Bitto
storico: un autunno di decisioni e novità
La stagione d'alpeggio 2015 si sta chiudendo con un bilancio molto
negativo in termini di quantità prodotta, causa della
siccità di luglio. Sul fronte dei rapporti con le istituzioni
l'accordo siglatonel novembre 2014 si sta rivelando un bluff.
Stimoli per i "ribelli del bitto" per rilanciare con forza
l'originalità delle loro esperienza facendo leva
sui suoi punti di forza
(23.08.15)
Siccità sugli alpeggi. Colpiti i pascoli più sostenibili
La grave siccità che ha colpito gli alpeggi a luglio non è
rimasta senza conseguenze. Ma chi soffre di più per il calo di
produzione di latte è chi non usa i mangimi, ovvero chi rispetta il
pascolo e l'ambiente. Così solo i "puristi" si sono fatti sentire
(22.08.15) Bitto
storico rivoluzionario
Attraverso la creatività commerciale contadina i ribelli del bitto sono
riusciti a imporre per il proprio prodotto un prezzo etico. Esso
consente un equilibrio economico compensando gli elevatissimi
costi di una produzione che va contro gli schemi della società
industriale e consumistica (che si sono imposti anche
nella produzione agroalimentare)
Articoli per argomenti
|
Il
Dizionario del bitto ribelle (II)
di
Michele Corti
Parte II (D-L)
D. Dediche, Difetti, Dinastie, Disciplinare,
Disertori, Dop
E. Expo, Esproprio
F. Funzionarie/dirigenti, Fermenti
G. Garòtt, Gerola, Gràss, Gendarmi, Giusti, Gonfiore, Grana, Grasso, Guerra, Guerriero
H. Homo selvadego
I. Inizio, Integralisti, Invecchiamento
L. Latteria, Lavorazione, Lecco, Legno, Lesina, Livrio
VAI ALLA PARTE I (A-C); PARTE III (M-Q) PARTE IV (R-Z)
Dediche = Le Forme migliori selezionate dalla Società Valli del bitto
possono essere acquistate e personalizzate e vengono affinate nella
casèra di Gerola Alta che negli anni è diventando un vero e proprio
museo o santuario (dove le dediche ricordano gli ex voto). La forme in
dedica sono acquistate da privati, ristoratori, associazioni. Raggiunta
la stagionatura desiderata, o in occasione di una ricorrenza
importante, si ritira la propria forma in dedica. La forma viene pagata
anticipatamente e ogni anno si paga un contributo per la conservazione.
Tutte le forme sono 'consultabili' sul sito
http://www.formaggiobitto.com/it/la-casera/forme-in-dedica
Difetti =
I difetti del formaggio in molti casi sono relativi, vanno valutati in
relazione al tipo di formaggio. Così è molto diverso valutare un
formaggio industriale da latte pastorizzato e uno artigianale prodotto
a latte crudo e senza fermenti, Ciò non significa che si deve essere
'tolleranti' nel caso dei formaggi artigianali. Anzi, nel caso dell'
'storico ribelle', destinato alla lunga stagionatura, i difetti vanno
valutati con severità.
Essi sono legati in larga misura al fatto che il formaggio nel primo
periodo di maturazione (1-2 mesi) è conservato nelle casere d'alpeggio
prima di essere avviato al Centro del Bitto
in agosto, verso la fine della stagione. Non sempre queste casere,
specie dopo gli interventi di ristrutturazioni eseguiti in tempi
recenti sono 'macchine da stagionatura' perfette come un tempo. L'uso
di nuovi materiali e l'applicazione di regole 'igienistiche' improntato
ad una conformità più formale che sostanziale ai principi igienici, a
volte entra in contraddizione con le esigenze di qualità del formaggio.
Si aggiunga che la disponibilità di manodopera è oggi inferiore al
passato (salatura, rivoltamento delle forme, pulizia e raschiamento
delle stesse sono operazioni manuali che richiedono molto tempo) e
l'effetto dei cambiamenti climatici. Vi sono poi circostanze
imponderabili quali bruschi cambiamenti metereologici, contrattempi che
possono interferire nella normale routine e incidere negativamente
sulla qualità del latte o sulla lavorazione e la prima fase di spurgo
del siero e maturazione. Dal momento che i difetti sono ineliminabili
(e che lo 'storico ribelle' resta fedele all'assoluta naturalità delle
produzione) la qualità di garantisce selezionando le forme che
presentano difetti o segni di possibile manifestazione degli stessi,
vendendo il formaggio con difetto fresco in alpeggio come 'grasso
d'alpe' e non avviando al Centro del Bitto
partite che potrebbero presentare significativa incidenza di difetti
(che comportano anche un grande lavoro e forti perdite economiche per
scarti). I difetti si possono dividere in
tre tipi: 1) difetti di crosta o di superficie rilevabili all'esame
visivo e senza tagliare la forma; 2)
difetti di struttura (o pasta) rilevabili, all'esame visivo e
tattile, tagliando o tassellando la forma o - in alcuni casi,
attraverso un esame del suono prodotto battendo la forma con apposito
martelletto; 3) difetti di aroma e sapore
rilevabili solo con l'esame gustativo. In alcuni casi, però il
difetto si manifesta sia sotto il profilo dell'aroma e del sapore che
della pasta. Tra
i difetti che possono essere riscontrati in formaggi semiduri e a
crosta pulita come lo 'storico ribelle' si devono considerare: danni
da acari (vedi 'acari'), spaccature e fessurazioni della crosta (vedi
'spaccature), colori anomali della pasta (vedi 'colore'), gusto amaro
(vedi 'amaro'), gonfiore tardivo (vedi 'gonfiore'), sfogliatura (vedi
'sfoglia').
Dinastie =
Sono quelle dei
casari del bitto: orginarie della Valgerola (alcune, in origine,
valsassinesi) si sono poi stabilite in gran parte nel fondovalle tra
Piantedo e Talamona. Tra quelle che hanno proseguito sino in tempi
recenti i Curtoni, i Fallati, i Maxenti, gli Acquistapace, gli
Spandrio, i Manni,
i Ruffoni, i Colli, originari di Gerola, i Mazzoni di Albaredo, i
Piganzoli di Rasura e altri ai quali si devono aggiungere le dinastie
della val Tartano e della val Brembana.
Disciplinare
= "Galeotto fu il
disciplinare". Nei disciplinari del bitto dop, quello legale, quello
tutelato dalla UE, vi è l'origine della 'guerra del bitto', del
conflitto in atto dal 1994. Il primo disciplinare sanciva con un falso
storico clamoroso che il bitto si produceva tradizionalmente (quindi,
ai sensi della legislazione comunitaria sulle denominazioni di origine,
da almeno venticinque anni)
in tutta la provincia di Sondrio. Pubblicazioni ufficiali di Regione
Lombardia, Ersal (attuale Ersaf), Ministero dell'agricoltura, marchi
come quello 'Valtellina' della Camera di commercio di Sondrio, (l'ente
che in prima persona promuoveva la dop) attestavano che non era vero.
Il marchio 'Valtellina' sino al 1993 attestava che "il bitto è prodotto
esclusivamente nella Valtellina di Morbegno, nel resto della provincia
si utilizza la denominazione 'formaggio grasso d'alpe'". Il censimento
degli alpeggi della Regione Lombardia che verificò, alpe per alpe, cosa
si producesse rappresenta un ulteriore documento che inchioda le
istituzioni che promossero e approvarono la dop 'bitto'. Una bugia non
diventa verità perché i bugiardi si mettono d'accordo tra loro. Così
con un tratto di penna si decretò che il bitto, da allora in poi, si
sarebbe prodotto in tutta la provincia di Sondrio. A testimonianza del
'rigore storico' si dimenticarono di inserire gli alpeggi in provincia
di Lecco dove il bitto si produceva da secoli. Vennero 'recuperati'
successivamente. Non solo si barava sull'area di produzione ma, con la
fondazione del bitto dop, si violava l'identità storica del formaggio
bitto sotto un altro riguardo: si 'tollera' nella misura massima del
10% il latte di capra che i casari storici consideravano fondamentale
per conferire al bitto le caratteristiche che lo distinguono. L'esame
della presenza storica delle capre sugli alpeggi indica che la
percentuale di latte di capra arrivava al 20-25%. Nel 2005 il
disciplinare venne modificato ( "per tener
conto dell’evoluzione delle conoscenze
scientifiche e tecniche”, più prosaicamente per legalizzare i mangimi (fino a 3 kg di
sostanza secca al giorno per bovina) e i fermenti selezionati. Quelli
che erano i 'dissidenti' che dal 1994 reclamavano una distinzione del
bitto dell'area storica da quello prodotto in tutta la provincia
divennero da allora i ribelli. Non accettavano che il loro formaggio,
prodotto con le regole di secoli, venisse messo sullo stesso piano del
'nuovo bitto'. Di conseguenza i ribelli fissarono con rigore le loro
regole nel loro disciplinare che divenne quello del Presidio Slow Food a partire dal
2003 e che non è cambiato: minimo 10% di latte di capra orobica,
lavorazione entro mezz'ora dalla fine della mungitura, niente
mangimi.
Disertori =
vedi Traditori
Dop
= La vicenda del bitto è figlia della dop (la normativa europea sulla
tutela delle produzioni a denominazione di origine). La dop doveva
'salvare' il bitto da una triste sorte di imitazione. Sembrava che
senza la dop in tutta Italia vi fossero caseifici pronti a produrre
bitto. Probabilmente il retropensiero dei 'padri della dop' correva già
a un bitto prodotto tutto l'anno (la sorte occorsa a tutti gli altri
formaggi d'alpe compreso il Formai de mut
dell'alta Valbrembana, fratello minore del bitto stesso). Certo sarebbe
stato più facile imitare un bitto invernale anche se l'esempio della
Fontina ci racconta dell'altro: che, nonostante il crollo della qualità
del formaggio valdostano (prodotto tutto l'anno in quantità
crescenti che hanno raggiunto le 400 mila forme) non è solo il nome a
differenziarla dal Fontal (quasi sempre distinguibile anche da un
consumatore non particolarmente esperto). In ogni caso la vicenda del
bitto non rappresenta un caso isolato: è solo quello che ha innescato
una conflittualità più forte e che è rimasto aperto per oltre vent'anni
contribuendo a mettere in evidenza le gravi contraddizioni del sistema
delle Dop caratterizzato dall'ambigua convivenza di un obiettivo
puramente economico e da quello di tutela dei valori rappresentati
dalla qualità e dalla tradizione produttiva. Le Denominazioni di origine
nascono in realtà molto prima della formazione della Comunità europea.
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale,
con la ripresa del commercio diversi paesi si avvertì l’esigenza di
tutelare quelle produzioni casearie che in forza di un reputazione
internazionale
erano oggetto di imitazione in altri paesi. Evidente quindi che le DO
nascono in un contesto di commercio internazionale e riguardano
prodotti di ampia produzione, prodotti che, per fare fronte
all'esigenza di rifornire ampi mercati si sono gradualmente allontanati
dalle tecniche artigianali originali (quelle si legate au preciso
contesto) dipendendo sempre meno da fattori 'unici' legati ad un
territorio ben definito e a quelle procedure produttive 'locali, leali,
costanti' che dalle origini delle DO ad oggi, rappresentano la
giustificazione 'ideologica' di un sistema di protezione che, in
realtà, è diventato spesso solo una forma di differenziazione del
mercato, una barriera artificiale alla concorrenza. Tutto risale
alla conferenza di Stresa del 30, 31 Maggio e 1 Giugno 1951 cui
aderirono
Italia, Francia, Belgio, Svizzera, Austria, Danimarca, Svezia, Olanda e
Norvegia.
Nella conferenza fu adottata una classificazione dei formaggi che
prevedeva due categorie: nella categoria A i formaggi a Denominazione
d’Origine, cioè “quelli prodotti tradizionalmente, osservando usi
locali, leali, e costanti, in zone di produzione geograficamente
delimitate, dalle quali traevano le
loro caratteristiche”; nella categoria B i formaggi a Denominazione
Tipica, ovvero “prodotti osservando usi tradizionali, leali e costanti,
che traevano la loro
caratteristica dal metodo di produzione”. Va notato che inizialmente,
in forza dell'applicazione di un principio meno 'rilassato', un
prodotto come il Taleggio nel 1955 era stato classificato come Tipico
accedendo alla Denominzione di origine solo nel 1988. Il Regolamento vigente ( CE 510/2006 ) definisce così la Denominazione di origine protetta:
"
il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali,
di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare
originario di tale
regione, di tale luogo determinato o di tale paese e la cui qualità o
le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente al
particolare ambiente
geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui
produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area
geografica delimitata". Le Dop in termini di spinta
alla standardizzazione e alla industrializzazione delle produzioni
hanno comportato un drastico allontanamento dei prodotti 'tutelati'
dagli 'usi costanti' non solo in termini di tecniche di produzione ma
anche delle stesse caratteristiche. Basti pensare alla scomparsa del
Granone lodigiano ma anche del Reggiano, formaggi molto diversi (per
forma, trattamento della superficie, caratteristiche organolettiche)
dagli attuali Grana padano e Parmigiano Reggiano. Ciò che spesso
comportato non solo un 'esproprio patrimoniale' ai danni di piccoli
produttori e delle aree di montagna. Le comunità (di produttori ma
anche territoriali) che avevano costruito una strategia di tipicità in
termini di immagine, di saperi, di tecniche, di modalità di
commercializzazione, nel corso di lunghi e faticosi processi, si sono
viste, quasi all'improvviso, la propria produzione annegata e confusa
con un prodotto banalizzato ottenibile a costi meno elevati. Spesso è
anche venuto meno l'appeal di destinazioni turistiche per le quali il
prodotto 'raro', rappresentava l'unico o principale attrattore.
Consapevoli di ciò che comporta il riconoscimento della Dop parecchie
produzioni evitano oggi di rincorrerlo (e c'è persino chi pensa a come
'recedere' dala Dop). Per non cadere in una condizione in cui il
'pallino' finisca per sfuggire di mano agli attori locali a vantaggio
degli industriali e della pianura.
I danni delle Dop non finiscono qui.
le Dop e Igp hanno monopolizzato le denominazioni territoriali. Per
tutelare questo monopolio, basato su un riferimento
territoriale ambiguo e spesso ingannevole, la Ue esercita un'arcigna
vigilanza circa l'uso di marchi
collettivi riferiti ad una qualsivoglia entità territoriale,
danneggiando le produzioni realmente ancorate al territorio. Il
riferimento delle Dop spesso riguarda 'pezzi' interi di stati, se non
stati interi, e quindi grandi filiere produttive che non presentano
alcun ancoraggio a un 'terroir' (l'ambito concreto in cui la relazione
tra caratteristiche geografiche legate a fattori umani e ambientali è
efficace). Dove, come nel centro-nord Europa l'industria e l'igienismo
hanno fatto tabula rasa di filiere locali artigianali di produzione la
Dop non ha potuto produrre danni. In Francia, Spagna, Italia, invece,
da tempo la componente meno industrializzata del settore agroalmentare
spinge per una revisione del sistema che non penalizzi più le 'nicchie'
come avviene nell'attuale quadro normativo.
Elogi = Difficile trovare un formaggio che sia stato oggetto di così numerosi elogi nell'arco di un periodo di cinque secoli
1550. Franca
Prandi in una pubblicazione del 2014 cita un documento di
recente acquisizione (1). Dal documento notarile si deduce che il
5 luglio 1550 Gio. Pietro de Cataneis di Valleve
vendeva a Castellino Beccaria le alpi di val Cervia e val Madre.
Il Beccaria era subito investito a livello per un fitto annuo di
libbre 100 di “formaggio grasso, salato e stagionato”, per il primo
anno e successivamente: "... in
bono caxeo bene sucto et salato et bene ordinato qui sit […]
pinguedinis et bontatis melioris caxei pingui, sucti, salati Vallis Biti [in
formaggio buono, ben stagionato, salato e ben curato, che sia per
qualità e per bontà del migliore formaggio grasso, stagionato e salato
della valle del Bitto] . Dal che la Prandi conclude che: "Il formaggio
grasso prodotto nella valle del Bitto era già affermato, quindi e
soprattutto riconosciuto come prodotto di alta qualità, molto
apprezzato dai buongustai e non solo, che già allora veniva smerciato a
prezzi piuttosto alti.
1553. Ortensio
Lando, nel XVI secolo, cita il formaggio della valle del Bitto nel suo “catalogo” delle “cose
che si mangiano e beveno” in Italia.
(O. Lando, Commentario
delle piu notabili, & mostruose cose d'Italia, & altri
luoghi: di lingua Aramea in italiana tradotto. Con vn breue catalogo
de gli inuentori delle cose che cose che si mangiano et beueno,
nouamente ritrovato, Cesano Bartolomeo,
Venezia, 1553). A proposito dell’attuale provincia di Sondrio, allora dominio dei
Grigioni avverte: “ Non ti scordar... anche i maroni chiavennaschi,
non il cacio di melengo [Valmalenco], et della valle del Bitto".
1629. Nel secolo
successivo in un registro dell’ Hosteria
granda di Tirano - forse il più qualificato
esercizio alberghero della Valtellina – in data 1629 si rinviene
un’annotazione relativa alla vendita di alcune forme di “formaggio
di Val del Bitt”. Nel 1629 e nel 1671 figurano annotazioni relative all’acquisto
di alcune forme di «formaggio di Val del Bitt» a prezzi – 11-13 lire il peso –
nettamente superiori al generico «formaggio grasso» di verosimile origine
locale, acquistato a 5 lire, ma anche al «formaggio grasso» tedesco (9 lire).
La discrepanza di prezzo – che la dice lunga sulla differente considerazione
goduta dal formaggio della valle del Bitto rispetto al «formaggio grasso»
valtellinese grazie alla Dop equiparato al primo – è principalmente dovuta alla
diversa capacità di invecchiamento. È probabile che quello che arrivava sulle
tavole dell’Hosteria granda fosse un
bitto di due o tre anni, il che giustificherebbe la differenza di prezzo
rispetto al formaggio locale, senz’altro dell’ultima stagione di alpeggio.(D.Zoia, "L'Hosteria granda di Tirano. Approvvigionamenti, arredi, servizi di un albergo nel sec. XVII", in Bollettino società storica valtellinese, n.49, 1996, pp.,143-174).
1813. "I soli cantoni di Sondrio, Morbegno e Ponte abbondano di
formaggi e butirri. Le qualità migliori dei primi sono somministrate
dalle loro vallate secondarie, come dalla Valle del Bitto, Val
Venina, Val Madre, Val Tartano, Val del Viori e Val del Masino, dalle
quali è diffuso nella Bergamasca e Milanese, ed assai poco se ne
smercia nel dipartimento".
(A.
Del Majno, «Memorie sull’agricoltura del
dipartimento dell’Adda», in: Re Filippo, Annali
dell’agricoltura, Tomo XVIII, Milano 1813).
1823.
“[…] tra gli
ammucchiati macigni il fiume Bitto. Precipitano le acque sue dalla
Valle che gli dà il nome, celebre d’altronde per gli squisiti
formaggi che produce"(Descrizione della
Valtellina e delle grandiose strade di Stelvio e dello Spluga,
Milano, Societa Tipografica de' Classici Italiani, 1823).
1834.
"Le vacche somministrano
generalmente molto latte, specialmente quando pascolano sui monti,
per l'ottima qualità delle erba, e si ha quindi buona copia di
eccellente butirro che si spedisce nell'estate anche fuori di
provincia, e si fanno dei buoni formaggi, tra i quali è distinto e
ricercato quello del Bitto. Gli stracchini di Bormio sono grassi,
piccantissimi ed assai desiderati dai bevitori. L.
Balardini «Notizie statistiche intorno alla Provincia di Sondrio
(Valtellina)», in: Bollettino di statistiche
economiche italiane e straniere, Annali Statistica,
XL, 1834, 241-280 (p. 254) .
1837ca "Il formaggio grasso si conserva
assai bene e migliora in bontà riposto per alcuni mesi nei magazzini
entro la città di Como, per cui da taluni si pratica di lasciarvelo
stagionare e quindi spedirlo altrove in commercio. È osservabile
eziandio, che il formaggio destinato a smerciarsi nella provincia di
Bergamo vien preparato collo zafferano per colorirlo a foggia di
quello Lodigiano, mentre all'incontro non usasi zafferano per
quello da smerciarsi nelle provincie di Milano e di Como. I migliori
pascoli alpini trovansi nelle vallate del Bitto, Tartano, Masino, di
Cervia, Venina, ove fabbricansi i migliori formaggi grassi,
paragonabili almeno se non forse migliori degli svizzeri" (Regione
Lombardia, Settore Cultura e Informazione, Servizio biblioteche e
beni librari e documentari, Agricoltura
e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi:
1835-1839. Inchiesta
di K. Czoernig, Editrice
bibliografica, Milano, 1986, pp.721-722.)
1844. "Bormio e Chiavenna invece, che
alpeggiano le loro vacche nell’estate, danno buon buttiro, e buoni
cacci, ma
forse non tanto quanto l'ottima pastura ripromette, assai migliori
riescono nella
valle del
Bitto sopra Morbegno, credo per il migliore metodo dì prepararli" .
1853. “...gli eccellentissimi formaggi del Bitto e qualche capo di
bestiame che suol incontrarsi nel Territorio di Bormio bastano a
mostrare cosa la Valtellina sarebbe in grado di offrire" (
S.
Jacini, Sulle condizioni economiche della Provincia di Sondrio.
Memorie di Stefano Jacini, Stabilimento Civelli Giuseppe 1858 ,
Milano 2^ ed., p.32.
1875. "Nella valle del Bitto e di Tartano in confine della provincia di Bergamo si fabbricano eccellenti formaggi" Statitica del bestiame equino, bovino, ovino, caprino e suino, Ministero di agricoltura, industria e commercio, Roma, Cenniniana, 1875, p. LXXXVII
1931 [tra i formaggi della Valtellina] è
assai rinomato il bitto,
formaggio grasso fabbricato specialmente nella valle del Bitto, che
sbocca a Morbegno, centro del commercio di questo formaggio, e nelle
valli del Tartano e del Màsino”
Touring
club italiano,
Guida
gastronomica d’Italia,
Milano, 1931, p. 92.
1936. Il formaggio Bitto […]
ha preso il nome dalla Valle del Bitto, affluente di sinistra del fiume
Adda, che sgocia in territorio del Comune di Morbegno, dalla quale
vallata proviene la produzione migliore. (G. Melazzini, Il bitto. Formaggio grasso tipico, Società anonima arte della stampa, Roma, 1936).
Esproprio = Attilio Tartarini, esponente della Coldiretti, (Rassegna economica della provincia di Sondrio n. 9, 1995, p. 59) in
qualche modo ammetteva che "Quelli della Valgerola si sono
sentiti, anni fa, quando è iniziata l'estensione della produzione di
Bitto in tutti gli alpeggi, un po’“derubati”". Per giustificare quello
che appariva a molti come un esproprio senza indennizzo di un
patrimonio di secoli di una valle, di una comunità di pratica di
caricatori, stegionatori doveva sostenere una bugia: "Nella realtà non
si sarebbe mai ottenuta la denominazione di origine del formaggio con
una così limitata produzione". Bastava guardare oltre il Passo di San
Marco dove al "Formai de mut dell'alta
Valbrembana" era stata accordata una dop con una
produzione che era una frazione dei quella delle valli del Bitto. La
vicenda della dop bitto rappresenta un esempio di un esproprio
patrimoniale
Expo =
Sono due le Expo del bitto: quella del 1906 e quella del 2015 (entrambe
a Milano). Nel 1906 venne conferito un premio ai produttori del
formaggio 'detto del Bitto' (nel 'santuario' - vedi - è incorniciata
una copia) . L'Expo 2015 non ha invece portato molto di buono, anzi. In
vista dell'Expo fu siglata nel novembre 2014 la 'pace' del bitto (vedi)
che si rivelò presto un bidone. Collocato in fondo al decumano (lungo 2 km) lo stand di Slow Food
dove si è parlato in qualche occasione dell'ex bitto storico e dove
venivano offerti gli assaggi è stato pochissimo frequentato perché
metropolitane e ferrovia rigurgitavano i visitatori dalla parte
opposta.
Fermenti =
Rappresentano, forse ancor più del mangime, il termine di scontro
(anche simbolico) tra i tecnici e l'industria da una parte e i
produttori storici e ribelli dall'altra. Generazioni di tecnici hanno
predicato che la qualità di un prodotto artigianale potesse migliorare
solo con l'adeguamento ai progressi della tecnologia industriale. Solo
in anni recenti la 'necessità' di imporre ambienti di lavorazione
simil-industriali e i famosi 'fermenti' , ovvero colture di laboratorio
di poche specie batteriche poi liofilizzate e distribuite in bustine da
aggiungere al latte. I 'fermenti' rappresentano un argomento
scopertamente ideologico da oltre un secolo. Cosa c'entrano i
'fermenti' e altri 'miglioramenti' con la politica, con l'ideologia si
chiedono ancora oggi, cadendo dal pero, certi accademici? Come se
non fosse evidente che dietro la scelta di una razza da parte degli
zootecnici, di una tecnologia non ci fossero le spinte alla
trasformazione dei rapporti sociali e di potere nell'ambito
dell'agricoltura, come se i 'tecnici' fossero creature angeliche
slegate da interessi nella società. Lo Scalcini, direttore della Cattadra ambulante di agricoltura delle valli bergamasche,
nella relazione sull'attività della Cattedra stessa nel periodo
1906-1913 (Bergamo,1913) non nascondeva la sua poca simpatia per i
bergamini che qualifica: "allevatori quanto mai primitivi" e vedeva
nell'azione illuministica di 'innalzamento intellettuale' della
Cattedra un mezzo per facilitare la loro sedentarizzazione o al piano o
in montagna. Il formaggio doveva essere 'migliorato' come il bestiame
(si sono viste le conseguenze, nell'ambito della razza bruna, della
'svizzerizzazione' prima e della 'americanizzazione' poi) , anche se il
bitto/branzi aveva un ottimo mercato e un'ottima fama e quindi tanto
scadente non era. Eppure lo Scalcini ci informa che:
"...sempre per il miglioramento del branzi la cattedra ha
coadiuvato il chiarissimo professor Gorrini della regia scuola
superiore di agricoltura di Milano in una sua esperienza di semina di
fermenti selezionati, eseguita, nel 1909, sull'Alpe Ponteranica in
comune di Mezzoldo. L'esito di queste prove è stato soddisfacente, in
quanto che ne formaggi fabbricati con i fermenti si riscontrò una
perfetta conservazione della pasta e un sapore delicato ed ottimo;
mentre le forme di confronto, lavorati nelle stesse condizioni, ma
senza fermenti, presentavano varie pecche". Si ammetteva che si
trattava solo di una prova preliminare. Dopo quella prima prova
passarono ottant'anni prima che il bitto tornasse ad essere oggetto di
prove sull'uso dei fermenti per opera dei tecnici dell'Istituto
lattiero-caseario di Lodi. Quelle prime prove non sempre fornirono
esiti favorevoli (dosi e adattamento dei parametri di lavorazione
dovevano essere messe a punto). L'uso delle 'bustine', intanto si
diffuse dopo che il riconoscimento della dop 'bitto', nel 1995, aveva
esteso la produzione a valli dove era ignota la sua tecnica di
lavorazione. Le 'bustine' facilitavano indubbiamente i casari che
iniziavano a produrre bitto senza avere una scuola di generazioni di
casari del bitto alle spalle (la scuola dell'imparar guardando e
facendo da pastorelli). Ma erano le 'bustine' di fermenti industriali
(prodotte dalle ditte specializzate Sacco e Csl) che venivano
utilizzate anche per la produzione di altri formaggi. Gli
stagionatori (Colavev, Carnini, Latteria di Delebio)
'caldeggiavano' l'uso delle 'bustine' per nulla autoctone pena il
mancato ritiro delle forme. La banalizzazione era palese ed è storia.
In occasione della modifica 'modernizzatrice'
del disciplinate del 2005 con una formula tartufesca o forse solo
furbesca si proclamava una specie di ossimoro: "È consentito l'utilizzo di fermenti autoctoni che valorizzino la microflora casearia
spontanea". Come era possibile 'valorizzare' la microflora spontanea e
biodiversa, selvaggia ma proprio per questo capace di rendere il
formaggio di un alpe diverso da un altro (insieme, ovviamente ai
fattori pascolo e 'mano' del casaro? Ed ecco il secondo falso storico
della dop (dopo quello clamoroso
sull'area di produzione). Quali fermenti 'autoctoni' vennero approvari
con la modifica del disciplinare? La sperimentazione finalizzata ad
individuare i 'fermenti autoctoni' (dopo una campagna di prelievi
nel 2007) iniziò nel 2008-2009 e i risultati furono raggiuti nel 2010 e
pubblicati nel 2011
(“I formaggi DOP valtellinesi: miglioramenti tecnologici nel rispetto
della tipicità”
(Programma regionale di ricerca in campo agricolo 2007 - 2009). E prima
che 'bustine' venivano usate? Quanto ai 'fermenti autoctoni' si
tratta di ceppi selezionati di Streptococcus thermophilus ('selezionati'
non è in sé una parolaccia, significa che su un insieme di ceppi
isolati nei campioni di latte se ne scelgono alcuni e li si fa
moltiliplicare in laboratorio. Lo Streptococcus t.
che è la specie 'casearia' che viene normalmente
'allevata in caldaia'
in ragione della tecnica di lavorazione del bitto che prevede la
cottura della cagliata a 48°C e più gradi. Cosa cambia con i
'fermenti', selezionati (e, in alcuni casi geneticamente modificati in
laboratorio? Quando sono necessari? Innanzitutto va osservato che la
necessità universale proclamata dai tecnici, specie di certe scuole,
non è dimostrabile. Non pochi disciplinari di produzione di prodotti
dop (quindi non di casari 'trogloditi' e ignoranti, visto che le dop
sono riconoscimenti ufficiali passati al vaglio dei competenti organi
istituzionali) escludono qualsiasi tipo di fermento affermando che
questo comprometterebbe le caratteristiche uniche di produzioni
artigianali. Capire il perché si devono aggiungere gli 'starter' è
utile per non lasciarsi ingannare. La necessità deriva dall'impronta
che il sistema agroindustriale governato dalle multinazionali
dell'alimentazione, della chimica, dalle mega coop, dall'industria dei
mezzi tecnici, delle attrezzature, della 'genetica animale'. I fermenti
sono figli, innanzitutto, della refrigerazione e della pastorizzazione
del latte che ha consentito all'industria di eliminare la concorrenza
dei piccoli caseifici locali movimentando enormi masse di latte su
lunghe distanze e sfruttando le economie di scale. Non solo il latte
pastorizzato è morto ( i microrganismi utili per la caseificazione e la
produzione del formaggio sono stati uccisi) ma esso può essere
contaminato con microflora anticasearia. Di più, anche quando il latte
non è pastorizzato, nelle attuali condizioni dell'industria zootecnica,
a causa della sosta in tank di refrigerazione, dell'eccesso di pulizia,
dall'eccesso di uso di disinfettanti e prodotti chimici per la pulizia
il latte è dismicrobico, ovvero è caratterizzato più dalla presenza di
microrganismi anti caseari
(microrganismi psicrotrofi derivanti da acqua, suolo e attrezzature,
clostridi e propionibatteri, derivanti dal suolo o dagli insilati,
microrganismi patogeni, derivanti dagli animali e dagli operatori) che
di microrganismi utili.
In queste condizioni senza aggiungere i fermenti anche il
latte crudo, non termizzato è un latte 'spento', un o' malato che non
evolve naturalmente in formaggio. Utilizzare gli 'starter, per i
formaggi artigianali, specie quelli prodotti in alpeggio è giustificato
dal desiderio di ridurre l'incidenza di difetti sapendo che il prezzo
che si paga è un appiattimento (più o meno grave in relazione a tanti
fattori) del gusto del formaggio. Lo
studio finanziato dalla regione scopriva l'acqua calda,
ovvero che l'aggiunta degli 'starter' (termine tecnico per riferirsi ai
'fermenti' selezionati aggiunti al latte in fase di lavorazione )
riduce il rischio di uno spurgo insufficiente, con tutte le conseguenze
in termini di fermentazioni anomale (favorite dal substrato favorevole
rappresentato dal siero trattenuto nella pasta). Ma il casaro 'di
tradizione' sa che applicando la regola della mancanza di fretta, dello
scrupolo, dell'attenzione a variare in funzione della variabilità da un
giorno all'altro del latte anche di poco i parametri (un grado in più,
un zic di caglio in meno, qualche minuto in più di un passaggio) si può
e si deve evitare uno spurgo insufficiente. Se il latte non sosta
troppo, se non è stoccato in condizioni inidonee (bidoni sotto il sole)
quella microflora naturale di cui il buon latte d'alpeggio è ricco,
convenientemente 'allevata' in caldaia consentità di far proliferare i
batteri caseari e di ottenere un'acidificazione graduale e sufficiente
senza la stampella degli 'starter'.
Un formaggio destinato a
stagionare anni non può permettersi di nascere in condizioni ottimali.
Ovvero in condizioni in cui il casaro è in grado di padroneggiare la
variabilità accidentale. Se, per qualche motivo, le condizioni
ambientali sono così avverse da non consentire di effettuare una
lavorazione al meglio (per sempio come quando crolla la tenperatura
ambientrale) non c'è nessun problema in un formaggio come lo 'storico
ribelle' venduto giovane a 40 euro il kg. Diventano 'storico ribelle'
solo le forme selezionate che sono passate al vaglio dei primi mesi di
stagionatura. Che senso avrebbe in un prodotto che vuole rappresentare
un vertice qualitativo, smussare questa qualità. Lasciamo che lo faccia
il bitto dop. Prodotto in alcuni alpeggi raccogliendo il latte da
numerosi produttori e lavorando in caseifiuci sociali d'altura 70 q.li
di latte al giorno. Quello che i tecnici non amano
ricordare è che se gli 'starter' riducono il rischio di spurgo
insufficiente, dall'altra possono aumentare quello di un'acidificazione
troppo rapida con la conseguenza di un'eccessiva asciugatura della
pasta (cui corrisponde un grado indesiderato di demineralizzazione
della pasta che diventa meno elastica, più friabile) (Cavallotto G.,
Giangiacomo R., Carini S. Il formaggio Bitto: tecnologia,
composizione e caratteristiche reologiche e di colore in il Latte,
13 -1988 -726-733). Il 'fermento' viene poi percepito dal casaro
(estraneo
alla cultura tradizionale e contaminato dalla mentalità industriale)
come un salvagente che consente di allentare gli scrupoli, di tagliare
sui tempi di lavorazione, di essere più sbrigativi. Lavorando più 'in
automatico' può succedere che - circostanza che nei convegni non verrà
mai ammessa - in alcuni anni anomali, persa la capacità da parte
dei casari di adattare i parametri alle circostanze, il bitto dop
prodotto con gli starter presenti difetti palesi (e incidenza di scarto
elevata) perché di fronte a gravi problemi di contaminazione non ci
sono 'starter' che tengano e il formaggio... si gonfia. Oggi i
'tecnici' hanno in parte dovuto far fronte a diverse conseguenze
negative derivanti dall'uso dei fermenti. Le selezioni 'spinte' con
pochissime specie erano esposte all'alea dei virus batteriofagi e la
perdita di gusto dei formaggi è evidente. Così di fronte alla crescente
simpatia per la 'biodiversità' i 'tecnici' hanno parzialmente ( in
apparenza) fatto dietro-front: eccoli allora spiegare che i
'fermenti' sono stati isolati negli alpeggi, che servono solo a dare
uno 'spunto' senza alterare il ruolo della microflora 'selvaggia'. Ma
tutti usano gli stessi 'fermenti autoctoni' e la lavorazione tende ad
omolgarsi riducendo (poco o tanto) il ruolo dell'esperienza,
sensibilità, intelligenza del casaro. Ma senza tener deste al massimo
queste qualità non si arriva alla vera eccellenza. Autoctoni o meno i
'fermenti' se li tengano. E non ci sarà mai uno 'storico ribelle', un
bitto della tradizione con i fermenti.
Formai de mut
(dell'alta Valbrembana) = Tradotto dal bergamasco non è nient'altro che
il formaggio d'alpeggio. La sua origine viene fatta risalire al periodo
tra le due guerre mondiali , quando i bergamini che caricavano gli
alpeggi dell'alta Valbrembana, iniziarono a stabilizzarsi in pianura e
ad inviare in alpe solo le manze. Ciò portò ad un crollo della
produzione di bitto/branzi che, all'inizio del secolo era realizzata in
33 alpeggi (gli altri producevano stracchini, formaggi magri,
formaggini)(vedi Brembana, valle). La riduzione del carico di bestie
lattifere incoraggiò la produzione di forme di piccola dimensione
utilizzando anche il latte di due mungiture (una prassi ammessa
dal disciplinare di produzione). Esse persero anche la caratteristica
dello scalzo concavo mentre non veniva più praticata l'aggiunta del
latte di capra. Il numero di capre, che si era mantenuto elevato verso
la fine del XIX secolo (oltre 4000 risultavano quelle allevate in alta
Valbrembana nella Statistica del bestiame del 1875) e che aveva
'tenuto' sino all'inizio del nuovo secolo, crollò, specie nelle valli
bergamasche, con l'introduzione, con il Regio decreto legge del 16
gennaio 1927 n. 100, di una tassa speciale (progressiva) sulle capre.
La dop del Formai de mut ha
però preceduto di dieci anni quella del fratello maggiore, il bitto,
grazie all'interessamento di un ministro dell'agricoltura bergamasco,
Pandolfi, che è ricordato dai più per gli errori commessi in materie di
quote latte. Il Formai de mut
divenne dop con il Dpr 10 settembre 1985 e ottenne il
riconoscimento europeo con il Reg. n. 1107/96 del 12 giugno 1996.
Inizialmente il Formai de Mut era
prodotto solo in alpeggio, poi di fronte all'esiguità della produzione
il Consorzio costituito nel 1997 'aprì' alla produzione invernale
che è contrassegnato da una serigrafia rossa impressa sul piatto
(quello d'alpeggio, de mut, presenta una serigrafia blu). La produzione
è realizzata per lo pià in alcuni caseifici cooperativi e non arriva a
6 mila forme, di cui circa 1200 d'alpeggio.
Funzionarie/Dirigenti
=
Nella loro storia i ribelli del bitto hanno incontrato delle
'simpatiche' funzionarie/dirigenti di enti pubblici che hanno
manifestato
un'avversione viscerale nei loro confronti, tanto da figurare più
avverse dei politici. Ricordiamo la dott.ssa Laura La Torre del
Ministero delle politiche agricole e la dott.ssa Donatella Parma della
Regione Lombardia (entrambe con competenza alle dop), che difesero
dagli
'usurpatori ribelli' come una lupa che tutela i propri
cuccioli. La Latorre è famosa per aver chiesto a Paolo Ciapparelli
durante uno degli incontri a Roma se il bitto si produceva anche in
inverno. Nel novembre 2012
mentre il dr. Paolo Baccolo (il direttore denerale della D.G.
agricoltura della Regione Lombardia) si era dimostrato interessato a
capire le ragioni dell' ex bitto storico, la dott.ssa Donatella Parma
- oltre a manifestare apertamente la sua ostilità - durante una
pausa della discussione secondo la testimonianza di alcuni di loro
avrebbe preso in disparte alcuni produttori e li avrebbe 'consigliati'
a non credere al presidente e ai rappresentanti della Società valli del Bitto
che, secondo la funzionaria, avrebbero 'doppi fini' e perseguirebbero
loro interessi particolari di natura commerciale. Un vero
insulto per persone che hanno impegnato (e perso) soldi propri, tempo ed energie
per sostenere un patrimonio collettivo che le istituzioni stavano
gettando al vento per assecondare i poteri forti locali (mentre le
stesse istituzioni trasferivano denari pubblici per finanziare tente
iniziative inutili e perdenti con i soldi dei sudditi contribuenti). La dott.Parma è stata 'allevata' dal
punto di vista accademico nel laboratori di microbiologia dove, sul
piano applicativo, si studiano i famosi 'fermenti' selezionati.(vedi
'fermenti'). Un caso o i 'fermenti' sono un elemento catalizzante
di un programma ideologico e politico? Può aiutare la risposta
constatare che, a livello locale la dott.ssa
Giulia Rapella, responsabile dell'ufficio agricoltura e foreste della
Comunità
montana di Morbegno si comporti da 'allieva' della Parma e -
circostanza ancora più interessante, abbia avuto lo stesso imprinting
universitario . La Rapella è famosa per aver pubblicamente (su
facebook)
esortato i produttori dello 'storico ribelle' a ribellarsi a... la loro
associazione (come si vede si tratta di una strategia che vede la
burocrazia agire politicamente per far trionfare il 'progresso' e le
proprie visioni e, in definitiva, il proprio potere. Ovviamente
non vedrete mai pubblici funzionari esortare
gli agricoli a 'incalzare' le organizzazioni professionali, le
cooperative, i consorzi 'istituzionali'. Tantomeno li vedrete
sobillarli contro di essi. Finirebbero trasferiti e soggetti a misure
disciplinari .
Garòtt
(pl. garòcc)
= contenitori (secchielli) in
legno per contenere la maschèrpa
garòtt è
bucherellato sia sul fondo che
sulle pareti per favorire lo spurgo della scòcia
(siero). Il legame con il bitto ribelle consiste nel fatto che, grazie
al mantenimento della tradizione di produzione della maschèrpa "a la moda vègia" , vi sono ancora artigiani
che continuano a produrli.
Gerola =
Comune (nome esatto Gerola
alta) delle valli del Bitto dove ha sede il Centro del bitto e la Società valli del bitto. Capitava
in contesti
locali (un po’ campanilisti,) che al bitto storico ci si riferisse
come ‘bitto di Gerola’. Con lo 'storico ribelle' questo riferimento è
diventato
anacronistico. Infatti il numero degli alpeggi di Gerola aderenti al
gruppo dei 'ribelli' è sceso a soli tre. Oggi su tre alpeggi comunali,
in
relazione alla politica dell'amministrazione comunale, che osteggia i
'ribelli' (le ragioni emergono dalla voce 'ribaltonisti'), solo uno
conferisce al Centro del Bitto.
Lo
'storico ribelle', volente o nolente, guarda quindi al di là di Gerola
e
della valle, dove vi siano casari disponibili ad osservarne il metodo
e la filosofia. Gerola, però, rimane il cuore della storia e della
cultura del bitto. Un'ascendenza che è forte e riconoscibile anche se
in inverno a Gerola non ci sono quasi allevatori. Mentre i
bergamini della val Brembana si sono fissati nella pianura lombarda
recidendo quasi del tutto i legami con i paesi di origine, e provocando
una forte crisi del sistema alpicolturale e della produzione casearia
in alpeggio, a Gerola le famiglie si sono si trasferire altrove ma a
breve distanza, mantenendo un forte legame con la tradizione del bitto
anche quando caricano alpi in altri comuni. Essi hanno potuto, dalla
seconda metà del XIX secolo, approfittare delle bonifiche e della
regimazione dell'Adda per acquistare terreni adatti alla produzione
foraggera. In piccolo hanno realizzato delle aziende zootecniche
moderne (sia pure più piccole di quelle dei bergamini che si sono
fissati alla bassa), hanno ingrandito le mandrie e continuato così,
grazie alle acquisite dimensioni imprenditoriali, continuare a caricare
gli alpeggi e a produrre bitto.
Giusti = Espressione più 'impegnativa' per definire gli 'amici' (vedi) del bitto ribelle. Ma
è irriverente paragonare i 'giusti' del bitto (ai quali è stata
dedicata una 'galleria' con forme ad essi dedicate, vivi o scomparsi
che siano)?Se i Giardini dei Giusti ricordano
persone che si sono esposte personalmente per contrastare i crimini
contro l'umanità e i totalitarismi, i 'Giusti del bitto' hanno comunque
preso posizione contro l'ufficialità, le norme europee, il conformismo,
le bugie del potere che hanno espropriato una comunità di produttori
storici di un loro patrimonio, banalizzandolo e monetizzandolo a favore
delle filiere agroindustriali. Un 'crimine' piccolo rispetto ai
genocidi e ai delitti perpetrati dalle multinazionali ai danni dei
popoli indigeni, ma un crimine della stessa natura. La differenza è
solo di grado.
Gràss = area di pascolo nei pressi del calécc (vedi) e delle baita (vedi).
L’accumulo di fertilità
per lo stazionamento della malga determina una produzione di erba
abbondante. Per evitare un eccesso di
concimazione che favorisce lo sviluppo di piante invasive quali il Rumex alpinus (slavazz) i calécc , nel
sistema tradizionale sono utilizzati a rotazione, lasciando passare
almeno due
anni tra un utilizzo e l’altro
Gendarmi =
'Gendarmi del gusto' o 'gendarmi del bitto' sono in senso stretto i
funzionari dell'ufficio repressione frodi che nel 2009 sanzionarono la Società valli del Bitto (colpevole
di lesa dop) per 20 mila euro (poi ridotti con il ricorso a 5 mila). In
senso più ampio i politici e burocrati valtellinesi che hanno
ricorrentemente minacciato i ribelli del bitto (la repressione frodi
era stata invocata pochi mesi prima delle sanzioni dall'assessore
provinciale all'agricoltura, De Stefani). Non più tardi che un anno fa
l'assessore regionale all'agricoltura Fava consigliava
caldamente la rinuncia al nome 'bitto', perché in Valtellina, a sua
detta, erano pronti a denunciare i ribelli e non riusciva più a tenerli
fermi.
Gonfiore = Nei formaggi
si distingue il gonfiore precoce e quello tardivo.
Il gonfiore precoce non interessa lo 'storico ribelle' perché si
presenta entro pochi giorni dalla lavorazione. Quello
tardivo è un grave difetto a caroco dei formaggi a lunga
stagionatura perché emerge dopo mesi. Porta anche allo 'scoppio'
delle forme dei formaggi duri. All'interno delle forme compaiono
ampie cavità cavernose mentre all'esterno le forme (se non si
spaccano, appaiono fortemente rigonfiate). La causa è da
rintracciarsi nella persenza nel latte di spore di Clostridi
(Clostridium tyrobutiricum e Clostridium
sporogenes) , batteri anaerobici che
riprendono l'attività vegetativa anche dopo mesi dalla produzione
del formaggio fermentando il lattato di calcio e producendo CO2,
acido acetico, acido butirrico, idrogeno. Ne consegue un sapore
alterato (verso il rancido) e un odore sgradevole di acidi acetico e
butirrico. La pasta è meno consistente e più elastica rispetto al
formaggio privo di difetti. Molto spesso la causa è legata
all'utilizzo di insilati (e fasciati) e alla loro cattiva
conservazione e pertanto non riguarda i formaggi d'alpeggio e quelli
che (come parecchie dop) vietano l'uso di insilati e fasciati. La
contaminazione del latte con feci rappresenta un'altra delle cause
del difetto. L'aggiunta di antifermentativi (lisozima) e particolari
starter in grado di produrre
sostanze inibenti i clostridi
rappresenta una scelta inaccettabile
per formaggi di qualità alterando profondamente la microflora del
latte. La prevenzione consiste nell'attenzione alle condizioni
igieniche della mungitura e della manipolazione del latte. La
professionalità dei casari degli alpeggi dove si produce 'bitto
storico' rappresentano una garanzia rispetto all'insorgenza di un
difetto che, se non legato a cause fortuite occasionali, compromette
più di altri la reputazione del casaro.
Grasso =
Grasso d'alpe Valtellina era il nome cui poteva aspirare il formaggio
grasso degli alpeggi valtellinesi che non si trovavano nella comunità
montana di Morbegno prima della 'magica' estensione (retroattiva) a tutta
la provincia di Sondrio della produzione del bitto.
Guerra = La
'guerra del bitto' è
stata evocata innumerevoli volte sulla stampa valtellinese. Si è
spesso fatto alla metafora della guerra per indicare il conflitto che
ha preso origine nel 1994, quando emerse chiara la volontà di varare
una dop estesa a tutta la provincia di Sondrio. La 'guerra' è
durata, con fase alterne (tregue, accordi, ripresa delle ostilità)
sino al 2016 anche se la fase virulenta risale al 2005/6, anni della
modifica del disciplinare di produzione (con la legalizzazione del
mangime e dei fermenti selezionati). Formalmente la 'guerra' è
finita nel 2016 perché è cessata la contesa sul nome 'bitto' (che i
ribelli hanno deciso di abbandonare). La conflittualità, in ogni
caso, persiste.
Guerriero =
'guerriero del
bitto' è il titolo che si è meritato Paolo Ciapparelli, il
fondatore dell'Associazione valli del Bitto (poi Consorzio
salvaguardia bitto storico) e della Società valli del Bitto.
Ciapparelli non era un allevatore, né era un operatore del settore
caseario. Questa circostanza ha rappresentato una grande fortuna per il
bitto della tradizione perché da outsider e da self made man
Ciapparelli è stato immune sia dalle pressioni che avrebbero facilmente
condizionato un 'addetto ai lavori' (promesse di finanziamenti,
'visite' di autorità sanitarie, prospettive di vantaggi economici). È
titolare, anche se la ditta oggi è gestita prevalentemente dai
famigliari, di un'azienda di commercializzazione di piastrelle e
laterizi a Cosio valtellina (il
comune che, con la frazione Sacco, si estende anche alla Valgerola e
dove risiedono molti, allevatori e non, di origine gerolese).
Ciapparelli era nato a Sondrio, ma è di origine gerolese per parte di
madre, e la molla che l'ha portato ad occuparsi di bitto era
rappresentata dal desiderio di rilancio della montagna, delle valli
laterali come la Valgerola, di rivitalizzazione di economie (quelle
legate agli alpeggi) un tempo cardine della vita locale ma che
avevano perso molta della loro importanza. Intuiva che dietro la
'cultura del bitto' c'erano patrimoni importanti che era doveroso non
solo conservare per la memoria ma anche cercare di valorizzare
economicamente. Accusato spesso di 'smania di protagonismo',
Ciapparelli nel 1994, eletto come consigliere di opposizione nella
lista Lega Nord
con un programma tutto centrato sul bitto e gli alpeggi, lasciò il
posto al primo dei non eletti, Fabio Acquistapace (vedi alla voce
Ribaltonisti ). Con Nel 1996, alla costituzione dell'Associazione valli del Bitto,
Ciapparelli, che godeva della stima e della fiducia dei produttori -
che ne riconoscevano il carisma - rinunciò alla presidenza invitando ad
eleggere Angelo Ruffoni, un esponente leghista locale. Quando, però,
nel 1997, il Ruffoni - che era il rappresentante dell'Associazione nel
consiglio del Consorzio ufficiale bitto - si manifestò incline al
compromesso, Ciapparelli non esità a sfiduciarlo assumendo la
presidenza. Al 'guerriero del bitto' viene rimproverato di essere stato
brusco sia con Angelo Ruffoni che con Ettore Del Nero. Quest'ultimo,
che rappresentava la Coldiretti, fungeva da segretario e fu indotto,
senza troppi complimenti, al lasciare la carica e la documentazione
quando Ciapparelli si rese conto che la strada del compromesso e la
'linea morbida' avrebbero portato solo alla sconfitta della causa.
Anche le rotture con Patrizio Del Nero (vedi alla voce Ribaltonisti ) e
con l'amico Attilio Manni si spiegano con la necessità di difendere la
causa e non certo con la smania di Ciapparelli di non avere intorno
nessuno che gli faccia ombra. Patrizio Del Nero nelle cariche pubbliche
che ha ricoperto è stato per anni un aperto nemico dei ribelli del
bitto. Attilio Manni si dimise da consigliere della Società valli
del Bitto dopo che, nel 2011, Fabio Acquistapace, sindaco di Gerola e
azionista della Società, aveva tentato di sfiduciare Ciapparelli e di
sostituirlo con lo stesso Manni. In seguito Manni ha condiviso le
posizioni di 'dissidenza' di Fabio Acquistapace e del fratello Daniele
in occasione delle assemblee (cruciali) della Società valli del Bitto.
In seguito alla conquista della presidenza della provincia di Sondrio
da parte della Lega Nord (nel giugno 2009) e del successivo totale
voltafaccia rispetto ai 'ribelli del bitto', Ciapparelli si è
completamente staccato dalla politica partitica. Sostiene, a ragione,
che la politica - intesa come conflietto e convergenza su temi che
riguardano il bene comune - sc'entri più con il movimento a sostegno
del bitto della tradizione che con i partiti e con le istituzioni (che
si distinguono poco dai comitati d'affari dlele lobby). Così parla un
guerriero. E si capisce perché in certi ambienti sia poco popolare.
Homo
selvadego =A più
riprese l’homo
selvadego è stato proposto
come simbolo da associare al Bitto storico
stesso quale difensore dei nostri ribelli. La sua clava dovrebbe
indurre pagura agli accaniti nemici dell’eroico
formaggio ma va anche sottolineato come nella sua
connessione ad antiche tradizioni il bitto ribelle non può non
guardare con simpatia al 'selvatico' portatore di antica saggtezza. Nelle
valli del Bitto l’homo selvatego è
(ri)entrato nell’immaginario collettivo
grazie al restauro della Camera Picta di Sacco, la frazione di Cosio
Valtellino. Qui c'è la Casa
dell'uomo selvatico che è diventata nel un Museo nel 1994. Tra
gli affreschi quattrocenteschi spicca un uomo barbuto e totalmente
coperto di
peli sino ai piedi che brandisce con entrambe le mani, tenendola
aderente al
petto, una clava nodosa. La figura ‘parla’ attraverso un cartiglio:
"Ego sonto un homo salvadego per
natura, chi me ofende ge fo pagura".
L’autore
dell'affresco è Angelo Baschenis di Averara (in alta val Brembana).
A seconda delle regioni, le popolazioni alpine hanno attribuito
al 'selvatico' diversi appellativi: Salvanèl, Om Pelòs, Salvàn, der Wild Mann, Sambinello, Om Selvadech, Òm da l
bòsch, e via
discorrendo. La leggenda del 'selvatico', che probabilmente
rappresenta la trasposizione di antiche divinità, è - cosa che più
conta per noi - una leggenda casearia. Il
‘selvatico’, portatore di profonda saggezza (e conoscenze magiche),
avrebbe per
benevolenza verso gli uomini consegnato loro i segreti dal caglio,
della
burrificazione e produzione di ricotta. In alcune versioni il segreto
della
ricotta restò tale perché gli uomini avendolo deriso o avendogli
giocato brutti
tiri lo avrebbero indotto a sparire per sempre.
Inizio = Tutto inizia nel 1994 con la costituzione del Comitato per la
salvaguardia del Bitto prodotto nelle zone di origine (Valli del
Bitto). Ne
erano animatori Paolo Ciapparelli e Angelo Ruffoni (quest'ultimo fu
anche il primo presidente dell'Associaizone valli del Bitto, costituita
nel 1997, ma venne quasi subito sfidiciato). Il Comitato
si era costituito dopo che si era tenuta nello stesso anno a
Sondrio, l'audizione pubblica di rito presso la Camera di
commercio. All'audizione non vi f alcuna contestazione. I produttori
storici di fidavano, a torto, della Coldiretti e, in ogni caso,
tendevano a non attribuire alcun peso ai rumors che parlavano di un
'nuovo bitto'. Erano talmente convinti che la storia del bitto non
potesse essere ribaltata e che non fosse possibile staccare il bitto
dall'area storica di produzione che si mossero solo in ritardo, a fatti
compiuti. Anche successivamente, dopo decenni di delega in bianco alla
Dc e alla Coldiretti, non erano in grado di superare la sudditanza
psicologica e la subalternità a queste organizzazioni. Il 'miracolo'
della nascita della contestazione sul bitto, che poi prenderà il
connotato dell'aperta ribellione si spiega con la coincidenza di due
circostanze: la caduta del potere democristiano a seguito di
Tangentopoli (anche se in Valtellina esso tenne per un po' anche oltre
il crollo a livello nazionale), l'emergere di una nuova forza politica
che, per ottenere consensi, si presentava con toni anti-sistema e
anti-establishment (salvo poi gestire il potere locale in forme anche
peggiori della Dc). Fu una 'finestra' breve ma nella quale seppe
infilarsi Ciapparelli. Il blocco delle istituzioni (le lobby) impedì
che le istanze dei produttori storici trovassero il ben che minimo
ascolto ma, d'altra parte esse non sono più riuscite ad estirpare il
seme della ribellione, che riuscì a germogliare in circostanze
favorevoli, e che poi si sviluppò capendo che doveva agganciarsi a
movimenti esterni alla Valtellina (dal 2001 iniziarono i contatti con Slow Food) dove rischiava il completo accerchiamento.
Integralisti =
Insieme a 'duri e puri' (vedi) un'altra definizione, tutt'ora
utilizzata dai media per indicare i ribelli del bitto è quella di
'integralisti del bitto'. Ai ribelli tutte queste definizioni fanno
solo onore perché veicolano l'immagine (corrispondente alla realtà) di
chi si ribella all'ingiustizia, di chi è 'integralista' a fronte di
tendenze a 'disintegrare' un sistema tradizionale di storia e di
cultura per imporre l'omologazione industriale. Invecchiamento
= Lo 'storico ribelle' della stagione d'alpeggio precedente viene messo
in vendita 'novello' a novembre. Ma se le forme non presentano difetti
tali da pregiudicare la sua stagionatura è una specie di 'infanticidio'
consumerlo così presto. Certo è buonissimo, pastoso, butirroso, pieno.
Ma non è a questo stadio che si esprime lo 'storico ribelle'. Una
maturazione minima dovrebbe essere di sei mesi anche se è dopo l'anno
che iniziano a manifestarsi le sue caratteristiche organolettiche. Per
la maggior parte degli estimatori esperti le buone forme raggiungono il
loro meglio a 2,5-4 anni di età. Poi, come per i grandi vini ci sono
forme che continuano ad 'evolvere' ma altre si 'spengono'. Accostarsi
allo 'storico ribelle' significa provare e confrontare tra loro forme
di diverse annate per confrontare lo 'storico ribelle' nelle diverse
età: bambino (fino a sei mesi); adolescente (da sei a diciotto
mesi), giovane (da diciotto a trentasei mesi), maturo (da 3 mesi a 5
anni), senior (oltre 5 anni). Ogni anno il prezzo sale di 1-2 euro
all'etto non tanto per il calo peso, ormai poco influente anche se
ancora presente, quanto per l'incidenza del lavoro di pulizia delle
forme che continua per tutta la vita. È interessante sapere che dopo
aver compiuto un anno le forme non vengono mantenute più appoggiate di
piatto ma verticalmente in scansie su dei supporti che consentono di
imprimere loro un quarto di giro (come con lo spumante fermentato in
bottiglia in una pupitre).
Latteria = 1) La Latteria Alpi
del Bitto di Albaredo, inaugurata nel 2006, ha sancito la
frattura tra comune di Albaredo e produttori storici consumata l’anno
precedente con la presa di posizione del sindaco Patrizio del Nero a
favore del Ctcb. e il rifiuto di seguire i ribelli del Bitto
(sostenuti allora dal comune di Gerola) nella loro uscita dal
Consorzio. È gestita dall' industria casearia Latteria sociale Valtellina,
‘azionista di riferimento’ del Ctcb. 2)
'Latteria' è il nome del formaggio prodotto dalla fine del XIX secolo
nelle (allora) nuove latterie sociali. Si tratta di un nome radicato
ancora oggi (sia localmente che tra gli addetti ai lavori del settore
caseario lombardo. "Stagiono 'latteria' che acquisto in Valtellina" vi
diranno note aziende della Valsassina che riforniscono il mercato
regionale). La Società valli del Bitto commercializza il 'latteria' dei
suoi soci (e di altri conferenti 'storico ribelle' in ogni caso
aderenti al Consorzio salvaguardia
bitto storico) prodotto in inverno. Trattasi di formaggio
semigrasso spesso di ottima qualità, prodotto con fieni locali e poco
(o niente) mangime. Questi 'latteria' artigianali, prodotti nei
caseifici aziendali in inverno non vanno condusi con il casera dop,
formaggio pan-sondriese inventato di sana pianta (almeno quale
denominazione) dalle stesse menti che partorirono il 'nuovo bitto'. Il
casera dop è, nella maggior parte dei casi, un formaggio industriale.
La Latteria sociale valtellina
lo produce con moderne tecnologie industriali di coagulazione in continuo.
Lavorazione = Il latte appena munto, quando si lavora nel calecc' o, come avviene oggi più spesso, in una baita, viene
versato direttamente dai secchi di mungitura nella caldaia (culdéra) Se la mungitura avviene ad una
certa distanza dalla baita dove si lavora il latte o se lo si trasporta
direttamente alla casera, si usano dei bidoncini muniti di spallacci (brentèl) per il trasporto a spalla o i
normali bidoni del latte (capacità 50 l) laddove è possibile utilizzare mezzi
meccanici (motocarriole, fuoristrada).
Nelle valli del Bitto
tutte le caldaie sono ancora quelle di tipo tradizionale in rame a forma di
campana rovesciata. Le caldaie hanno una
capacità variabile tra i 150 e i 500 litri di latte e sono ricavate per
martellatura di un’unica lastra, con il bordo avvolto su un cerchio di
rinforzo; da questo sporgono delle “orecchiette” forate che servono per fissare
il manico. Per filtrare il latte e rimuovere le inpurità solide il latte viene
filtrato versandolo in un grosso imbuto (cuul)
provvisto di una rete metallica. Il cuul
viene appoggiato su un telaietto di legno (cabrèta)
posto di traverso sopra la caldaia e può essere di plastica, di alluminio,
acciaio inox o anche di rame. In passato anche il cuul era in legno. Oggi il cuul
è provvisto di una reticella metallica mentre una volta si usavano in
funzione di filtro del rametti di abete.
Una volta terminata la mungitura, il latte vaccino e caprino (quest’ultimo
rappresenta il 10-20% del totale) è riscaldato direttamente mediante fuoco a
legna, fino a una temperatura di 35-38°C. Il casaro, sino al raggiungimento della temperatura
desiderata, mantiene continuamente in agitazione il latte con la
"rotella" (rudèla),
un’asta
di legno leggero munita all’estremità di un disco di legno di betulla.
La rudèla
è l’attrezzo che resta più a
lungo a contatto con il latte in varie fasi della lavorazione e questo
spiega
l’uso di un’essenza particolare che non rischia di conferire al latte
caratteri
organolettici estranei. I fermenti lattici (termofili e favorevoli alla
caseificazione) che restano nei pori del legno dopo la pulitura con la
'scotta' calda e acida (l''ultimo siero residuo della lavorazione della
ricotta) agiscono da starter naturale. L’agitazione in questa
fase è importante in modo da riscaldare
uniformemente tutto il latte contenuto nella caldaia. La temperatura
del latte
è molto importante perché influenza la consistenza del coagulo, e
quindi la
qualità del formaggio. Il controllo della temperatura avviene mediante
un
apposito termometro; in passato i casari la valutavano immergendo il
gomito in
quanto, in corrispondenza di esso, la pelle è più sottile, e quindi più
sensibile. Una volta raggiunta la
temperatura di coagulazione, si allontana la caldaia dal fuoco mediante
facendo
girare il braccio girevole (la marna, o turnér, una gru in legno o in
ferro). In alcuni calecc' si osservano ancora le modalità antiche di funzionamento della marna. Essa era incernierata alla base in un bocc'
costituito da una pietra scavata all'interno della quale la base del
palo verticale della masna poteva ruotare. Nella parte superiore la masna era mantenuta in posizione da un furscèl, un tronco di larice biforcato. L'estremità dei due bracci era affondata nella muratura a secco del calecc' o baita. Non vi era alcun elemento di ferro. Al braccio orizzontale della masna è appeso il manico della caldaia, e si aggiunge il caglio (quacc'),
in quantità diversa a seconda che sia liquido oppure in polvere. La
quantità di caglio varia in funzione del prodotto commerciale utilizzato che
può avere diversa "forza" (titolo). Il caglio consiste in un
complesso di enzimi (in prevalenza chimosina) che agisce sulla k-caseina, (una
delle frazioni della casina, la principale proteina del latte), favorendone
l'aggregazione e quindi la formazione della cagliata (quagiàda). Il caglio
commerciale è ottenuto dall'abomaso (stomaco) di vitello alimentato con latte. Un
tempo lo si preparava "in casa" utilizzando anche gli abomasi di
capretti oltre che dei vitelli; con le “pellette” essiccate si preparava una
pasta che veniva conservata in una scatola di legno (quagliaröla) e “dosata” modellando delle palline più o meno grandi
in funzione della quantità di latte da coagulare.Il caglio del commercio usato attualmente viene diluito in una
scodella e versato in caldaia mantenendo la massa in agitazione; una volta
aggiunto il caglio si lascia che esso agisca e si attende in media 35 minuti. Il casaro, valutata la consistenza
della cagliata, decide il momento più opportuno per romperla.
La rottura della cagliata era effettuata inizialmente mediante
un bastone in legno appiattito all'estremità (spada).
Per allontanare un po’ di schiuma e di impurità, si
utilizzano gli spannatoi in legno (o plastica) con manico (cazèt); essi
sono utilizzati anche per una prima rottura molto
delicata a fette della massa; si tratta di operazione importante dalla
quale
può dipendere l’esito della lavorazione. Dopo questi preliminari la
rottura è
eseguita con il frangicagliata (la lira)
e/o con lo spino (spìgn). Lo spino
consiste in una “gabbia” di sottili lamine metalliche (in passato si
usavano
attrezzi "casalinghi", ovvero alberelli scortecciati cui venivano
mantenuti alcuni rami terminali; l’attrezzo così ottenuto era
denominato tarài de la quagiada. La lira consiste in un'asta con due
traverse (una all’estremità, l’altra a due terzi della lunghezza); tra
le
traverse sono tesi sei/otto fili metallici paralleli. Lo spino consente
un’azione più rapida ed energica e si è diffuso in concomitanza con il
passaggio da una lavorazione a “chicco di mais” (diffusa in passato) a
quella
attuale a “chicco di riso”.
Una volta terminata la rottura la caldaia viene rimessa sul
fuoco per fino a raggiungere la temperatura di 48-52°C, in questa fase continua
il rimescolamento (a volte inizialmente con lo spino) e poi con la "rotella"
(anche qui bisogna osservare che, in passato, la temperatura di “cottura” era a
volte inferiore di qualche grado). Una volta raggiunta la temperatura
desiderata si toglie la caldaia dal fuoco e si prosegue nel rimescolamento con
la "rotella" per ulteriori minuti. L'agitazione viene eseguita
dall'alto verso il basso in senso antiorario e permette di distribuire meglio
il calore all'interno della caldaia e di evitare che i granuli che si
depositano sul fondo ricevendo un'eccessiva quantità di calore. L’intera
operazione (“cottura” e successivo mantenimento in agitazione ha una durata di
circa un’ora; i tempi sono variabili perché il casaro può decidere di
raggiungere una temperatura massima che può variare anche da giorno a giorno
(in funzione di quella che valuta la qualità del latte) ed può anche
raggiungerla più o meno rapidamente. I
granuli a causa della fine rottura e del calore perdono buona parte di siero e,
dopo ulteriori 30 minuti di sosta si depositano sul fondo della caldaia. Al termine della sosta in caldaia affiora alla
superficie il siero (lazzelùn/serun)
che rappresenta la parte liquida, di colore giallo-verdognolo, separatasi dalla
massa caseosa addensatasi sul fondo).
A questo punto il casaro, se la cagliata è sufficiente per
ottenere più forme , inizia a tagliare la massa sul fondo con la spada, in modo da ottenere una
suddivisione uguale al numero di forme che si vuole ottenere. Molto spesso,
però, la forma è una sola e non è necessario suddividere la massa caseosa. Per
l’estrazione della cagliata il casaro utilizza un telo di lino quadrato a
maglie larghe filtrante (pàta), e lo
s'immerge nel siero per inumidirlo; una volta che il telo è umido l’aiuto
casaro (oggi un pastore, un tempo una figura specifica detta casinèr) tiene in ciascuna mano un lembo
del telo mentre il casaro fa passare gli altri due lembi sotto la massa che si
è depositata sul fondo, poi il casaro, da solo – tenendo nelle mani i quattro
lembi solleva il tutto; a volte il telo con la cagliata è sollevato contemporaneamente
dal casaro e dall’aiutante. Se il casaro
è privo di un assistente nel mentre il casaro fa scorrere il due lembi del telo
sul fondo della caldaia per raccogliere la cagliata gli altri lembi sono
trattenuti tra i denti del casaro stesso o fatti aderire al bordo superiore
della caldaia.
Dopo aver mantenuto per
qualche istante il telo a sgrondare
sulla cagliata, il telo con il suo contenuto è posto dentro la fascera
(faséra), essa è costituita da
un'assicella di legno di larice piegata a vapore in modo da formare un
cerchio
più o meno grande in funzione di quanto la fascera stessa è stretta con
una
cordicella. Oggi le fascere sono spesso in plastica anche se qualcuno
sta tornando al legno capace di assorbire lo spurgo all'interfaccia tra
la pasta e la fascera . Per la produzione del bitto le fascere
sono da sempre sagomate in modo particolare, tale da presentare
sulla faccia interna, a contatto della cagliata, un profilo convesso
che
consente allo scalzo (vedi) di assumere la caratteristica concavità.La
forma è appoggiata allo
spersoio (spresun), un pian di legno
leggermente inclinato, sorretto da un cavalletto e provvisto di sponde e di un
beccuccio aperto ad un'estremità (per lo scolo del siero); la fuoriuscita del
siero è favorita dalla compressione esercitata da una specie di coperchio di
legno (di forma quadrata o tonda) su cui è sistemata una pesante pietra. La
pressatura consente un più rapido e completo spurgo del siero favorendo una
corretta acidificazione, molto importante per la maturazione successiva del
formaggio.
Il giorno
successivo le forme prodotte sono portate alla casera ; in un primo momento
continua la fase di spurgo sullo spersoio, poi dopo qualche giorno, vengono
tolti teli e fascere, e inizia la fase di salatura. Il
sistema di salatura del formaggio 'storico ribelle'
è ancora effettuato prevalentemente a secco; le forme sono deposte su spessi assi in
larice ottenute direttamente sul posto. Il casaro ogni giorno a rivolta le
forme e le alternativamente sui due piatti. La salatura dura circa due
settimane ed è molto importante perché non conferisce solo sapore al formaggio,
ma favorisce lo spurgo del siero (richiamando l'acqua in superficie) e la
formazione della crosta superficiale, e
seleziona anche una microflora casearia utile. Una volta
terminatala fase di salatura, le forme sono poste su appositi scaffali di assi
di abete (scalere), qui vengono
periodicamente girate e ripulite dalle muffe mediante strofinatura o l'uso di una lama (raspa). Il casaro usava anche in passato
numerare ciascuna forma e annotare su un apposito quaderno la data, il numero e
il peso, per ottenere utili riscontri un sulla produzione nelle successive fasi
di maturazione. Oggi le norme igienico-sanitarie prevedo che le forme
commercializzate rechino un bollo ovale con il numero identificativo del
produttore e la data di produzione. Questi elementi vengono impressi a
bassorilievo sullo scalzo interponendo tra la fascera e la pasta delle lamine
di plastica traforate. L'Associazione produttori valli del Bitto dal 2006 ha utilizzato lo stesso metodo per applicare sullo scalzo il nome dell'alpeggio (la pratica è continuata con il Consorzio salvaguardia bitto storico).
Per la
produzione del formaggio 'storico ribelle' vengono adottati ancor oggi
metodi e varianti
personali, legati all'esperienza e alla
tradizione. Ogni casaro valuta empiricamente il latte, le cui
caratteristiche
di reattività al siero, acidità, composizione, variano molto nelle
condizioni
dell'alpeggio in relazione all'andamento meterorico, alla diversa
qualità della 'pastura' giornaliera, a fattori di disturbo che
provocano stress
alle bovine e modifuicano la qualità del latte. In base a tutti questi
fattori,
che solo un'attenta sensibilità e una lunga esperienza permettono di
padroneggiare, il casaro decide di variare la temperatura di
riscaldamento del
latte e della successiva 'cottura', la quantità di caglio, i tempi di
presa del caglio stesso, il grado stesso di rottura della cagliata
ecc. È facile intuire come questo modo di
procedere attenga ad una vera e propria 'arte"iche poco a che vedere
con le operazioni standardizzate dei caseifici industriali (che possono
applicarsi senza variazioni in quanto la qualità media del latte varia
di
poco). La
lavorazione dello 'storico ribelle' è non solo un procedimento molto
'personalizzato' ma anche molto lento (dura 2-3 ore). Questi 'tempi
lunghi' offrono margini di adattamento e flessibilità che le
lavorazioni
moderne velocizzate non possono più consentire. E qui, oltre che nella
lunga stagionatura nel Centro del Bitto sta uno dei segreti di un prodotto di altissima qualità.
Lecco
= A Lecco
confluiva una parte
importante della produzione di bitto. Sino alla metà dell'Ottocento gli
alpeggi della Valsassina propriamente detta (non solo quelli dell'alta
Valvarrone) producevano in prevalenza formaggio grasso del tutto
analogo al bitto. All'importante mercato e fiera di Lecco, attraverso
la 'via del bitto' confluiva la produzione della val Biandino, di
Bobbio, di Varrone e - in alcuni periodi - anche quella della Valgerola.
Legno
= Oggi,
dopo un periodo di vera e propria caccia alle streghe, il legno è
stato oggetto di una riabilitazione pressoché totale da parte di
tecnologi e veterinari. Non è certo l'unico caso di clamoroso
dietrofront tecnoscientifico. Solo gli ingenui possono credere alla
buona fede di operazioni come la demonizzazione 'scientifica' di cibi e
processi di trasformazione alimentare artigianale. Nel campo
lattiero-caseario il burro (in quanto ricco di grassi animali) venne
criminalizzato e perse di valore per favorire l'industria della
margarina ottenuta con grassi vegetali parzialmente idrogenati per
trasformare l'olio in un solido. Oggi sappiamo che nel processo di
idrogenazione si formano acidi grassi trans ai quali si imputano
malattie coronariche e ateroslerosi, tanto che si raccomanda la
totale messa al bando dagli alimenti con acidi grassi idrogenati. Il
legno è stato considerato un veicolo di contaminazione per la
difficoltà di lavare le superfici degli attrezzi, dei piani di lavoro.
Si era arrivati al punto di voler eliminare anche le assi di legno (di
abete) utilizzate per appoggiare i formaggi in stagionatura (il che
avrebbe comportato gravi problmi a causa dell'umidità del piatto delle
forme a contatto con una superficie di acciaio o di plastica non in
grado di assorbire l'umidità in eccesso. Nella produzione dello
'storico ribelle' sono di legno non solo le assi delle 'scalere' (le
scaffalature dove vengono riposte le forme) ma anche alcuni degli
arnesi con i quali si lavora il latte in caldaia (la rotella di legno
con asta che serve per tenere il latte in agitazione, la 'spannarola'
con la quale si eliminano dalla superficie del latte le impurità), le
fascere di larice che servono per la messa in forma della cagliata
appena estratta dalla caldaia, lo spresùr,
il tavolo inclinatodove viene appoggiata la fascera contenente la pasta
per consentite lo spurgo del siero. Mosé Manni, il 'patriarca', sino a
pochissimi anni fa usava il secchio di legno anche per mungere. Se il
legno è pulito, come si faceva un tempo e come si fa ancora oggi con la
scotta caldissima, residuo della lavorazione della maschèrpa (vedi),
la forte acidità di questo liquido e il calore esercitano una selezione
di microrganismi 'buoni' che, venendo il legno a contatto con il latte
delle successive lavorazioni, consentirà un 'insemenzamento' . Di fatto
lavorando in modo tradizionale , con attrezzi di legno non c'è
bisogno di 'fermenti' perché il latte è arricchito di quelli veramente
autoctoni del luogo di produzione.
Lesina (val) = Valle adiacente alla valle del Bitto
dove nella generalità degli alpeggi sino alla prima parte del Novecento
si produceva bitto. La scarsa accessibilità ha progressivamente fatto
cessare la produzione casearia. Oggi gli alpeggi, tranne l'alpe Legnone
caricata solo con capre (che vengono utilizzate per la produzione
casearia) sono caricati con
animali asciutti o da carne.
Livrio (val) = Una
delle valli
orobiche valtellinesi dove, in qualche alpeggio, si produceva bitto.
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