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COMUNICATO. RIPARTE LA CAMPAGNA DI AZIONARIATO POPOLARE A SOSTEGNO ALLO STORICO RIBELLE (EX-BITTO STORICO)

Dopo il cambio di statuto per divenire Società Benefit, secondo la nuova legge in vigore dal 1 gennaio 2016, la Società Valli del Bitto riapre la campagna di azionariato popolare. Società benefit è quella che non mira solo al proprio utile ma a vantaggi per la società, il territorio, l'ambiente.La Società Valli del Bitto punta solo alla sostenibilità economica e non al lucro. Senza di essa non potrebbe conseguire i propri scopi che sono in primo luogo garantire - attraverso la valorizzazione economica - la sopravvivenza del formaggio "storico ribelle" (ex-bitto storico) con tutto il suo sistema di produzione in alpeggio che rappresenta un monumento di cultura e di biodiversità. Lo "storico ribelle" è Presidio Slow Food, il presidio che - a detta di Slow Food - incarna forse al meglio il principi del cibo "buono - pulito - giusto". Tutti possono partecipare a questa Società che incarna l'ideale dell'agricoltura etica sostenuta dalla comunità che, a sua volta, sostiene il territorio. Sottoscrizione minima 150€ ( massimA 20 mila €). Ai soci viene riconosciuto un "dividendo etico" in natura pari al 2% del capitale sottoscritto. Per sapere come associarsi:

TEL. 334 332 53 66

info@formaggiobitto.com

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Articoli per argomenti 

ex-bitto storico

Il Dizionario del bitto ribelle

di Michele Corti

(01.01.17) Un 'regalo' di inizio anno agli amici dello 'storico ribelle' (il bitto della tradizione) per decifrare le appassionanti vicende dei ribelli del bitto. In attesa dell'uscita della seconda edizione del  libro (di cui ero autore con Cirillo Ruffoni) sulla storia del bitto Il formaggio “Val del Bitt”, la storia, gli uomini, gli alpeggi.  Il volume, edito nel 2009,  si differenzia per un maggior approfondimento storico e tecnico rispetto al successivo I ribelli del bitto, edito da Slow Food nel 2011. Il formaggio “Val del Bitt” non solo è da tempo introvabile ma, oltretutto, 'manca' di importanti capitoli, quelli scritti dallo sviluppo incalzante della vicenda in oltre sette anni. Senza contare le censure imposte a suo tempo dall'ente regionale (Ersaf) che gestiva il progetto con il quale il volume venne finanziato. La vicenda del bitto ribelle  nell'anno appena terminato è arrivata ad un epilogo amaro e clamoroso con la rinuncia al nome 'bitto' da parte dei produttori ribelli (ribellatisi all'omologazione del bitto della storia a un prodotto modernizzato e banalizzato).

Ho quindi ritenuto, insieme agli amici Cirillo Ruffoni e Giampiero Mazzoni (fotografo ed editore) che fosse ora di mettere a disposizione dei non pochi che si interessano alla storia di questo formaggio speciale uno strumento migliorato e aggiornato. In attesa nel nuovo libro propongo qui un Dizionario del bitto ribelle che rappresenta un ampiamento e aggiornamento di quello in appendice al volume edito da Slow Food che consentiva, di verificare a cosa ci si riferisce esattamente nel testo in caso di dubbio (senza doversi rileggere interi paragrafi). 

Perché un Dizionario? La storia dei ribelli del bitto è ormai lunga ( si sviluppa a partire dal 1994) ma, per comprenderla, è necessario però fare riferimento a realtà, a circostanze, a precedenti che risalgono all'inizio del Novecento. Non è facile, per chi non sia profondamente addentro questa storia, districarsi tra Comitati, Consorzi, Casere, Centri, Associazione, Società,  in un succedersi, spesso convulso, di avvenimenti che abbraccia decenni. 

 La lettura del Dizionario (pensato per la consultazione) dimostra, se ve ne fosse ancora bisogno,  che i ribelli non sono degli stravaganti ma che, se si sono attivati e hanno sostenuto una 'guerra' intorno a una realtà importante dalla sorprendente complessità. Si è combattuto (e si combatte tutt'ora) perché c'era di mezzo una storia di grande spessore, che non è solo la storia di un formaggio, men che meno la storia di un formaggio qualsiasi. Buona lettura.

* alcune voci sono ancora da completare

A. Acari, Accordo, Albaredo, Amaro Amici, AmicoAntenato, Area, Arte, Associazione, Aste

B. Bait, baita, BàrechBenefit, Bergamini, Bergamo, Branzi, Brembana, Burocrati, Bustine

C. Cadùla, Calècc, Camera, Capra , Cargamuunt, Caricatore, Caröol , Cascìn , Casèr, Casera , Cèch, Celti, Centro

Cervia, Classico, Colore Comitato, Como, Comunità di praticaConsorzio, Cooperativa, Coproduzione Creatività commerciale , CSA,  Cusio


VAI ALLA    PARTE II  (D-L);   PARTE III  (M-Q-)PARTE IV  (R-Z);


Acari = Gli acari del formaggio (Tyrophagus ssp.) sono parassiti appartenenti alla classe degli aracnidi (che comprende doversi ordini tra cui quelli a cui appartengono i ragni).   Le dimensioni sono microscopiche e variano da 0,45 a 0,7 mm di lunghezza (la femmina è più grande del maschio). Il corpo è bianco e le zampe marroni. Una femmina di acaro depone centinaia di uova nel giro di un breve ciclo vitale di poche decine di giorni. Gli acari che causano la 'carie' , caröi,  del formaggio, ovvero buchellature alla superficie del formaggio che, se non raschiate in tempo (intervenendo anche con olio e aceto per distruggere il parassita) possono trasformarsi in gallerie e ampie cavità che si approfondiscono nella pasta, esponendola all'aria e alle muffe e causando forti perdite economiche in quanto le forme non sono più vendibili intere e neppure a metà o a quarti se il problema è grave. Va precisato che l'acaro non si nutre di formaggio ma della muffa ma che, così facendo espone all'aria lo 'scavo' favorendo la crescita ulteriore della muffa e garantendo al parassita il nutrimento. Fino a che, nei casi più gravi 'scappati di mano' (circostanza che non avviene nella cantina del Centro del Bitto dove c'è una continua pulizia delle forme) riducono i formaggi anche di grossa pezzatura a un cumulo di polvere rosso-grigiastra. In questa polvere quale si ritrovano, oltre ai frammenti di formaggio, anche gli escrementi e le spoglie dei parassiti. Anche se alcuni formaggi esteri sono appositamente prodotti con la crosta acarizzata, gli acari, i loro gusci e i loro escrementi presenti nel formaggio (e nell'ambiente di conservazione dei formaggi) possono causare irritazioni, dermatiti allergiche, intossicazioni intestinali, asma e allergie.  Tradizionalmente è apprezzato il furmacc'/formai de tara, caratterizzato da un processo di maturazione molto spinto e da una progressiva alterazione, causata da acari e muffe che attaccano il prodotto generando la comparsa di un sapore forte, piccante, unito al rammollimento della pasta e alla comparsa di colorazioni marroni-nere e anche viola. Apprezzato da taluni per il suo sapore molto forte, il furmacc' de tara è consumato unito a patate lesse o polenta e vino corposo. Non può essere ufficialmente commercializzato in quanto rientra nella categoria dei prodotti alimentari alterati. Al Centro del Bitto di Gerola le forme con problemi di acari penetrati in profondità vengono pazientemente 'smontate' e i pezzi non alterati sono messi in vendita (solo preso il punto vendita della Casera di Gerola) in apposite confezioni sotto vuoto, come caröi.  Ad un prezzo molto conveniente è possibile così degustare porzioni perfette provenienti da più forme di grande invecchiamento.  

Accordo = Il primo accordo sul tema del bitto risale al 1996. La contestazione dei non ancora ribelli (erano all'interno del Consorzio ufficiale) venne - a parole - fatta propria dalle istituzioni locali (Comunità montana di Morbegno, comuni) e dalla Coldiretti che si impegnavano a sostenere le rivendicazioni dei produttori storici (marchio aggiuntivo, disciplinare separato con obbligo del latte di capra). Bisognò aspettare sette anni per dare attuazione a questo accordo quando, con la sottoscrizione anche da parte della provincia, venne autorizzato nel 2003 il marchio a fuoco aggiuntivo 'Valli del Bitto'. Una vittoria effimera perché dopo due anni il Ministero diffidò dall'utilizzarlo (le istituzioni locali si erano ìdimenticate' di ratificare l'accordo alla regione e al ministero delle politiche agricole). Nel 2003 venne sigliato un secondo accordo che comprendeva oltre alla legittimazione del marchio 'Valli del Bitto' anche  la gestione di due concorsi separati per il bitto 'normale' dop e per quello 'Valli del Bitto' alla Mostra del bitto di Morbegno. L'accordo 'tenne' solo per due edizioni della Mostra perché, nel 2006, quelli che erano ormai i 'ribelli' boicottarono la Mostra in coincidenza dell'uscita dal Consorzio ufficiale e dalla dop come protesta contro la modifica del disciplinare (vedi) che introduceva mangimi e fermenti selezionati e contro il divieto ministeriale ad utilizzare il marchio 'Valli del Bitto'. Una tregua momentanea venne sancita nel 2007 per il centenario della prima Mostra casearia della Valtellina del 1907 ma, in quella occasione, l'Associazione produttori valli del Bitto non sottoscrisse un accordo-bidone che le era stato proposto da Provincia, Regione, Comunità Montana, Consorzio ufficiale Ctcb e dal comune di Gerola (sindaco Fabio Acquistapace). Un accordo talmente bidone che faceva riferimento a "una menzione speciale riservata alle zone storiche di produzione", salvo aggiungere che: "nel caso di impossibilità di ottenere quanto sopra per impedimenti comunitari o legislativi, studiare congiuntamente le forme per ottenere nel rispetto delle regole, risultati analoghi". Questo quando non più tardi dell'anno prima il Ministero aveva diffidato da usare il marchio "Valli del Bitto" e quando era palese che, nel 2005, in sede di modifica del disciplinare - unica ed ultima occasione possibile per ottenere tali 'risultati' - nulla era stato seriamente proposto e conseguito.
 Un ulteriore accordo, questa volta solenne e accompagnato da parole di sperticato elogio al bitto storico, promosso dalla Camera di commercio di Sondrio, venne siglato nel 2014. Fu presentato come la Pace del bitto (vedi 'pace') ma verrà ricordato come un grande bidone, perfettamente in sintonia, al di là delle apparenze, con i tentativi di accordo precedenti ovvero: 1) tentare di imbrigliare i ribelli senza affrontare il problema della distinzione della produzione storica (che solo la modifica del disciplinare di produzione del bitto dop avrebbe potuto risolvere); 2) cercare - a fronte di contropartite evanescenti - di utilizzare il Centro del Bitto, realizzato con investimenti della Società privata valli del Bitto come 'vetrina' istituzionale dell'agroalimentare valtellinese (compreso quello industriale).
Come nel 2006 si voleva  ottenere una pax Biti a buon mercato in vista del centenario della Mostra del bitto, così nel 2014 si desiderava la stessa cosa in vista di Expo Milano 2015. I ribelli non ci cascheranno più una seconda volta.

Amaro = Il gusto amaro rappresenta sempre un difetto nel formaggio. La sua percezione, però, è molto variabile da individuo a individuo e c'è anche chi non disdegna una 'punta' di amaro. Il difetto deriva principalmente dall'accumulo di peptidi (molecole più piccole derivate dalla scissione delle proteine) amari formati dall'azione di enzimi proteolitici sulle caseine. La caseina di per sé non è una proteina 'amara' ma a seguito della scissione enzimatica può liberare numerosi peptidi, tra i quali alcuni risultano di sapore amaro. Le
proteasi, ovvero gli enzimi capaci di scindere le catene proteiche, derivano sia da cellule somatiche ovvero i leucociti  legati alla risposta immunitaria (presenti in mumero elevato in condizioni di stress e di mastiti anche subcliniche) che da cellule microbiche.  Oltre ai peptidi derivati dalla proteolisi della caseina contribuiscono alla comparsa dell'amaro alcuni grassi (mono e digliceridi, acidi grassi liberi) derivanti dall'attività degli enzimi lipolitici del latte o apportati da batteri psicrofili che si sviluppano quando il latte è refrigerato (non è certo il caso dello 'storico ribelle'). Quest'ultima circostanza spiega il nesso tra la diffusione della refrigerazione del latte alla stalla e una maggior incidenza del difetto. Oltre al tipo di caglio e alle contaminazioni microbiche, può determinare l'insorgere di sapore amaro l'abbondanza di alcune piante. Incide anche una salatura non corretta che può modificare la struttura della caseina modificando l'azione degli enzimi proteolitici.  La contaminazione del latte con batteri di origine fecale quali gli enterococchi può rappresentare un ulteriore fattore. Fortunatamente tra i batteri lattici presenti normalmente nel latte alcuni sono in grado di degradare, mediante gli enzimi da essi prodotti, anche i peptidi amari. Può pertanto accadere che lo stesso formaggio che, ad un certo stadio di maturazione risulta difettoso, dopo un ulteriore periodo di stagionatura perda il difetto amaro.

Amici = Moltissimi sono i sostenitori, gli amici del bitto ribelle. Ma per 'amici del bitto' si intendono i giornalisti enogastronomici che hanno molto contribuito alla causa di un Davide che si è trovato a confrontarsi con Golia (il blocco delle istituzioni). Vanno citati per primi i compianti Luigi Veronelli e Francesco Arrigoni che hanno dedicato al nostro formaggio dalle colonne del Corriere pezzi di appassionato apprezzamento che ne hanno segnato la storia. Direttore di una piccola testata specializzata Stefano Mariotti con il suo Cheese time ha contribuito non poco, quando il web era ancora poco diffuso, a far conoscere in Valtellina ma anche tra il circuito dei ristoratori e delle rivendite qualificate la causa dei ribelli del bitto, anche nei suoi risvolti politici (quando l'accostamento cibo e politica suonava ancora stravagante). Tra i giornalisti si è espresso ripetutamente a favore dei ribelli del bitto Paolo Marchi (su il Giornale e poi sui propri canali ). Sue sentenze fulminanti quali quella che paragonava il bitto ribelle alla Ferrari e il bitto dop alla Duna. Ma vanno senz'altro ricordati tra gli 'amici' del bitto ribelle anche Giacomo Moioli (primo esponente di Slow Food ad interessarsi di bitto)  Licia Granello (Repubblica), Robi Ronza (che ha sostenuto l'ex bitto storico quando dirigeva la rivista Confronti della presidenza della Regione Lombardia), Paolo Massobrio (fondatore dei club Papillon).Tanti poi gli amici bergamaschi: Silvia Tropea, Elio Ghisalberti, Giovanni Ghisalberti, Alberto Lupini (direttore di Italia a tavola). Agli 'amici' è dedicata una 'galleria dei giusti' all'interno del 'santuario del bitto' (ovvero una serie di forme dedicate al loro nome).

Amico = Gli amici del bitto ribelle sono molti ma uno è, per definizione, l 'amico'. Questo titolo è stato meritato sul campo, in tanti anni di vicinanza, sostegno (... e tanta pazienza) da Piero Sardo, esponente storico di Slow Food e presidente della Fondazione Slow Food per la biodiversità. Persona schietta, che rifugge - forse anche troppo -  dal mettersi in mostra e attribuirsi meriti, Piero Sardo è entrato in una sintonia profonda con la vicenda dei ribelli del bitto. A Sardo va dato atto di aver creduto nei 'ribelli' e in Ciapparelli anche quando quest'ultimo poteva suscitare a Bra non poca diffidenza in quanto 'ruvido leghista valtellinese'. Eppure Sardo ha accettato di rappresentare il garante presso Slow Food dei ribelli. Una posizione non sempre facile perché, vista dall'esterno, la posizione dei ribelli poteva apparire in alcuni passaggi come quella di coloro che 'dicono sempre no', specie in considerazione dell'impegno con il quale gli altri cercavano di avallare l'immagine di 'inaffidabilità' di Paolo Ciapparelli. Tutte le volte che sono stete in ballo decisioni difficili e impegnative per Slow Food (che avrebbero comportato una problematica gestione dei rapporti con la Regione Lombardia), Sardo si è attenuto - quante volte lo sa solo lui - al principio: "Slow Food si attiene alle decisioni dei produttori".



Albaredo = È il comune dell'altro ramo delle valli de Bitto rispetto alla Valgerola. Sino al 2005 il comune di Albaredo era un sostenitore strenuo dell'Associazione produttori valli del Bitto e del Presidio Slow Food Bitto valli del Bitto tanto che vennero organizzati dei convegni. Dopo la rottura con le istituzioni e il consorzio ufficiale (Ctcb), il comune di Albaredo si è schierato con il fronte avverso e, in paese (dove esisteva già una latteria sociale) è stata aperta una succursale delle Latteria sociale Valtellina (la principale industria lattiero-casearia della provincia). I caricatori degli alpeggi di proprietà del comune di Albaredo dal 2006 non hanno più fatto parte dell'Associazione produttori valli del Bitto e non hanno più conferito alla casera della Società valli del Bitto. Due produttori, che caricano alpeggi privati, sono però tutt'ora all'interno del gruppo dei 'ribelli del bitto'.

Antenato = Tra il XV e il XVII secolo le bovine da latte allevate sulle Alpi aumentano ovunque. Alle pecore, che in precedenza fornivano una buona parte del latte vengono lasciate le montagne più secche e sassose. Due (tra gli altri) i fenomeni concomitanti che spingevano a questa trasformazione che spingeva lo sviluppo dell'attività casearia grazie alla maggior produzione ottenibile con le vacche da latte: il declino dell'importanza della lana per la crisi di alcune industrie tradizionali e per la crescente disponibilità di lane estere e la trasformazione della pianura lombarda dove alla cerealicoltura (gestita da latifondi suddivisi in aziende mezzadrili) e alle grandi superfici di incolti (utilizzate dai pastori montanari) subentravano - grazie ai progressi dell'irrigazione e delle bonifiche -le moderne cascine ad indirizzo zootecnico-cerealicolo dove l'abbondante produzione di fieno era consumata in gran parte da animali transumanti che, però, non erano più mantenuti in precarie strutture di legno, erette nell'incolto, ma restavano per tutto l'inverno presso una cascina, consumando il fieno e trasformando il latte. In Svizzera, dove l'altopiano è più distante,  le basse valli - dove la densità demografica è più bassa delle Alpi meridionali - si dedicarono alla foraggicoltura e seminativi e frutteti si trasformarono dal Cinquecento in avanti in prati.  In estate sia i nostri bergamini che i mandriani svizzeri risalivano in alpeggio, tanto che i canoni di affitto, in un periodo di crisi generale, aumentarono. Su tutte le Alpi  il formaggio d'alpe che era in gran parte misto (latte bovino, ovino e caprino)  divenne gradualmente (ma non ovunque)  di solo latte vaccino e le forme divennero più grandi (sia per la disponibilità di latte aumentata che per sistemi di tassazione a pezza e non a peso). Il bitto, dal XVI, ha pesi confrontabili con quelli attuali (in alcuni priodi forse anche maggiori). Ma prima? Di certo gli alpeggi erano caricati e si produceva formaggio pregiato. Il fatto che fosse pregiato e di alta qualità ce lo confermano alcue circostanza. Nelle valli del bitto e confinanti nel medioevo i grossi proprietari ecclesiastici (vescovi della pianura e di Como e potenti abbazie come Piona e Lenno) si erano assicurati il possesso di alpeggi che non fornivano rendite in denaro ma in natura. Il consumo di formaggio pregiato da parte di ricche comunità ecclesiastiche affonda le sue motivazioni nell'alto medioevo quando il consumo di formaggio, al posto della carne, marcava la differenza tra alto ceto laico (impregnato di cultura guerresca e venatoria di matrice germanica) e quello ecclesiastico che, pur non praticando il vegetarianesimo, doveva astenersi dal consumo carneo. Verso il XII secolo, quando abbiamo i primi documenti scritti sugli alpeggi, la situazione si stava evolvendo: lentamente il consumo di formaggio diventa elemento consono al prestigio dei signori che, verso la fine del medioevo, volentieri prevedevano il formaggio nei loro banchetti e si facevano omaggiare di formaggi. Al di là degli scarna documentazione disponibile sul possesso degli alpeggi, disponiamo di una rara documentazione iconografica che ci consente di ipotizzare che, anche nel caso del bitto, il suo antenato era di dimensioni più contenute oltre che prodotto con latte delle tre specie(vaccina, ovina e caprina), quelle stesse che i malghesi - come ci raccontano vari documenti del XII-XV - portavano a svernare alla Bassa.


La documentazione iconografica più antica - almeno a mia conoscenza - relativa ad un formaggio con caratteristiche esteriori simili al bitto, risale al 1470 e riguarda un affresco (le nozze di Cana) del ciclo della vita di Gesù dipinto dal pittore clusonese Giacomo da Buschis detto Borlone. Sulla tavola, oltre a dei pani, un formaggio duro e verosimilmente ben stagionato. Un formaggio che per forma dello scalzo, colore, pulizia della superficie, aspetto della supericie tagliata appare a ogni evidenza un 'piccolo bitto'. Indipendentemente dalla proporzione degli oggetti sulla tavola c'è una circostanza incontrovertibile che ci  indica come quella forma fosse di pochi kg: l'appoggio sulla tavola (sulla corona) che con una grande forma di bitto dei secoli successivi non sarebbe stato concepibile. Raffigurazioni risalenti a un secolo prima (le serie di miniature del Theathrum sanitatis e Tacuinum sanitatis ci mostrano le fasi della lavorazione del formaggio e anche della sua vendita. 


Il contesto è quello dei malghesi , con presenza prevalente di pecore da latte anche se le forme sono simili agli attuali formaggi d'alpeggio, di scalzo piuttosto basso e di dimensioni variabili, anche se alcune appaiono piuttosto grosse. Lo scalzo è però diritto come appare chiaramente nelle miniature che illustrano le forme in vendita. 


Un aspetto che collega le miniature della fine del trecento alla produzione del bitto è la forma e la dimensione della caldaia (inferiore a quella delle caldaie d'alpeggio attuali ma pur sempre di ragguardevoli dimensioni). Un particolare,  insieme all'ambiente che ha ispirato le miniature (la pianura lombarda già da tempo frequentata dai malghesi orobici) ci dice che ci troviamo in un contesto .



Probabilmente il 'protobitto' raffigurato nell'affresco di Clusone è uguale (resta da capire quando si afferma lo scalzo concavo) a quello di secoli prima. Non abbiamo prove ma possiamo pensare che le origini risalgano all'età del ferro (quindi ai celti) quando la tecnologia casearia si perfezionò e assunse caratteri moto simili a quelli delle lavorazioni artigianali tradizionali del presente. Quanto alla presenza di un formaggio con l'aspetto del bitto in val Seriana non c'è nulla da meravigliarsi: i bergamini della val Seriana (vedi) e della val Borlezza (particolarmente numerosi a Castione) producevano bitto. Poi nel XIX secolo si è diffusa la tecnica del semigrasso destinato al mercato bresciano (bagoss, silter, nostrano di Valtrompia sono tutti semigrassi).Il fatto che un formaggio della zona di Clusone, ancora presente nella memoria scritta e orale sia la 'bernarda' misto vaccino e ovino/caprino ci induce a ritenere che quello dell'af fresco fosse un formaggio misto non solo vaccino/caprino ma anche ovino. (quando la pecora bergamasca era molto più lattifera di quella attuale che, per esigenze di mercato ha dovuto specializzarsi da carne).

Area = Quello che è certo che il bitto/branzi è figlio delle Orobie. In passato era probabilmente diffuso oltre che nelle valli occidentali (sia sul versante lecchese che valtellinese che bergamasco) anche in val Seriana (vedi) come da alcuni indizi significativi e in Valsassina dove, prima dell'avvento dell'industria del gorgonzola (1880), gli alpeggi migliori e più grandi producevano formaggio grasso esitato in quantità consistenti al mercato di Lecco (vedi) . La produzione di bitto è documentata tra XIX e XX secolo in tutta l'alta val Brembana, in val Varrone e sul versante valtellinese, oltre che nelle valli del Bitto, anche in val Lesina, in Val Tartano, in val Madre , in val Cervia, in val Venina e in val Masino. L'indagine sui pascoli alpini della provincia di Sondrio del 1903-54 metteva in evidenza il quadro di cui alla successiva tabella.

Tabella . – Alpi pascolive in provincia di Sondrio con produzione del Bitto (Inchiesta sui pascoli alpini della Valtellina, 1903-1904)

Valle

n. alpi

n. alpi con prod. di Bitto

% alpi con prod. Bitto

n. vacche da latte

n.

capre

n. vacche in alpi con capre

alpi con capre

% alpi con capre

Val Lesina (Delebio, Andalo, Rogolo)

7

6

86

393

410

393

6

100

Val Masino (Ardenno, Buglio in Monte, Val Masino, Civo)

34

12

35

798

660

754

11

92

Val dei Ratti (Novate Mezzola, Verceia)

6

2

33

152

100

152

2

100

Val Tartano (Campo Tartano, Forcola)

22

20?*

91?

1330

637

596

10

50

Val del Bitto (Gerola Alta, Pedesina, Be­ma, Rasura, Albaredo, Cosio)

23

23?*

100?

1384

1093

943

14

61

Val Madre/Val Cervia/Val Livrio

(Fusine, Cedrasco, Caiolo)

22

16

73

969

1315

969

16

100

Val Ambria ( Piateda)

5

1

20

140

80

140

1

100

Totale

119

80

67

5166

4295

3947

60

75


* nel caso delle valli del Bitto e Tartano l'Indagine indica come “estesa su quasi tutte le alpi dellazona” la produzione del formaggio grasso; la presenza di due alpi con carico limitato e quindi non in grado si sostenere la produzione di Bitto induce a ritenere più probabile il n. di 20 alpi in Val Tartano.

All'inizio del Novecento la produzione di bitto aveva raggiunto la sua massima espansione. Nei decenni successivi essa si contrarrà molto in val Brembana (vedi) ma, in misura più limitata, anche in Valtellina. Bisogna arrivare al 1979 per disporre nell'ambito delle varie indagini ufficiali sugli alpeggi. Meno nota è la produzione di un formaggio 'tipo bitto' (con latte di capra ma senza lo scalzo concavo) nell'area del Monte Bregagno (Lario occidentale). Nella più tarda indagine sui pascoli alpini della provincia di Como (Società Agraria di Lombardia, Atti della Commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. «I pascoli alpini della provincia di Como» Volume III, , Milano Premiata Tipografia Agraria, 1912, p. 309) si riferisce che in Val del Liro e Valle Albano “si fabbrica formaggio grasso tipo Bitto, che trova buono smercio sul mercato di Dongo”. È interessante osservare che in queste zone si produce tutt’oggi dell'ottimo formaggio “Lariano grasso d’alpe” che, in alcuni casi, è prodotto con percentuali elevate di latte di capra (25-30%) e, molto probabilmente, si avvicina maggiormente al bitto di un secolo fa dell’attuale produzione valtellinese dop (per non parlare di quella della Valchiavenna dove per ragioni legate alla proprietà e conduzione degli alpeggi era radicata la produzione di formaggio magro e burro). Anche nelle Orobie valtellinesi era chiara la differenziazione tra l'area del bitto e quella del formaggio semigrasso. Il geografo Cesare Saibene, (C. Saibene, “Il versante orobico valtellinese - ricerche antropogeografiche -”, in Memorie di geografia antropica, 14, 1958, Cnr, Roma, 1959. p. 157) osservò come questa differenza si traducesse in tecniche, strutture pastorali e manufatti che imprimevano al paesaggio stesso connotati differenti:

"L’uniformità dell’organizzazione imprime altrettanta uniformità al paesaggio della zona dei pascoli. Un’eccezione di notevole portata è causata nel settore occidentale del territorio (valli Cervia, Madre, Tartano e Bitto) dall’usanza di fabbricare esclusivamente formaggio grasso (nel settore orientale, cioè nelle valli Livrio, Venina, Arigna, Malgina, Bondone, Caronella e Belviso, si fabbrica invece burro e formaggio semigrasso). [...] Se nell’alpe si fabbrica anche burro è necessario che il latte, dopo ogni mungitura, sia trasportato al centro dove è posto a riposare nel “baitèl” o “casèl del lac” perché ne affiori la panna [...] . Ma se nell’alpe si fabbrica solo formaggio grasso, la lavorazione del latte si fa direttamente sul luogo di stazione, dove sorge una capanna di sassi (una ogni stazione) che serve anche come ricovero notturno dei pastori, chiamata “baita de preda” e spesso priva di ogni tetto fisso, (e allora si chiama “calèc”) ché il tetto, oggi costituito più frequentemente da un telone impermeabile, ma una volta fornito da una grossa coperta fabbricata a mano (il tipico “pezzotto” valtellinese) chiamata “pelórsa”, viene trasportato da una stazione all’altra insieme agli arnesi per la lavorazione del latte, e serve per tutte le capanne, é evidente la differenza di paesaggio dei due tipi di alpi: le une, quelle dove si fabbrica il burro, spesso sono sprovviste anche della per la stagionatura del formaggio, ché il prodotto, di scarso valore commerciale, è portato a valle quotidianamente insieme al burro, e comunque sono spoglie di edifici su tutta l’area pascoliva, se s’eccettua la zona più elevata dove si incontra qualche spelonca di pastori di pecore costruita a secco. Le altre, dove si fabbrica solo formaggio grasso, sono munite in genere di tre edifici tipici e costellate su tutta l’area di pascolo di piccole capanne. Si rilevi come in questo secondo caso l’alpeggio si avvicini alle più tipiche forme di nomadismo".

Le attuali conoscenze sull'area storica del bitto/branzi sono riassunte nella seguente mappa dove in rosso è indicata l'area 'cuore' della produzione (caratterizzata dalla forma tipca, dall'aggiunta del latte di capra, dal sistema dei calecc' - vedi-), in giallo quella di un formaggio con caratteristiche molto simili, in rosa quella dove la tradizione del formaggio grasso 'tipo bitto/branzi' è venuta meno. La pretesa che il bitto rappresenti un formaggio 'sondriese' è frutto di arroganza pari solo all'ignoranza.


Arte = Il bitto ribelle esiste anche in versione 'bitto d'artista'. Il 23 settembre 2012 presso il centro del Bitto storico a Gerola alta un gruppo di artisti dell'Associazione milanese Arte da mangiare hanno  dato vita ad una originale performance artistica.
Gli artisti, utilizzando tecniche diverse, si sono cimentati nella nuova HeritageBittoArt ovvero l'arte che usa come supporto materiale alla creatività artistica forme di ex bitto storico di diversi anni di invecchiamento.Consorzio salvaguardia bitto storico e Arte da mangiare avevano già collaudato a primavera a Milano presso i Chiostri dell'Umanitaria dove ha sede "Arte da mangiare" la possibilità di "operare" in modo artistico sulle forme con incisioni, pirografia, pittura con colori alimentari. Lo spunto per sviluppare questa forma d'arte è stato offerto dalla fantasia e dall'estro calligrafico e decorativo con i quali vengono usualmente personalizzate le forme dell'ex bitto storico con dedica, ovvero adottate da singoli, associazioni, ristoratori. Il bitto ribelle, prodotto al vertice della qualità casearia, lontano da ogni forma di omologazione e serializzazione ha da sempre rifiutato etichette stampate. Insieme agli artisti si intende proseguire in queste esperienze che rappresentano anche una sperimentazione volta ad individuare nuove forme per "vestire" e "comunicare" un prodotto unico, frutto anch'esso di un'arte: l'arte casearia che i casari del bitto storico ribelle continuano a coltivare orgogliosamente. Nel tempo alcuni artisti hanno prodotto altre opere e 'restaurato' quelle realizzate nel 2012. Le opere sono state presentate a diverse importanti manifestazioni (Cheese, Salone del gusto, Gourmart ecc.)

Associazione = Costituita nel 1997, l'Associazione produttori valli del Bitto è stata sciolta in concomitanza con la costituzione del Consorzio salvaguardia bitto storico (4 giugno 2010). Durante questa fase piuttosto lunga dell'epopea dei ribelli sono avvenute cose molto importanti: è avvenuto l'incontro con Slow Food (dal 2001), il varo del Presidio bitto Valli del Bitto (2003), la rottura clamorosa con il Consorzio e l'uscita dalla dop a seguito dell'approvazione - con la totale contrarietà dell'Associazione- del nuovo disciplinare 'modernizzatore', la contemporanea rottura con il comune di Albaredo (vedi) e la fuoriuscita dei 'traditori' (vedi), la multa per 'lesa dop' inflitta nel 2009 dai gendarmi del gusto (vedi). Al di là di questa cronologia è stato in questo periodo che i ribelli sono diventati tali e che è stata elaborata una linea, basata su contenuti, valori ma anche su uno stile di comunicazione, che è rimasta alla base, e lo è tutt'oggi, della 'resistenza del bitto'. In questo periodo, anche attraverso il sito e la presenza dell'Associazione a eventi come il Salone del gusto e Cheese, si è definita e consolidata un'immagine precisa, anche tutta una simbologia (vedi simboli) e una 'mitologia' che sono diventate un patrimonio prezioso.


Aste = L'ex bitto storico è stato protagonista di diverse aste che hanno segnato il suo status di formaggio fuori dal comune. Il debutto di questa forma ben poco usuale di vendita di un formaggio si ebbe a  Bra (nel contesto di Cheese) il 19 settembre 2011. Vennero battute tre forme, una del 1996, una del 1997 e una del 1998. La prima venne prodotta nell'estate del 1996 dal casaro Acquistapace Faustino all'alpe Trona Vaga. Un casaro eccezionale che oggi non c'è più. Quando ha saputo che la sua forma di quindici anni proma  era divenuta la star di un grande evento di risonanza più che nazionale Faustino si commosse alle lacrime.  A Bra, però, l'asta aveva finalità benefiche (a sostegno della campagna di Slow Food "Orti per l'Africa") e non consentì di verificare se, dal punto di vista commerciale, la formula poteva avere successo. L'occasione per un test si ebbe dopo pochi mesi quando a Parigi, nel 2011, curata dalla casa d'aste Artcurial, il 19 dicembre (preceduta dall'esposizione dei prodotti dal giorno 16) si la prima asta mondiale dei prodotti degli artigiani del gusto con i prodotti più costosi al mondo. Battitore il maestro Françoise Tajan sotto la supervisione del giornalista enogastronomico Bruno Varjus. La forma di 12 kg è stata battuta a mille euro. Il vero debutto ad un'asta dove sono state battute forme intere di ex bitto Mercoledì 13 maggio 2015 a Milano, presso la sede della casa di mode Miroglio (a fianco della Scala)  sono andate all'asta (organizzata dalla nota casa Bolaffi) due forme del 2000 dell'Alpe Ancogno soliva (Mezzoldo, Bg), casaro Carlo Duca di Talamona (So). Pesavano 17 kg l'una e anche se non c'è stato rilancio sono state battute a base d'asta a 2.000 euro. Nell'occasione, però, sono state batture anche altre mezze fome e quarti di forma.

Bait = vedi bénula

Baita = Fabbricato con copertura permanente ma in genere di ridotte dimensioni (pari o poco superiori a quelle dei calecc' - vedi) dove avviene la caseificazione. La presenza di parecchie baite consente tutt'oggi di lavorare il latte sul pascolo dove è presente la 'malga' (vedi), senza sottoporre il latte alle alterazioni dovute al trasporto e le bovine allo stress di lunghi trasferimenti dal pascolo ai siti di mungitura.

Bàrech = un recinto di muriccia a secco realizzato - almeno in origine - presso capanne o ripari sotto roccia. Rappresenta una struttura primordiale, presente sugli alpeggi sin dalla protostoria. Nelle valli del Bitto molti alpeggi sono tuttora dotati di più bàrech (sino a 5-7), distribuiti in vari settori del pascolo. Tali recinti, con muri alti in media 0,8 m e larghi 0,5-0,6 m, facilitavano la sorveglianza del bestiame ed evitavano la sua dispersione (con rischio di caduta nei dirupi) in caso di temporali; hanno anche la funzione di favorire l’ingrasso delle aree migliori che sono intensamente utilizzate rappresentando anche una "riserva d'erba" quando, a fine stagione, si pascolano i ricacci. I bàrech di tipo più primitivo sono irregolarmente circolari; quelli più "moderni", invece, sono a pianta geometrica regolare (quadrata, rettangolare o poligonale). Anche la tecnica di costruzione si è evoluta: da una struttura muraria irregolare si è passati alla disposizione più o meno regolare di lastre disposte verticalmente. Spesso il muro è coperto da lastre piatte disposte orizzontalmente e sovrapposte le une alle altre in funzione di consolidamento e protezione della muratura. Agli angoli, e in corrispondenza delle aperture, si utilizzavano grosse pietre e massi. Le aperture possono essere da 2 a 5, chiuse da pertiche che si incastrano entro incavi della muratura. La superficie delimitata dai bàrech è di circa 1 .000 mq ma ve ne sono anche di molto più estesi.


Benefit = La Società valli del bitto dalla fine del 2016 è 'società benefit'. Le società benefit, previste nell'ordinamento italiano a partire dal 1° gennaio 2016, sono imprese finalizzate, oltre a produrre utili, a realizzare precisi obiettivi sociali e ambientali. Per la Società ciò a significato poter dichiarare in una forma che trova corrispondenza in una precisa connotazione giuridica, il proprio statuto di società per azioni 'anomala', nata per tutelare un patrimonio di cultura, storia, tradizione, biodiversità per farne una risorsa viva per la sua autosostenibilità e per lo sviluppo del territorio e della comunità locale. Dal 29 novembre la Società valli del bitto è anche certificata B-corp Benefit corporation dall'ente internazionale no profit B-Lab (che esamina molto severamente i requisiti di sostenibilità di una società).

Bénula = cassa di legno chiusa , fornita di uno sportello, per consentire ai pastori che devono sorvegliare la malga (vedi) di notte di disporre di un riparo e di un giacilio. È trasportata da due uomini come una barella inserendo delle stanghe lateralmente. Ancora utilizzata in qualche alpeggio.

Bergamini = I bergamini, detti anche malghesi, erano gli allevatori-casari che dalle Orobie scendevano in inverno nella bassa lombarda. La storia e la nascita del bitto sono strettamente intrecciate. Erano bergamini i caricatori d'alpe delle più alte contrade di Tartano, ma anche alcuni di quelle più alte di Gerola. Per secoli i bergamini della val Brembana e della Valsassina hanno caricato anche alpeggi della stessa Gerola. Con la sedentarizzazione dei bergamini (molti si stabirono definitivamente nella Bassa tra le due guerre mondiali come agricoltori, allevatori, artigiani ed imprenditori del settore agroalimentare), i caricatori delle valli orobiche valtellinesi, sfruttando i 'vuoti' lasciati dal bergamini brembani (che avevano spesso grosse mandrie e completavano da soli o in società tra loro il carico delle alpi) hanno iniziato tra le due guerre a 'colonizzare' gli alpeggi della valbrembana (e lo fanno ancor oggi). L'utilizzo degli alpeggi della lecchese Valvarrone da parte di gerolesi  – da soli o con elementi locali - risale, invece, alla seconda metà del XIX secolo. Romagna ove si spacciano per animali di provenienza svizzera Questa regione ha numerosi pascoli per nutrire le mandre durante la stagione estiva.

AGGIUNGERE


Bergamo = È stata una piazza importante per il commercio del bitto/branzi. Favorito dall'apertura della via Priula alla fine del XVI secolo il bitto veniva trasportato sino a Bergamo per essere stagionato dopo aver stazionato sino alle fiere settembrine  a Branzi e, in precedenza, anche di Mezzoldo, Cusio e forse altre località. Il declino della stagionatura e del commercio bergamasco del bitto/branzi  (a  Branzi e a Bergamo era conosciuto solo come branzi) risale al periodo dopo la prima guerra mondiale e si spiega con la fissazione dei bergamini (come fittavoli o agricoltori proprietari) nella bassa. Gli allevatori locali, che sino allora erano stati completamente tagliati fuori dall'accesso agli alpeggi (almeno di quelli migliori, da bitto/branzi) impiegarono del tempo ad aumentare le mandrie e riempire (insieme ai valtellinesi) i vuoti lasciati dai bergamini. Il branzi (vedi) divenne un formaggio semigrasso prodotto anche in inverno a Branzi (molto imitato anche fuori della Valbrembana), il bitto venne ancora prodotto (con il suo nome) su alcuni alpeggi da caricatori valtellinesi (e venduto a Morbegno), mentre in altri alpeggi si passò a produrre il più modesto (la forma è più piccola e lo scalzo diritto) formai de mut, come conseguenza di una diminuzione del carico degli alpeggi. Oggi vi sono anche caricatori bergamaschi che producono bitto (per ora solo dop). Ancora una volta la storia casearia orobica procede parallela sui due versanti. A Bergamo tutt'oggi stagiona bitto Giulio Signorelli (Ol formager).

Branzi = B. si affermò a fine Settecento come 'calamita' del mercato del bitto. Non solo tutta la produzione della val Brembana ma anche tutta quella della val Tartano e persino una parte di quella della valle del bitto, affluiva 'ai Branzi' dove si erano sei-sette casere private di negozianti che stoccavano intere partite in attesa della fiera di San Matteo il 21 settembre.  Maironi da Ponte nel redigere il suo Dizionario odeporico o sia storico politico naturale della provincia bergamasca, edito nel 1819, ci informa che ai Branzi: "[...] sul finir dì settembre da ogni parte della provincia concorrono negozianti a far provvista di formaggio giacchè la vicinanza anche delle ville di Carona di Foppolo e di Cambrembo luoghi di stazione di numerorosime mandre fa quivi affluire in gran copia il genere". Negli Atti del Consiglio provinciale di Bergamo (1874) leggiamo che: " [...] nel paesello di Branzi ricorre ogni anno una famosa fiera di formaggi, dove sono messi in vendita i prodotti di tutte le Alpi della Valle Brembana, e di gran parte della Valle Seriana e della Valtellina".
Al mercato di Branzi negli anni precedenti il primo conflitto mondiale la produzione di b. ivi esitata, nonostante un forte calo di afflusso del prodotto, era valutata ancora in 1.300 q.li..
. Prima del decollo della Mostra casearia di Morbegno e della realizzazione della Casera sociale (1907-1908) tutta la produzione della val Tartano e delle valli orobiche ad est, ma anche buona parte della produzione delle valli del Bitto affluiva ai Branzi ( Società Agraria di Lombardia, "I pascoli alpini della Valtellina" Atti della Commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. Volume I, Fascicolo III, Milano Premiata Tipografia Agraria, 1903. pp. 1-128).
Da Branzi il prodotto era inviato agli stagionatori di Bergamo da dove poi raggiungeva diverse piazze della Lombardia e del Veneto e anche le rivendite romane gestite da valtellinesi: "Nella fiera del formaggio dei Branzi si concentrava, un tempo, gran parte del Bitto prodotto in Bergamasca e in Valtellina, che affluiva su numerose piazze in Lombardia, nel Veneto e a Roma tramite valtellinesi dei Cek e della Valmasino che, già allora vi gestivano negozi alimentari. Quella fiera ne manteneva inoltre elevato il prezzo. (G. Bianchini, Gli alpeggi della Val Tartano ieri e oggi. Economia e degrado ambientale nella crisi dei pascoli alpini , Tip. Mitta, Sondrio, 1985., p.104).
Gli stessi alpeggi (e casari) potevano alternativamente produrre l'uno e l'altro e viene da chiedersi se fosse solo lo zafferano a distinguere b. da bitto. La realtà ci dice che non era solo lo zafferano. Il mercato bergamasco richiedeva un prodotto più duro, mentre quello di Morbegno (e quondi di Como) lo desiderava 'tipo bettelmat', più morbido, a pasta semicotta. All'inizio del '900 il prodotto destinato a B., era indicato dal Melazzini (G. Melazzini, Il caseificio in Valtellina, in: Società agraria di Lombardia,  Atti dell'inchesta sui pascoli alpini, Volume I, Fascicolo III, Milano, Premiata Tipografia Agraria, 1904. pp. 203-214), un autorevole tecnico caseario formatisi alla Scuola di caseificio di Parma anche come  'uso grana', e si distingueva dal formaggio Bitto esitato a Morbegno per la maggiore durezza, determinata dalla cottura ad una temperatura più elevata."Si passa tosto alla cottura con fuoco abbastanza vivo così da portare il tutto in mezz'ora o tre quarti d'ora alla temperatura di 38-45° R. [47,5-56] °C pel formaggio uso grana; 34-38° R. [42,5-47,5°C] pel Bitto." Il “Bitto” che affluiva a Morbegno era – come riconosciuto dal Melazzini - più “simile al Bettelmatt” (quindi cotto a temperatura più bassa, più morbido e meno durevole); quello che affluiva ai Branzi era “simile allo Sbrinz”, ovvero a un formaggio che, previa stagionatura, diveniva duro, da grattugia.
È facile osservare che le caratteristiche del bitto attuale si avvicinano più alla tipologia che il Melazzini, identifìcava con il ‘B.’.  Il bitto in ogni caso era il b.. Dopo la grande guerra vi fu una crisi verticale del branzi, sia per la concorrenza fattasi agguerrita di Morbengo, sia per la stabilizzazione in pianura dei bergamini che caricavano la maggior parte degli alpeggi brembani, sia per la penetrazione sul mercato bergamasco del grana lodigiano che, in precedenza, era un prodotto costoso che diventava vieppiù più accessibile al consumo di massa mano a mano che procedeva lo sviluppo della produzione di latte nella pianura. Così esso sostituì il n. quale prodotto da grattugia anche dei bergamaschi. I commercianti bergamaschi, o almeno alcuni, si inserirono essi stessi nella filera del “Grana”, cul cui commercio costruirà le sue fortune la ditta Zanetti, mentre il formaggio branzi trovò una sua nuova vocazione come formaggio da tavola. Alla crisi l'alta val Brembana , per poter mantenere una sia pure ridotta attività commerciale, rispose valorizzando la produzione invernale di formaggio non più grasso ma semiduro da tavola (e semigrasso data la convenienza della produzione di burro, sino all'avvento della margarina e della fobia dietetica per i grassi animali).  Venne perantro mantenuta la stessa forma, pezzatura e nome del vecchio b./bitto che era ben radicato nella tradizione bergamasca (va tenuto presente che il mercato cittadino di Bergamo è sempre stato legato alla val Brembana, mentre la produzione della val Seriana era indirizzata alle stagionature di Rovato e al mercato di Brescia dove il 'formaggio bergamasco' faceva concorrenza al bagoss). Nel 1953 nacque per opera del casaro Giacomo Midali  la Latteria sociale di B. tutt'ora attiva.  Nacque così il b. 'moderno' (oggi b. FTB della Latteria sociale di B., poi imitato da diversi caseifici che operano anche fuori dalla val Brembana).

Brembana(Val) = Buona parte della produzione di bitto/branzi a cavallo tra XIX e XX secolo era realizzata in val B. dai bergamini (vedi). Producevano bitto/branzi
ben 33 alpeggi con un carico di 4144 paghe e una produzione stimabile in 2300 q.li. . (Società agraria di Lombardia, 1907. Atti della commissione d’inchiesta sui pascoli alpini. Vol II, Fasc. III “I pascoli alpini della provincia di Bergamo ” Milano, Premiata Tipografia Agraria). Curiosamente nell'Indagine il bitto/branzi era definito bitto (formaggio grasso tipo Bitto) tranne che sugli alpeggi di Carona dove era chiamato branzi. Tutto quello che era commercializzato alla Fiera di San Matteo era comunque venduto come 'branzi'. Il Formai de mut (vedi) semplicemente non esisteva

Tabella - Alpeggi dell'alta val Brembana all'inizio de XX secolo (da: I pascoli alpini della provincia di Bergamo, 1907)

Nome alpeggio Comune Paghe Prodotto
Ponteranica S. Brigida 60 Formaggio grasso tipo Bitto
Parissolo* S. Brigida 60 idem
Avaro Cusio 173 idem
Foppa* Cusio 100 idem
Colle Averara 100 idem
Ancogno* Averara e Mezzoldo 180 idem
Gambetta Averara e Mezzoldo 80 idem
Cantedoldo Averara e Mezzoldo 90 idem
Azzarino/Fioraro/M.te Nuovo Mezzoldo 172 idem
Azzarino/Calvetti Mezzoldo 90 idem
Cavizzola* Mezzoldo 82 idem
Siltri Mezzoldo 58 idem
Terzera Mezzoldo 107 idem
Cavallo Piazza Torre 97 idem
Monte Secco Piazza 45 idem
Torcola vaga Piazza 118 idem
Torcola soliva Piazza 94 idem
Toragello Mojo de’Calvi 58 idem
Toracchio Mojo de’Calvi 80 idem
Arale V. con Scessi Valleve 300 idem
Saline Valleve 70 idem
Arete Foppolo 100 idem
Carisole Carona e Foppolo 700 Branzi
Sasso Carona 191 idem
Armentagra Carona 118 idem
Mersa Carona 72 idem
Foppe Carona 66 idem
Sardignana Carona 55 idem
Lago Gemello Branzi 173 idem
Valle Oscura Branzi 80 idem
Monte Colle Branzi 133 idem
Mezzena Roncobello 197 idem
Grumello Roncobello 45 idem
Valli S. Brigida 37 Burro e formaggio magro
Vago Valleve 30 ?
Fontanini Valleve 60 Stracchino
Piazzoli Foppolo 35 ?
Rovera Foppolo 28 ?
Cadelli Foppolo 20 ?
Dordona Foppolo 18 ?
Val Sambuzza Carona 133 Formaggini freschi
Acquabianca Carona 105 Stracchini di Gorgonzola
Foppobone Carona 33 ?
Zoppo Bordogna 30 ?

In val B. era importantissima, tra la fine del Settecento e il periodo tra le due guerre mondiali,   la fiera di San Matteo ai Branzi (vedi) al 21 settembre dove veniva trattata la maggior parte delle partite sino agli anni precedenti la grande guerra . Importanti depositi di bitto/branzi si trovavano anche a Mezzoldo.

 


Bergamini impegnati nella mungitura su un alpeggio dell'alta Valbrembana (inizio Novecento)

Burocrati = Tra b. e il bitto ribelle non c'è mai stato feeling (vedi Funzionarie)

Bustine = Ci si riferisce alle b' per indicare le dosi predosate di colture microbiche selezionate liofilizzate, pronte per essere aggiunte al latte (100, 500, 1000 litri)  in caldaia. Trattasi dei famosi 'fermenti' ('starter', 'industriali', 'selezionati', 'autoctoni' che dir si voglia)(vedi 'Fermenti').

Cadùla = attrezzo per il trasporto a spalla costituito da un telaio di legno con spallacci. Serve per il trasporto di forme di Bitto o della maschèrpa (vedi) ancora contenuta dei garòcc (vedi).

Calècc = semplice capanna 'casearia' (4 x 5 m in pianta) costituita da un muretto a secco (alto 1-1 ,5 m) senza copertura fissa. La copertura è costituita da un telone impermeabile sorretto da pertiche (due infisse nel terreno ed una orizzontale sorretta dalle prime) e opportunamente ancorato mediante delle corde alla muratura. Quando le condizioni atmosferiche sono buone, al fine di favorire l'allontanamento del fumo, il telone viene in parte rimosso. In passato la copertura era costituita da tavole di legno caricate da grosse pietre (per non farle smuovere dal vento) e, in tempi più recenti, anche da rozze coperte di lana di fabbricazione casalinga (pelòrsc). L'entrata, chiusa da un cancelletto di legno che impedisce l'accesso degli animali, si trova sul lato a"va11e: Dove il terreno è in forte pendenza si doveva procedere ad un livellamento, in questi casi il muro a valle è molto più alto e l'accesso avviene mediante una soglia e alcuni gradini realizzati con grosse lastre di pietra. All'interno del calècc , in un angolo, si trova il focolare con il supporto girevole per la caldaia del latte; in un altro angolo il paièr (vedi). Nel calècc vi sono anche lo spersoio dove vengono appoggiate, per lo spurgo del siero, le forme di Bitto e i garòcc della maschèrpa. Non manca mai lo scrìgn (bauletto di legno) con gli effetti personali e le scorte di cibo per i pastori. Oggi il calécc  è utilizzato solo raramente quale ricovero notturno per il personale che, di norma, può disporre di baite nelle vicinanze. Ogni stazione d'alpeggio disponeva di più calècc e ogni anno ne veniva utilizzato solo uno. Ma le stazioni erano numerose e l'utilizzo dei calècc' richiede frequenti e faticosi spostamenti di tutte le attrezzature (a cominciare dalla caldaia) e delle assi di copertura. Quando piove e tira vento, la lavorazione del latte e l'alloggio nei calècc presenta evidenti disagi. Va osservato però che le baite più rudimentali, specie dal punto di vista dell'allontanamento dei fumi, presentano a volte condizioni peggiori di quelle del calècc.  I calècc sono assunti assunti ad emblema dell'alpicoltura delle valli del Bitto e limitrofe (Tartano, Lesina, Brembana e Varrone). Su ogni alpe ve ne erano decine (100 all'alpe di Mezzana, 50 all'alpe Culino, 60 all'alpe Piazzo).



Cargamuunt = In italiano 'caricatore d'alpe'. Corrisponde al 'rilevatario' (rilevatari) ovvero al locatario dell'alpe quando gestita in affitto. Il cargamuunt può/poteva essere un vero e proprio imprenditore che oltre a fagare i canoni di affitto, versava un salario ai pastori e sosteneva tutte le spese per la gestione dell'alpe o solo il più autorevole (più esperto, dotato di bestiame e mezzi economici)  esponente di una società di alpeggiatori che si assumeva la responsabilità di sottoscrivere il contratto di affitto dell'alpe.

Caricatore = Cargaamunt

Caröol = Il caröol è il tarlo del formaggio. Vengono chiamati così, per estensione, pezzi di ottimo formaggio 'recuperati dalle forme attaccate dagli acari (vedi). Eliminata la parte alterata  sono messi in vendita in apposite confezioni sotto vuoto, come caröi  (solo preso il punto vendita della Casera di Gerola). Ad un prezzo molto conveniente è possibile così degustare porzioni del tutto 'sane' provenienti da più forme di grande invecchiamento. Un modo economico per conoscere un formaggio di grande invecchiamento (da meditazione).

Capra = Per il bitto che vuole restare fedele alla tradizione, la capra è un elemento irrinunciabile di identità.  Il latte di capra deve entrare per il 10-20%  nella produzione dello 'storico ribelle', un punto inconciliabile con il disciplinare (vedi) della dop che prescrive: da 0 a 10% massimo. Un'ulteriore differenza tra 'storico ribelle' e bitto dop consiste nel tipo di capra. Per il bitto della tradizione la capra non può essere di razza qualsiasi, ma deve essere quella autoctona, a rischio di estinzione, l'orobica (vedi), che si è 'coevoluta'con il bitto, che è stata conservata grazie al bitto.

Cascìn (cascìgn) = Pastorelli, gli addetti più giovani dell’alpeggio; adibiti prevalentemente alla sorveglianza diurna del bestiame. I cascìn ricevevano come compenso vitto e alloggio e uno o due maschèrpe (vedi) stagionate a fine alpeggio; iniziavano la loro attività a 9-10 anni e, successivamente, una volta che imparavano a mungere, passavano al ruolo di pastori. I grandi casari hanno iniziato così. Il termine cascin, tradotto un tempo impropriamente con 'cascinaio' non ha nulla a che fare con la 'cascina' (cassina), tanto è vero che l'aiutante del casaro, che si occupava della raccolta della legna ma anche del trasporto del bitto e della maschérpa dai calécc' (o baite) alla casera, nonché della preparazione dei pasti (per quanto estremamante frugali) era il cassinér. Cascìn è legato a casciàda, una forma di pascolo su pendi ripidi che necessita della sorveglianza assidua di pastori o pastorelli.

Casér = Il casér (casaro) per definizione è Enrico Colli. Di famiglia di casari  e caricatori d'alpe di Gerola, da bambino ha fato il cascin (vedi) come tutti i coetanei, 'respirando' la cultura del bitto. Responsabile tecnico già ai tempi della prima piccola casera del bitto ribelle (che si chiamava ancora bitto 'valli del bitto'), ha svolto per anni il ruolo di casaro nella nuova casera del Centro del bitto. Sempre presente ancora oggi in occasione degli eventi importanti è stato per lunghi anni l'immancabile braccio destro di Paolo Ciapparelli nelle tante occasioni in cui il bitto ribelle era invitato a partecipare.

Cheese (a Bra) 2005. Il casaro nello stand del 'bitto storico'

Casera = 1) La prima casera storica del bitto è stata quella di Morbegno, inaugurata nel 1908 come Casera sociale dei caricatori d'alpi, la sua attività è stata poi gestita dal comune di Morbegno. Sino al 1994, anno in cui esso ha improvvidamente ceduto l'immobile all'Asl; 2) la 'Casera' definita anche 'santuario del bitto' (vedi) o 'museo', rappresenta la parte del Centro del bitto gestita dalla Società Valli del bitto. Essa è stata inaugurata nel 2007 e, a dieci anni di distanza, si può affermare - senza tema di smentita - che ha segnato un passaggio chiave nella storia del bitto. Inserita nei circuiti turistici della valtellina da alcuni tour operator, la casèra, è  percepita come un luogo solenne che, pur di costruzione recente (anche grazie ai cimeli raccolti), trasuda storia, una storia importante ed esemplare. Il ruolo della Casera è stato riconosciuto dalle stesse istituzioni che hanno cercato ripetutamente di stroncare la 'ribellione del bitto'. Nell'accordo sottoscritto in occasione della 'Pace del bitto' era espressamente richiamato il ruolo della Casera che avrebbe dovuto diventare, grazie al fascino e alla credibilità che trasmette, un luogo chiave per la promozione dell'agroalimentare valtellinese. Ma la strumentalità dell'operazione messa in atto per mettere le mani sulla C. (che aveva avuto un precedente all'inizio del 2010), era evidente e tutto si è risolto in un bluff, in funzione dell'Expo 2015. L'affitto della C. scade nel 2033 e, sino allora, il patrimonio che essa rappresenta non corre pericolo di essere svenduto.
Al livello interrato vi è la cantina naturale di stagionatura, il caveau con 3 mila forme di formaggio storico ribelle, al piano terra il negozio con la sala degustazione e la cucina. 3) (d'alpeggio) fabbricato dove il bitto viene conservato e sottoposto a salatura a secco e pulizia durante il periodo d’alpeggio sino allo scarico dell’alpe. Nelle valli del Bitto e in quelle limitrofe dell’area storica di produzione del Bitto la casera non era mai utilizzata per la lavorazione del latte, ma solo per la conservazione dei latticini. La casera tipica della zona è su due livelli; quello inferiore, semi-interrato (sfruttando il profilo del pendio) garantisce un ambiente con temperatura bassa e umidità elevata e costante, idoneo per la stagionatura del Bitto. Al fine di assicurare un idoneo microclima il muro addossato al pendio era realizzato a secco (al contrario delle altre murature realizzate con malta di calce); le aperture erano limitate e il pavimento in terra battuta. Il livello superiore (sotto ­tetto), invece, ere destinato a mascherpèra (vedi). La casera era senza dubbio il fabbricato meglio costruito, con spesse pareti in muratura e calce, ed era dotato di spesse porte e di inferriate a protezione delle aperture per mettere al sicuro da malintenzionati il prezioso contenuto.

Cèch = I cèch sono i 'retici', la popolazione al di là dell'Adda divisa (sino a non molto tempo fa) da una sentita rivalità 'etnica' con gli 'orobici' (i maròch, termine spregiativo che rimanda a concetti di 'sterile', 'diroccato'). Per millenni i fiumi come l'Adda di un tempo (difficilmente superabili) hanno costituito il limes tra diverse etnie, non i crinali delle catene montuose che, quasi sempre sono popolate di qua e di là dalla stessa gens. Solo la modernità, lo stato nazionale, Napoleone, hanno ribaltato le cose, 'naturalizzando' i confini politici (ovvero costringendo ad assumere una identità 'nazionale' uniforme, a partire dalla lingua) ai sudditi (pardon, cittadini).  Tra cèch e maròch non c'erano scambi matrimoniali (i paesi orobici andavano semmai in Valbrembana e in valsassina a prendere moglie), però c'erano scambi economici, complementarietà. I cèch erano più agricoltori che allevatori, tenevano poche vacche che affidavano per l'alpeggio ai 'retici'. I proprietari delle vacche, spesso numerosi, erano chiamati lacèer: fornitori del latte. Quello prodotto da ogni bovina alpeggiata veniva pesato a date fisse in presenza del proprietario e quest'ultimo riceveva un compenso in denaro per ogni litro di latte (il calcolo veniva effettuato dopo la vendita del formaggio a fine alpeggio).

Celti = Molto presenti ed evocati nell'immaginario del bitto della tradizione (ma anche di quello dop). Nel primo caso si sottolineano gli elementi indubbi di storicità: la presenza delle tombe di pastori-guerrieri-minatori celti in Valsassina, la recente scoperta di incisioni rupestri riconducibili alla cultura proceltica di Golasecca (insediata in età del bronco, diversi secoli prima dell'arrivo dei galli, i 'celti storici'), l'indubbia superiorità tecnologica dei celti rispetto ad altri popoli italici e germanici che da loro hanno dipeso per innovazioni casearie (come prova la linguistica). Nel caso del bitto dop i celti sono stati utilizzati per un depistaggio circa l'origine del formaggio bitto. I documenti che riferiscono il formaggio alla "valle del Bitto" sono schiaccianti ma qualcuno ha voluto slegare (il perché si intuisce facilmente) il formaggio dalla valle e dal torrente. L'idronimo potrebbe essere ricondotto alla stessa radice di toponimi e antroponimi di origine gallica basati su bitu- (che significa 'mondo') ma non c'è nessuna ragione per ipotizzare un' origine indipendente del nome del formaggio che, fino alla fine dell'Ottocento, era indicato con chiaro riferimento all'origine geografica "della valle del Bitto", poi contratto in "del Bitto" e sono la metà Novecento in "Bitto".

Centro = il Centro del Bitto è il fabbricato di proprietà del comune di Gerola che ospita il complesso di casera di stagionatura, sale degustazione e vendita, museo, uffici comunali e auditorium. Si trova a a Gerola alta in via Nazionale 31. La Società valli del Bitto gestisce il piano terra e l'interrato (con uso dell'auditorium). La Società è legata al comune di Gerola non solo da un contratto di affitto ma anche da una Convenzione del tutto sfavorevole alla Società. Per aiutare il comune, che al tempo non disponeva delle risorse necessarie per il completamento dell'immobole la Società, sulla base della Convenzione pagò di tasca sua duecentomila euro di opere edili sulla struttura al 100% dal comune. Una cifra che costrinse ad accendere mutui creando una zavorra di interessi passivi che ha penalizzato la Società valli del Bitto sino ad oggi tanto che nell'assemblea straordinaria del 18 dicembre 2016 si è dovuto, ai sensi dell'art. 2644 del c.c. ridimensionare il valore nominale delle azioni in proporzione alla perdita subita (riconducibile agli interessi passivi dei duecentomila euro e a una perdita di cinquanta mila euro nello sfortunato tentativo di gestione dell'Albergo Valli del Bitto, sito di fronte al Centro del Bitto e di proprietà, anch'esso, del comune).

Cervia (val) = Una delle valle orobiche dove si produceva in diversi alpeggi, il bitto.

Classico = ‘bitto classico’ denominazione utilizzata temporaneamente dai produttori dell’ Associazione valli del Bitto prima dell’adozione di quella di 'bitto storico'. Oggi è totalmente in disuso.

Colore = 1) Colorre tipico. Per il bitto della tradizione il colore è molto importante anche perché non si copre con pelure (le etichette di carta) ma è 'nudo'. Sono importanti sia il colore della pasta che quello della superficie, della crosta. La pasta del formaggio fresco riflette la presenza di pigmenti vegetali (caroteni e xantofille) presenti nell’erba di pascolo. Sono invece bianchi i formaggi di pecora e di capra perché i pigmenti non passano nel latte di queste specie. Il colore giallo del formaggio è tanto più marcato quanto più il latte di origine è ricco di grasso in quanto i pigmenti contenuti nelle piante sono solubili nel grasso (liposolubili) e non nella fase acquosa.    Le medesime sostanze pigmentanti, in quanto foto- e termolabili, vengono alterate o perdute nel corso dei processi di conservazione dei foraggi il che spiega perché i formaggi invernali (a meno di aggiunta di coloranti) si presentano chiari.  Il colore marcato 'dorato' delle forme stagionate che rappresenta una caratteristica peculiare è legato a trasformazioni a carico delle proteine e dei grassi. Anche la pasta assume colorazioni molto cariche cn gli anni di invecchiamento. La crosta, oltre ad essere più disidratata è esposta a fenomeni di ossidazione a carico del grasso; il suo colore, in ogni caso, è del tutto naturale. Le forme di bitto sono solo regolarmente strofinate e raschiate. Un tempo si utilizzava anche l'olio di lino (il regolamento della Casera sociale del 1908 prescrive l'unzione ogni 15-20 giorni) in analogia ad altri formaggi che assumono un colore della crosta estremamente scuro in ragione dell'ossidazione dei grassi dell'olio.  Le forme di bitto di parecchi anni dal bel colore dorato e ambrato  a volte virano ad un colore scuro (cioccolato) o molto scuro. In questo caso non c'è aggiunta di olio ma, anche alla temperatura ambiente della Casera i grassi poliinsaturi bassofondenti (derivati dall'erba, che mantengono morbido a lungo il formaggio), trasudano in forma di minute goccioline che poi raffreddandosi creano una patina soggetta ad ossidazione (e quiondi iscurimento). Nel bitto le colorazioni anomale, legate a sostanze pigmentate prodotte da batteri sono considerate un grave difetto, ma sono rare. 2) Colorazioni anomale. Rappresentano un difetto della crosta e della pasta. Nel caso dello 'storico ribelle' la crosta è regolarmente pulita e raschiata. Batteri e muffe, responsabili di colorazioni anomale in altri formaggi, non hanno la possibilità di produrre il difetto. La pasta può invece presentare colorazioni anomale in relazione a discontinuità della crosta (spaccature, vedi) che consentono all'aria di penetrare e facilitare la formazione di muffe verdi-azzurre (da Penicillium). L'uso della salamoia, che non non regolarmente rinnovata rischia varie contaminazioni batteriche, può essere causa di colorazioni rosse. Una colorazione biancasta disuniforme della pasta è legata a una salagione scorretta, e non uniforme o a salamoia troppo fredda o a una rottura non omogenea della cagliata che produce una venatura simile al marmo ( formaggio marmorizzato).

Coproduzione = Divulgato da Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, rimanda ad un ruolo attivo del consumatore (che diventa quindi secondo altre definizioni 'consumattore') all'interno del movimento a favore del cibo locale (buono, pulito e giusto). Un ruolo che implica una relazione diversa con il produttore rispetto a quello, più o meno occasionale,  mediata dall'acquisto (sia pure diretto) del prodotto. Il coproduttore, attraverso formule che implicano a in alcuni casi la partecipaziene ad un gruppo di consumatori/coproduttori, attraverso formule quali le 'adozioni' (di animali, piante fruttifere, superfici coltivate), gli acquisti anticipati, gli 'abbonamenti spesa', i Gas, le quote di coltivazione (versate anticipatamente con diritto a quote di raccolto), l'acquisto di animali (con l'affido in soccida), la partecipazione a formule di 'nuova cooperazione', si assume parte del rischio della produzione agricola o altri oneri diventando un partner del produttore agricolo. In molti casi queste formule che appaiono 'post-moderne', risultanti dall'esigenza, da parte del consumatore consapevole, di superare la massificazione del sistema agroalimentare, ricalcano antichi contratti agrari secondo un'interessante riattualizzazione di antiche formule di compartecipazione. Nell'esperienza dei 'ribelli del bitto' i coproduttori, non tanto in quanto consumatori quanto persone consapevoli della necessità di sostituirsi alle istituzioni che stavano deliberatamente distruggendo un patrimonio prezioso per assecondare interessi forti, ma di corto respiro. Essi hanno  sostenuto i produttori storici del bitto, che rischiavano di essere assorbiti all'interno di una dop omologata, piegata alle strategie di marketing agroindustriali, costituendo una Società  e avviando (grazie a investimenti e impegni finanziari non indifferenti ) la stagionatura e la commercializzazione del loro prodotto che ha consentitodi salvarlo, grazie a una radicale differenziazione di prezzo.Il concetto di coproduzione assume, però, anche altri importanti significati nell'economia agroalimentare contemporanea. Esso rinvia alla produzione, congiunta e complementare a quella di beni fisici, alimentari o no food che sia), di utilità immateriali che possono essere a loro volta di carattere pubblico o limitato ad alcuni fruitori. Si tratta di tutti quei beni che riguardano la produzione di valori ambientali, social e culturali che - quando presi in considerazione - ribaltano le considerazioni riduzioniste e fuorvianti dell'analisi economica. Di norma, l'efficiente  produzione industriale, massificata, globalizzata, di beniin grado di produrre profitto attraverso il mercato è controbilanciata dalla produzione di utilità negative in termini di servizi ecosistemici (inquinamento, riduzione di biodiversità, maggiore suscettabilità a calamità naturali, riserve di acqua pura), di patrimonio (culturale), di valori sociali. L'inefficienza da questo punto di vista della produzione è anche economica perché la riduzione di capitale ambientale e sociale trova riscontro - temporalmente differito, cioè mascherato ad un'analisi all'attalità, in perdite di valori economici.

Comitato = Il Comitato per la salvaguardia del Bitto prodotto nelle zone di origine (Valli del Bitto), al quale ci si riferiva più frequentemente con il semplice nome di Comitato Bitto, si costituì nel 1994 quando i produttori storici si resero conto che i ‘giochi erano fatti’ e che la dop del bitto estesa a tutta la provincia era stata ormai decisa. Si sciolse nel 1997, in concomitanza con la costituzione dell'Associazione produttori valli del Bitto.

Como = In passato  una parte del bitto veniva convogliata verso magazzini di stagionatura di Como sfruttando la comodità del trasporto lacuale.
"Il formaggio grasso si conserva assai bene e migliora in bontà riposto per alcuni mesi nei magazzini entro la città di Como, per cui da taluni si pratica di lasciarvelo stagionare e quindi spedirlo altrove in commercio. (...) I migliori pascoli alpini trovansi nelle vallate del Bitto, Tartano, Masino, di Cervia, Venina, ove fabbricansi i migliori formaggi grassi, paragonabili almeno se non forse migliori degli svizze­ri" (Regione Lombardia, Settore Cultura e Informazione, Servizio biblioteche e beni librari e documentari, Agricoltura e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi: 1835-1839. Inchiesta di K. Czoernig, Editrice bibliografica, Milano, 1986, pp.721-722.
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Non solo quello che era venduto a Morbegno ma anche quello che dalla Valgerola e dalla Valvarrone veniva trasportato al porto di Bellano. 



Comunità di pratica = I caricatori, i casari, i pastori, gli stagionatori facevano parte di una vera e propria comunità di pratica caratterizzata da un interesse e da un prestigio comune, pur nel contesto di elementi di concorrenza. Esistevano meccanismi di confronto sulla qualità che comportavano un ruolo non puramente commerciale degli stagionatori, partecipi di un sapere comune che, attraverso di loro, era aperto alle verifiche, alle trasformazioni e agli stimoli del mercato. Da parte di diversi caricatori e casari, specie quelli più giovani - dopo una discontinuità generazionale che ha in larga misura disgregato la comunità di un tempo, sottoposta all'impatto con i valori produttivisti, all'accettazione di un ruolo subalterno all'interno di filiere in cui i nuovi valori della modernizzazione agricola venivano dettati da tecnici, funzionari, sindacalisti. Sono subentrati individualismo, perdita di orgoglio e identità, mera ricerca dell'interesse economico secondo il programma imposto. Con la rottura con il 'sistema'  la comunità del bitto ribelle per quanto 'assediata' da un contesto dove prevalgono altri valori (oggi, però, fortemente in crisi di credibilità) ha potuto recuperare una propria autonomia culturale. Così si sono rivitalizzate le relazioni orizzontali tradizionali, si è recuperato il valore della conoscenza che nasce dal basso, di un sapere che si riscopre capace - in contesti agli antipodi degli stabilimenti industriali - di rispondere alle esigenze di 'produrre qualità'  più dell'osservanza di prescrizioni tecniche informate a rigidi principi igienistici e a criteri 'scientifici' (cui spesso sfugge la complessità dei sistemi reali).  Questo sapere che torna ad essere un fattore vivo in quanto non più 'autocensurato' nella consapevolezza e nella pratica  dei produttori, non è semplice informazione ma è 'incorporato' nei gesti e nelle azioni quotidiane, nella corporeità, e nelle esperienze passate che un individuo porta con sé e che solo attraverso la pratica viene assimilato, 'assorbito' da altri individui che entrano in risonanza con questo sapere in azione.  In pochi casi il valore delle 'comunità di pratica' tradizionali nel campo della produzione zoocasearia è stato così chiaramente messo in evidenza come in quello del bitto ribelle. È sintomatico che il concetto di 'comunità di pratica' sia stato formulato da Etienne Wenger nel contesto della moderna sociologia delle organizzazioni produttive prendendo spunto da quel mondo, alla Silicon valley che appare abissalmente distante dai vecchi rapporti industriali. Che queste comunità produttive post-moderne ricalchino, per alcuni aspetti, quelle artigianali del passato tradizionale, non è un caso. Che il bitto ribelle, anche sotto questo profilo, rappresenti una punta avanzata, neppure. Per la discussione teorica del significato di 'comunità di pratica' cfr.E. Wenger , Communities of practice Learning, meaning, and identity Cambridge UK, 1998.  Cristina Grasseni, Lo sguardo della mano. Pratiche della località e antropologia della visione in una comunità montana lombarda, Bergamo, 2003.

Consorzio = (1) il Consorzio tutela Valtellina casera e bitto (Ctcb) è il consorzio bitto ‘ufficiale’. Costituitosi su base volontaria nel 1995, è stato ufficializzato nel 1996, in concomitanza con la attribuzione in sede nazionale transitoria della denominazione di origine ‘Bitto’. (2) Il ‘Consorzio salvaguardia bitto storico’ è stato costituito ufficialmente il 4 giugno 2010 e rappresenta la forma ‘matura’ di organizzazione dei ribelli del bitto. (3) Un Consorzio volontario per il formaggio Bitto. Fu costituito nel 1970 per iniziativa del veterinario Altero Carretta e del presidente della Pro Loco di Gerola, Genesio Maxenti. Ne fu presidente un casaro storico, Plinio Curtoni (classe 1925) . Il  consorzio aveva sede a Morbegno. Nonostante l'impegno di Carretta , a causa dell'atteggiamento di disinteresse dei caricatori che delegavano i loro interessi alla Coldiretti (di cui il Curtni era anche presidente locale), non riuscì a decollare. Rimase formalmente in vita sino al 1995 per gestire la Mostra del bitto che, di fatto, veniva gestita dallo Spafa (Servizio provinciale agricoltura e foreste) della Regione Lombardia. I soci partecipanti alla costituzione del Consorzio erano: Ezio Piganzoli di Rasura, Camillo Angelini di Morbegno, Daniele Zugnoni di Cosio Valtellino, Fausto Acquistapace di Cosio Valtellino, Iseo Mazzoni di Albaredo per S. Marco, Giuseppe Tarabini di Pedesina, Gaetano Curtoni di Gerola Alta, Alessandro Arrigoni di Bema, Adolfo Passerini di Morbegno, Mario Mazzoni di Albaredo per S. Marco, Luigi Orlandi di Cosio Valtellino, Gioachino Fallati di Gerola Alta, Lazzaro Rocco Curtoni di Gerola Alta, Francesco Curtoni di Gerola Alta.


Cooperativa = 1) Una Cooperativa produttori bitto fu costituita nel 1985. Operava la stagionatura presso le strutture del Colavev. (Consorzio produttori latte Valtellina e Valchiavenna). Dopo un periodo di intensa attività grazie al ruolo in qualità di segretario di un valente tecnico quale Fausto Gusmeroli, si avviò a un declino, sino ad essere ‘riassorbita’ nella fase costituente del Consorzio Ctcb a metà degli anni '90. L'attività della coop servì a spostare da Morbegno a Sondrio la 'governance' del bitto. 2) la Cooperativa di consumo di Gerola mette in vendita  formaggio grasso degli alpeggi di Gerola (che non potrebbe essere chiamato bitto) a prezzi significativamente inferiori a quelli del Centro del bitto, che si trova ... a una vetrina di distanza. Un perfetto esempio di cosa significhi in Italia "fare sistema".

CSA = Community supported agriculture. È una forma di 'agricoltura civica' che rientra nei sistemi agricoli e di consumo 'alternativi'. Diffusa nel Nord America trova corrispondenze in varie parti del mondo. Unisce le esperienze dei GAS (gruppi di acquisto solidale), basate su acquisti collettivi o degli 'abbonamenti spesa', settimanali o mensili,  che rappresentano una forma di relazione tra una singola azienda (o una cooperativa agricola) e un singolo consumatore. Nello schema della CSA vi è una relazione stretta tra un gruppo locale di consumatori (o coproduttori) e una o poche aziende agricole locali. I coproduttori si assumono parte dei rischi della produzione agricola anticipando all'inizio del ciclo stagionale una quota di partecipazione al prodotto e ricevendo i frutti indipendentemente dall'esito del raccolto. La relazione è comunque intensa perché il produttore è attento ai bisogni e alle esigenze della comunità che lo sostiene  e, viceversa, quest'ultima tiene conto dei problemi del coltivatore. In alcuni casi la quota di partecipazione può essere corrisponsa non in denaro ma in prestazione di lavoro. Il prodotto in eccesso rispetto ai bisogni della comunità di sostegno viene di regola indirizzato a 'banche del cibo'. Nel caso della Società valli del Bitto ci si trova di fronte a uno schema ancora più impegnativo. Non viene anticipata una quota stagionale o annuale ma si investe in quote della Società che sostiene i produttori assicurando loro un prezzo etico di ritiro della loro produzione e gestendo la stagionatura (che comporta costi elevati e importanti perdite) e la commercializzazione.  Un sostegno rischioso (i soci hanno in effetti perso in misura significativa quanto versato).  L'esperienza della Società valli del Bitto è quindi una forma unica ed estremamente avanzata e impegnativa di CSA  anche se esprime lo stesso spirito, ovvero il sostegno di una comunità di 'coproduttori' a un gruppo di produttori, a una produzione. Nel caso della CSA, i valori che si intendono sostenere sono quelli della piccola azienda locale, del cibo 'sano' (in genere biologico e biodinamico) ma rimane fondamentale l'interesse per poter consumare direttamente questo cibo. Nel caso della Società valli del Bitto l'aspetto del consumo diretto è molto limitato in quanto il 'dividendo etico' in prodotto corrisponde al 2% annuo del valore della quota in denaro versata. Il che significa un anticipo 'più che a vita', un anticipo di cui potranno fruire nella maggior parte dei casi gli eredi. La motivazione di consumo è quindi pocp più che simbolica. La comunità di sostegno dello 'storico ribelle'  è mossa dal desiderio di tutelare un prodotto per quello che rappresenta: i suoi valori storici, culturali, etici ed ecologici. Valori, però, che non sono solo importanti per sé stessi, ma forse ancora di più perché divenuti l'emblema di un modello che si contrappone all'omologazione agroindustriale delle attività agricole di allevamento, di trasformazione alimentare. Un medello che provoca accese discussioni nel dibattito pubblico e che quindi ha un grande valore di stimolo, educazione, critica. Un modello che mostra come possono essere contrastati i fattori che rendono i produttori dipendenti dai meccanismi del sistema globale (l'Impero del cibo) assicurando loro la sostenibilità economica ma che, al tempo stesso,che determina anche ricadute positive sul territorio e la comunità locali attraverso i tanti valori positivi (turismo, recupero di identità, cura del paesaggio, recupero memoria storica) 'coprodotti' da una  produzione agroalimentare rilocalizzata e virtuosa.

Cusio = Una delle località brembane dove si commercializzava bitto prima dell'affermazione della Fiera di San Matteo ai Branzi quale principale piazza del commercio del bitto/branzi





 

 

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