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(02.11.09)  

Un anno fa Ruralpini promuoveva una campagna a sostegno del Bitto 'storico' paventando la possibilità che esso potesse essere messo fuorilegge. E così è avvenuto

 

La burocrazia del gusto si affida alla repressione: pesanti sanzioni contro i 'ribelli del Bitto' che hanno sfidato la Dop

Può una Dop mettere fuorilegge la storia e la geografia? Può annullare i diritti collettivi e un patrimonio di una comunità di pratica radicata nella storia e nel territorio?

Il giorno 20 ottobre alcuni funzionari del MIPAAF si sono presentati al ‘Centro del Bitto’ per notificare alla società che opera la commercializzazione del Bitto ‘storico’ (la Bitto trading') due sanzioni per un massimo di 60.000 € motivate dal mancato assoggettamento ai controlli previsti per la produzione DOP e dalla usurpazione della denominazione protetta  ‘Bitto’.

La prima considerazione da fare riguarda lo sfacciato tempismo dell’iniziativa (il 18 si era svolta a Morbegno la mostra del Bitto Dop, ‘ufficiale’ e si volevano evitare spiacevoli scandali), la seconda il carattere di vera e propria svolta che l’azione repressiva del Mipaaf imprime alla ‘guerra del Bitto’,  il noto contenzioso, che si trascina da 15 anni, tra i produttori ‘storici’ - che operano nell’area di produzione tradizionale del formaggio Bitto - e il Consorzio di tutela (CTCB).

Il motivo è semplice: i produttori storici non accettano che il loro formaggio sia posto sullo stesso piano di una versione ‘semplificata’ che, per diversi aspetti, contraddice un procedimento di lavorazione costante nel tempo e che ha i suoi caposaldi nella qualità del latte di bovine alimentate con un sistema razionale di pascolo turnato (senza somministrazione di mangimi), nell' immediata lavorazione del latte a caldo, nell’aggiunta del latte di capra, nella lentezza e accuratezza della lavorazione (che richiede sino a 4 ore).

 

 

La la strategia di risposta

 

La notizia delle sanzioni contro il Bitto ‘storico’ è stata resa pubblica solo il 1° novembre attraverso un articolo su ‘La Stampa’ di Roberto Burdese, presidente di Slow Food. Burdese, ovviamente, si schiera - senza se e senza ma - a tutela del Bitto ‘storico’ (uno dei più 'nobili' presidi Slow Food).

L’uscita della notizia non è stata immediata. Essa è avvenuta dopo importanti riunioni nelle quali gli attori interessati hanno concordato la strategia di reazione, strategia che verrà resa pubblica nei prossimi giorni. Ricordiamo che il Bitto ‘storico’  rappresenta una realtà con diversi protagonisti: oltre alla società 'Valli del Bitto trading': l’Associazione Produttori Valli del Bitto (con i 16 alpeggi dove si attua la produzione), l’Ecomuseo della Valgerola, il Comune di Gerola Alta, Slow Food. Vi è poi il ruolo di una più ampia rete di simpatia e solidarietà (nell'ambito della quale Ruralpini si onora di svolgere un ruolo di rilievo) che ha già avuto modo di manifestarsi da tempo, specie da quando - giusto un anno fa - questo sito lanciava la campagna a sostegno del Bitto storico tradottasi nella petizione on-line, che ha raccolto 3.500 firme, e in diverse altre iniziative.

Il tentativo di colpire sul piano economico l’anello commerciale del ‘sistema Bitto storico’, attraverso lo strumento di salate sanzioni pecuniarie, non tiene conto, però, del fatto che il fronte dei sostenitori del Bitto storico è pronto a giocare la partita su tutti i piani: legale, mediatico, politico, non certo chiudendosi in difesa.

 

 

Una società solo in apparenza commerciale, espressione della responsabilità sociale degli imprenditori e del desiderio di ‘supplire’ all’assenza delle istituzioni

 

E’ bene precisare che la società che commercializza il Bitto ‘storico’ ha la sola finalità di sostenere la produzione dei 16 alpeggi aderenti all’ 'Associazione Valli del Bitto' riconosciuto quale Presidio da Slow Food garantendo il ritiro a un prezzo 'etico' del prodotto.  La 'Valli del Bitto trading' è stata promossa nel 2003 da Paolo Ciapparelli, presidente dell'Associazione Produttori Valli del Bitto assieme ad altri nove imprenditori locali apparentemente 'estranei' al mondo del formaggio (tra cui meritrano una citazione Gino Cattaneo di Forcola e Attilio Manni di Gerola). La creazione della società commerciale a supporto della produzione del Bitto storico si è rilevata una felice intuizione che ha consentito 6 anni di sicurezza per i produttori nonostante le traversie che il Bitto storico ha dovuto e deve affrontare per non piegarsi alle pesanti pressioni che vorrebbero la sua 'normalizzazione'.

La società 'Valli del Bitto trading' opera in stretta collaborazione con i produttori e con Slow Food stessa ed acquista il Bitto ad un prezzo politico (o, meglio, etico) concordato preventivamente e che corrisponde a ben 16 € al kg pagati al produttore per il prodotto fresco.

Si sfida a trovare un soggetto che paga all'origine un prezzo maggiore! La 'Bitto trading', per poter valorizzare il prodotto, gestisce la casera del ‘Centro del Bitto’ per l'utilizzo della quale sono stati versati al Comune di Gerola alta (proprietario dell’immobile) - al fine di assicurarsi una garanzia di continuità operativa - 300.000 € a titolo di anticipazione dei canoni di affitto.  Con queste premesse è evidente che la società ‘Valli del Bitto trading’, lungi dal perseguire fini di lucro, è l’espressione di una vera e propria rete di solidarietà, che si è concretizzata in un concreto sostegno alla causa del Bitto storico da parte di alcuni imprenditori locali 'illuminati'. Essi  hanno rischiato (e rischiano) di tasca propria mossi dalla passione sincera per un prodotto simbolo della loro terra, che stava per rischiare di essere schiacciato dall’incombente 'sistema Dop'. Molti, altrove, parlano di ‘responsabilità sociale’ dell’impresa qui, nella migliore tradizione lombarda, la si pratica. Senza tante parole.   Gli imprenditori locali che sostengono il Bitto ‘storico’ – svolgendo un ruolo di ‘supplenza’ - si sono di fatto sostituiti alle istituzioni locali (in buona misura latitanti) per non disperdere un patrimonio che, altrove, avrebbe da tempo rappresentato il fulcro di una forte strategia di marketing territoriale (non a caso – riferendosi espressamente al 'Bitto delle Valli del Bitto' – il compianto Luigi Veronelli – si chiedeva cosa avrebbero fatto i francesi ‘se avessero il Bitto’).

 

 

Paradossi

 

Va notato che al ‘Centro del Bitto’, luogo fisico e simbolico oggi al centro della ‘guerra del Bitto’, viene contestata la sua stessa denominazione. Qualcuno, con sarcasmo, osservano che, per far contenti ‘quelli del Ministero e del Consorzio’, si dovrebbe deviare il corso del fiume Bitto che scorre proprio sotto la casera (giusto per togliere ogni pretesto a coloro che osano 'usurpare' la Dop) o persino cambiarne il nome.

Forse bisognerebbe anche imporre al comune di Gerola alta di cambiare denominazione alla ‘Via Bitto’ e, chissà, magari anche ingiungere di cambiare cognome – pena sanzioni per uso abusivo di denominazione tutelata dalla Dop – a chi porta il cognome Bitto (non sono pochi e qualcuno è abbastanza famoso, vedasi il web). Giusto nel caso che a qualche Sig. Bitto frulli per la testa di darsi alla ceseificazione e di ‘piantar grane’ alla Dop. Per tagliare la testa al toro sarebbe il caso anche di cancellare dalle carte geografiche il toponimi ‘galeotti’ Valle/Valli del Bitto.

Per tali zelanti ‘protettori’, però, non sarebbe ancora finita. Bisognerebbe, se volessero fare sul serio e prendere il toro per le corna, oscurare migliaia e migliaia di pagine internet, e accendere innumerevoli pire per bruciare svariate tonnellate di libri, articoli di riviste, giornali che fanno riferimento alle famigerate ‘Valli del Bitto’ indicandole, come ‘luogo di origine e di elezione’ del formaggio Bitto.  Le ‘carte’ da bruciare sono tante anche perché è da almeno 5 secoli che si parla di ‘formaggio della Valle del Bitto’.

Basterebbe tutta questa 'caccia alle streghe' a sradicare di qui al prossimo secolo la memoria storica di un impudente ‘Bitto storico’? Riuscirebbe la Dop dopo questa immane azione censoria a far dimenticare il proprio vizio di origine? Chissà? Nella storia alcuni regimi e tirannie hanno provato a cancellare la storia e la geografia, qualcuno ci è persino riuscito.

Non crediamo, però, che il tentativo dei ‘protettori’ della Dop possa spingersi tanto avanti.  La loro azione che dovrà accontentarsi di molto meno e, non potendo sradicare alla 'radice' la 'malapianta' di una storia renitente a  farsi cancellare, è destinata al fallimento.

Tentano di scrivere, retroattivamente, la storia e di oscurare la geografia, ma l’opera di cancellazione, come abbiamo visto, è improba. Con i regolamenti a tutela della Dop si possono comminare pesanti sanzioni, persino sequestrare materiali e prodotti ma non ce la si fa - parlando sul serio - a cambiare le carte geografiche, a bruciare i libri, a distruggere i documenti storici.

Tra l’altro bisognerebbe bruciare anche i volumi editi daggli stessi Ministero e Regione Lombardia che, pochi anni prima del riconoscimento della Dop, asserivano come il Bitto derivasse solo dalle vallate orobiche. In particolare bisognerebbe bruciare anche il volume da poco edito da Ersaf (Ente regionale per i servizi agricoli e forestali) con il titolo ‘Il formaggio Val del Bitt’, dove si ricostruisce minuziosamente la storia del Bitto chiarendo che è dal 1500 che è noto è apprezzato il formaggio ‘della Valle del Bitto’ e come l’area di produzione sia rimasta  - sino agli anni ’80 - quella delle valli del Bitto e limitrofe.

Ma non è finita. Come la mettiamo con la 'sovversiva-del-gusto-ante-litteram' Camera di Commercio di Sondrio che, dal 1983 al riconoscimento della Dop, ha marchiato ‘Bitto valtellina’ solo il formaggio grasso d’alpe proveniente dagli alpeggi della Comunità Montana di Morbegno e da quelli di alcuni comuni della Comunità Montana di Sondrio (di fatto un’area di poco più ampia di quella storica)?  Come si fa a nascondere il fatto che sino al varo della Dop c'era il 'Bitto valtellina' e, fuori dall'area storica, un generico 'Valtellina d'Alpe'. La Dop, piccolo dettaglio, richiede almeno 25 anni di attestazione di storicità. Come la mettiamo allora con un ente pubblico che sino all'anno prima del glorioso riconoscimento della Dop estesa a tutta la provincia di Sondrio attestava che c'era da una parte il Bitto e dall'altra parte produzioni difformi tra loro di 'Formaggio d'Alpe'. Del resto lo status dei prodotti d'alpe valtellinesi, certificato dalla CCIAA di Sondrio, rifletteva quello che le indagini e gli studi in materia avevano ampiamente indicato:

 

‘I formaggi stagionati prodotti negli alpeggi siti fuori della zona del Bitto vengono genericamente denominati «Valtellina d’Alpe». Più che indicare un prodotto dalle caratteristiche ben definite, il termine comprende un insieme di tipi di formaggi […]’ [1]

 

La guerra contro il Bitto ‘storico’ sconta anche un’altra serie di aspetti paradossali per poter essere condotta ‘fino in fondo’. Il ‘Centro del Bitto’ è casera di stagionatura ma è, al tempo stesso, sede dell’Associazione Produttori Valli del Bitto e del Presidio ‘Bitto Valli del Bitto’ di Slow Food. Tale presidio, come tutti i presidi Slow Food, è sostenuto dal MIPAAF che ora 'sanziona' i produtti del Presidio.  Il ‘Centro del Bitto’ (realizzato con fondi regionali ed europei) in quanto luogo di stagionatura del Bitto ‘storico’ è parte integrante e sede dell’Ecomuseo della Valgerola, un ente culturale che fa capo al Comune di Gerola Alta e che è riconosciuto dalla Regione Lombardia e che riceve da essa finanziamenti. Difficile liquidare la questione del ‘Bitto storico’ come faccenda da ‘talebani del gusto’, ‘bastian contrari’, ‘smania di protagonismo’ (con riferimento al presidente dell’Associazione, Paolo Ciapparelli). Come valutare poi le prese di posizione di esponenti del Consiglio (uno a caso, il Presidente) e della Giunta Regionale della Lombardia che nel 2008 e ancora nel 2009 espressi in pubblici convegni a favore del Bitto 'storico'?

 

 

C’è un paradosso ancora più di fondo

 

Nel caso del formaggio Bitto si assiste al paradosso di una Dop che tutela una produzione ‘similare’ realizzata in un’area geografica molto allargata e con metodi di produzione ‘faciliati’ (integrazione dell’alimentazione al pascolo con mangimi per aumentare la produzione di latte, aggiunta di fermenti selezionati al latte per ‘pilotare’ i processi fermentativi e ‘facilitare’ la lavorazione casearia, utilizzo facoltativo dell’aggiunta del latte di capra che esonera dal mantenimento di un gregge di capre da latte in alpeggio). Quel che è più grave e francamente inconcepibile è che la tuteli dal prodotto realizzato nell’area storica di produzione, e con i metodi tradizionali. Moneta grama scaccia qeulla buona si diceva una volta!

Il sistema delle Dop è – almeno in teoria - finalizzato a proteggere le denominazioni di origine da imitazioni e usurpazioni; nel caso più comune si tratta di scoraggiare le ‘taroccature’ ,ovvero la diffusione di prodotti realizzati al di fuori dall’area di produzione, utilizzando materie prime  e metodi tali da ridurre i costi di produzione rispetto al prodotto originale, operando una concorrenza sleale.  Il tutto per consentire ai produttori di mantenere metodiche leali e costanti e garantire un risultato qualitativo elevato al riparo di una concorrenza che frustrerebbe lo ‘sforzo produttivo’ elevato richiesto per mantenere tutto ciò.

Ma alla base del ruolo di garanzia assunto dall’Unione Europea con l’istituzione delle denominazione protette non vi è solo l’esigenza di tutelare una generica qualità. Con le DO è in gioco quella qualità specifica che deriva da un riconosciuto legame tra il territorio (con le sue determinanti ambientali e culturali) e il prodotto. Le DO rispondono all’esigenza strategica di promuovere lo sviluppo rurale sottraendo in particolare le aree svantaggiate da una concorrenza - perdente in partenza - con le produzioni agroindustriali. La tutela del prodotti tipici, di cui le DO rappresentano un aspetto importante, è pensata quale ‘moltiplicatore economico’. A differenza del prodotto agroindustriale, che non genera valore aggiunto (la trasformazione, distribuzione, commercializzazione avvengono altrove), il prodotto tipico può generare un volano positivo per l’economia rurale di aree geografiche svantaggiate in quanto coinvolgono una comunità locale che comprende sì dei produttori agricoli alimentari, ma inseriti in una filiera territoriale (che non è solo agroalimentare, ma anche turistico-culturale e turistico-gastronomica).

Se le cose non stessero in questi termini non sarebbero state riconosciute Dop con volumi di produzione ancora più limitati di quello del Bitto 'storico' (basti pensare al Formai de Mut e alla Formaggella del Luinese solo per restare in Lombardia).

 

 

La gestione del Consorzio e le recenti modifiche del disciplinare hanno rafforzato la volontà dei produttori storici di non confondersi con il Bitto dop 

 

Consentire che la Dop venga utilizzata come strumento contro i produttori dell’area storica rappresenta la negazione dello spirito delle DO che sono state istituite nel solco delle 'denominazioni geografiche' quali strumenti più puntuali di protezione, tutela e promozione di diritti comunitari collettivi in opposizione a diritti privati monopolistici. Ma, se il Bitto storico è il prodotto di una comunità locale, che è stata in grado di rinnovare e attualizzare i nessi tra prodotto e territorio r che può a buona ragione rivendicare la propria titolarietà ad un diritto comunitario, invece, il Bitto Dop, inserito in un ben diverso contesto, con la tutela di diritti comunitari c'entra poco o nulla. 80 produttori di Bitto Dop sono tasselli subalterni di un sistema (Consorzio Tutela Bitto e Casera) che - come espressamente dichiarato dai suoi responsabili - ha la finalità di tutelare i ‘formaggi tipici’ valtellinesi e valchiavennaschi nel loro insieme (tanto è vero che si sarebbe voluto comprendere anche lo Scimudin - una rivisitazione industriale di quello autentico - nel ‘paniere’). I produttori di Bitto Dop sono ‘annegati’ nel più vasto numero di soci conferenti il latte alle Coop che producono Valtellina Casera Dop (200.000 forme all’anno versus le 20.000 di Bitto Dop). Essi oltreche che essere in minoranza sono anche spesso in posizione subordinata alle grandi latterie cooperative e agli stagionatori dal momento che, durante l’inverno, consegnano il latte alle coop stesse. Li hanno spinti (quelli del 'giro', che vendono 'servizi di consulanza', mangimi, fiale del seme dei tori 'selezionati', stalloni prefabbricati, maxi trattori, integratori, informatica) a mungere sempre di più, a tenere più mucche sempre più produttive. Con tutto quel latte che mungono devono tenersi buone le grosse latterie industriali (che siano coop non cambia nulla) che lo ritirano. Figuriamoci se questi allevatori, ormai legati mani e piedi al carro dei 'padroni del vapore' possono fiatare. Alcuni, già soci dell'Associazione Produttori Valli del Bitto, hanno dovuto abbandonarla.

Di fatto il CTCB è gestito dai manager delle latterie e dagli amministratori delle coop (grossi allevatori che spesso traggono il loro prestigio e influenza dal loro essere imprenditori in settori extra-agricoli e che godono dell'accreditamento politico del caso).

Il Bitto Dop in questo contesto è del tutto estraneo ad una comunità di produttori ed anche ad una comunità economica locale nonchè ad autentiche strategie di filiere e marketing territoriale . La strategia delle latterie e del CTCB guarda alla GDO, alle esportazioni, ragiona in termini industriali. Aggiungiamo che i formaggi Dop con i vini Dop valtellinesi fanno parte di un 'multiconsorzio' insieme agli industriali della Bresaola (la cui reputazione è stata recentemente scossa dagli scandali della carne congelata deteriorata di origine uruguaiana). Quello è il mileau del Bitto dop.

 

 

 

Le modifiche al disciplinare rappresentano un regresso, possono modificare in peggio la qualità, compromettono i pascoli

 

Nello specifico va poi ricordato che l’uscita dei produttori storici dalla Dop è avvenuta dopo l’approvazione (in sede nazionale, per ora) delle modifiche di un disciplinare che già in origine si distaccava dalla tradizione consolidata di produzione del Bitto. Le modifiche, contestano i produttori storici, vanno nel senso della ulteriore ‘facilitazione’ della produzione del Bitto Dop. Per essi, pertanto, le modifiche (introdotte nel 2006) non sono giustificabili in quanto non contribuiscono all’aumento della sicurezza del prodotto, ovvero delle sue caratteristiche organolettiche legate al territorio. L’impiego dei mangimi (3 kg di sostanza secca di mais non sono ‘una brancata’!), comunque lo si valuti, riduce il legame con il territorio (diminuendo l’apporto assoluto o comunque relativo di erba di pascolo). Difficile sostenere che si aumenta la qualità.

Non sono modifiche neppure giustificabili con il ‘progresso tecnico’ dal momento che la ‘selezione genetica’ addottata come motivo che imporrebbe un ‘aiuto alimentare’ alle bovine 'che non ce la fanno più solo con l'erba' e quindi per non ‘compromettere’ il loro benessere, è ormai riconosciuta quale fattore negativo e di ‘regresso’.

ll Panel degli esperti chiamati a fornire all’Efsa un parere sul benessere delle vacche da latte ha concluso che, a causa della selezione per l’aumento della produzione di latte, le bovine soffrono per una condizione di insufficiente benessere e salute. A maggior ragione ciò dovrebbe indurre a valutare con severità la politica di introduzione in montagna - dove le condizioni ambientali sono più severe - di bovine di razze selezionate specializzate per elevate produzioni di latte.  Oggi moltissimi allevatori che intendono praticare l’alpeggio stanno cambiando razza introducendo la Pezzata Rossa o, attraverso incroci o acquisto di animali in purezza, anche razze più rustiche. La soluzione della ‘integrazione’ con il mangime si è dimostrata fallimentare dal momento che tale pratica non risolve il difficile adattamento delle vacche super selezionate all’ambiente dell’alpeggio (con conseguente stress) ed è causa di ulteriore degrado dei pascoli alpini dal momento che con l’introduzione dei mangimi e dei carri di mungitura meccanica si tendono ad utilizzare solo i pascoli più comodi, dove si concentrano le deiezioni degli animali: là avanzano gli arbusti, qui l’eutrofizzazione e il grave degrado per diffusione di flora ammoniacale.

Si può concludere che le modifiche introdotte nel disciplinare del Bitto Dop rispondono ad una logica produttivista (propria dei soggetti che gestiscono il CTCB)  che va a scapito della qualità, della tradizione e dello stesso ambiente e che quindi non può ritenersi compatibile con il Regolamento 510/06 CE. Sono queste le ragioni per cui i produttori storici sono usciti dalla Dop.

L’unica concessione che gli è stata offerta è stata la marchiatura con il nome dell’alpeggio di tutta la produzione (indipendentemente dall’area geografica) ottenuta senza mangini e fermenti.Ciò lascia irrisolta la questione del riconoscimento e della indicazione dell’area storica di produzione, ma non risolve neppure la questione del latte di capra e – per di più – lascia la possibilità al Consorzio di attestare un Bitto pseudostorico, senza che l’Associazione Produttori delle Valli del Bitto possa esercitare il proprio controllo su di essa. Ovvio che a queste condizioni i produttori srorici 'non ci stanno'. L’unica soluzione, valida (se fosse stata adottata a tempo debito), era quella della sottodenominazione. Negata per il Bitto il Ministero l’ha concessa al Grana Padano e alla Mozzarella di bufala campana (la legge uguale per tutti!). Non parliamo dei vini dove si stanno moltiplicando i cru e le sottodenominazioni geografiche.

 

 

Diritti violati

 

Il Bitto 'storico' è espressione di una comunità territorialmente identificata e definita da relazioni funzionali e rapporti sociali tra molte figure (proprietari del bestiame, caricatori d’alpe, casari, stagionatori, commercianti). Esse hanno costituito e costituiscono la ‘comunità di pratica del Bitto’, il 'sistema culturale Bitto' che, come nel caso di altri prodotti fortemente radicati nella storia e nel genius loci locale, rappresenta un patrimonio collettivo prezioso. Tale patrimonio, però, non avrebbe senso, e non potrebbe essere ‘messo a frutto’ e rivendicato quale proprio al di fuori di un contesto di una comunità locale consapevole del valore di questo bene e desiderosa di conservarolo e valorizzarlo. Stante queste condizioni - che nel caso del Bitto 'storico' sussistono tutte - la disponibilità di questo patrimonio rappresenta un diritto collettivo intangibile e il suo esproprio una vera e propria grave usurpazione.

Oggi alle figure tradizionali della ‘comunità di pratica’ si sono aggiunti altri attori locali a testimonianza di una straordinaria vitalità e continuità della ‘civiltà del Bitto’. L’Ecomuseo della Valgerola e la Società 'Bitto trading' rappresentano due aspetti, uno sul piano culturale, l’altro su quello economico-commerciale, di ‘attivazione comunitaria’ intorno al Bitto che viene visto dai responsabili della comunità locale come opportunità unica e preziosa di ‘economia identitaria’. 

Il formaggio Bitto 'storico' si conferma patrimonio collettivo secolare e dinamico di una comunità che può dimostrare di aver operato per mantenere vivo questo patrimonio e di essere consapevole del suo valore e della necessità di difenderlo. La tutela di questo patrimonio rimanda a diritti fondamentali del tutto analoghi a quelli che vengono rivendicati dai ‘popoli indigeni’ o altre comunità e che non possono essere usurpati da una regolazione burocratica quale quella della Dop la cui ratio, come abbiamo visto, dovrebbe consistere nella protezione dei prodotti tipici dalla concorrenza sleale di imitazioni realizzate al di fuori del tradizionale areale di produzione con metodi semplificati e a costi ridotti e non certo l’esproprio di diritti collettivi legati alla storia, alle tradizioni, alle pratiche culturali che si esprimono in una produzione ‘tipica’.

 

 

Il Bitto ‘storico’ tutelato dall’Unesco?

 

Il formaggio Bitto storico è indissolubilmente legato ad un sistema in cui la gestione pascoliva, l’organizzazione dello spazio pastorale, la tipologia delle costruzioni rurali,  gli attrezzi tradizionali, i saperi tramandati entro la comunità di pratica, costituiscono un tutto unico indissolubilmente legato ai luoghi dove nei secoli tale sistema si è evoluto ed affinato. Tutto ciò rappresenta un patrimonio unico di grande valore e talmente emblematico  da divenire oggetto di una ricerca condotta nell’ambito del Forum Unesco University da un gruppo di ricerca del Dipsa-Università di Milano (Dipartimento per la protezione dei sistemi agroalimentari e urbano e la valorizzazione della biodiversità) che coordina un nutrito numero di università partner sparse per il mondo che lavora con l’UNESCO (Heritage Centre, Parigi) per intervenire e vigilare sul patrimonio culturale mondiale. La ricerca nel biennio 2009-2010 ha per oggetto il Bitto ‘storico’ (e non altro, per parafrasare quanto ebbe a dire a suo tempo Veronelli) con lo scopo di applicare ad una realtà alpina i criteri per l’  ‘Individuazione, il riconoscimento e la gestione del patrimonio d’identità culturale generato all’agricoltura (rural heritage) in ogni luogo (vernacular), nell’evoluzione del territorio e della produzione’. L’attività di ricerca è coordinata con le attività previste da Piano triennale dell’Ecomuseo della Valgerola (di Gerola alta) riconosciuto, come già ricordato, dalla Regione Lombardia nel 2008 e di cui il Centro del Bitto, gestito dall’’Associazione Produttori Valli del Bitto’/ Presidio Slow Food ‘Bitto Valli del Bitto’ è parte integrante. Va sottolineato che il progetto ‘Rural vernacular heritage’ dell’Unesco ha la finalità di individuare ulteriori categorie di beni culturali da tutelare in aggiunta ai siti di interesse culturale o naturalistico (categoria quest’ultima alla quale di recente sono state inserite le Dolomiti). Per la Lombardia dovrebbe essere motivo di orgoglio una realtà come quella del Bitto 'storico' che si candida quale caso pilota di una nuova categoria di beni culturali Unesco. Senza nulla togliere alle Dolomiti ad una montagna ‘monumento naturale’ la Lombardia, nell’ambito alpino, potrebbe affiancare un esempio mondiale di ‘montagna dell’uomo’.

 

 

Una Dop può riscrivere la storia e le tradizioni locali?

 

Nei materiali editi dal Consorzio i riferimenti alla storia e all’area di produzione del Bitto sono sempre stati i più vaghi possibile tradendo un evidente imbarazzo derivante da una ‘questione’ irrisolta. Gina Ponciani nel suo studio linguistico sul ‘caso Bitto’ [2]osserva come nel sito del Consorzio i testi riguardanti il formaggio Bitto siano molto concisi; il background ‘storico’ rimanda alla presunta derivazione dall’etimo ‘Bitto’ da ricondurre al celtico ‘Bitu’ con significato di ‘perenne’. Il contenuto del sito è ancora tale: i riferimenti sono all’alpeggio, ai profumi, alla natura; l’unico riferimento storico-culturale al di là di quello alla ‘antica tecnica di lavorazione’ è sempre e solo quello ai Celti mentre la provenienza del prodotto è definita asetticamente ‘dagli alpeggi della Provincia di Sondrio e dei comuni limitrofi dell'Alta Valle Brembana’. E’ evidente che il Consorzio desidera mantenere quanto più possibile nel vago e in lontananza l’origine storico-geografica ('Ai Celti si fanno risalire l'antica tecnica di lavorazione e il nome Bitto «Bitu» che significa perenne'). Un Bitto destoricizzato e delocalizzato quindi; per togliersi l’imbarazzo di un approfondimento che solleverebbe troppe questioni. E’ l’unico caso di un formaggio che potendo disporre di una numerosa documentazione scritta che ne traccia la storia e ne attesta l’utilizzo del nome quale denominazione di origine da 5 secoli, preferisc - come tanti altri prodotti che tale storia non possono vantare - rimandare l'origine storica alla vaghezza di un passato ‘immemorabile’. Ergo c’è qualcosa di storto.

La Ponciani confronta due brochure edite nel 2002 nell’ambito del progetto ‘Valtellinaestero’  finalizzato a promuovere all’estero la Bresaola i vini Doc e il Bitto. E’ significativo che delle due brochure realizzate nell’ambito dell’iniziativa una, senza il logo del Consorzio, ma comunque ‘ufficiale’ intitolata ‘A taste of Valtellina  rimarca il legame tra le Valli del Bitto e il Bitto stesso. L’altra, recante il logo del Consorzio, non si riferimento alle Valli del Bitto ma solo … ai Celti.  La storia del ‘Bitu’ è funzionale a far dimenticare quel ‘maledetto’ fiume (dal punto di vista del Consorzio, ovviamente) e ancor più quella stramaledetta valle con lo stesso nome.

E’ evidente che sono contraddizioni difficili da gestire quelle che il Consorzio e il Ministero e tutti i ‘protettori’ della Dop si sono trovate ad affrontare. La Dop è per definizione una denominazione di origine che fa riferimento alla geografia. Normalmente la Dop si identifica con  il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all'ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell'area geografica delimitata. C’è il Parmigiano-Reggiano, il Ragusano, l’Asiago, il Bra. Se il nome fa riferimento ad una caratteristica del prodotto o a qualche elemento legato alla tecnica di produzione (attrezzi, siti di maturazione) si aggiunge la provenienza in forma aggettivale o meno: Grana ‘Padano’, Prosciutto di Parma. La Fontina non è definita ‘della Val d’Aosta’ perché riconosciuta e protetta molto prima delle Dop. Ma il Bitto cos’è? Da una parte è il vecchio ‘formaggio della Valle del Bitto o ‘del Bitto’ con riferimento al fiume) che nell’uso è diventato semplicemente ‘Bitto’ ma, fino alla istituzione della Dop, conservando in tutti coloro che vi si riferivano un chiaro riferimento ad una precisa origine geografica, dall’altra è ‘un nome celtico’. La difficoltà di giustificare il legame tra prodotto e origine geografica non potrebbe essere più evidente.

In ogni caso, al di là del Consorzio e della promozione più ‘istituzionale’, nella letteratura specializzata e nei media il legame tra il Bitto e la sua area storica di produzione nelle Valli del Bitto e il riferimento alla peculiarità derivante dalla presenza del latte di capra non sono venute meno. La forzatura operata con la Dop non è ‘passata’ se non in parte con il rischio che la discrasia tra una ‘vulgata ufficiale’ e la narrazione delle fonti accessibili al pubblico di professionisti e appassionati di prodotti tipici determini una grave perdita di credibilità non solo per il Bitto, ma per tutto il sistema delle produzioni tipiche valtellinesi e lombarde (e forse anche per il sistema delle Dop). Un esempio emblematico è rappresentato dall’Accademia della Cucina Italiana che si fregia dello status paraufficiale di ‘Istituzione Culturale della repubblica Italiana’. Essa, ancora nel 2001, continua a citare il Bitto come prodotto ‘in particolare nella Valle del Bitto’ e a ricordare che, tradizionalmente, si aggiungeva il latte di una capra a quello di una mucca:

 

Formaggi della valtellina e Valchiavenna.  Dal luglio 1996 la Denominazione di Origine Protetta è registrata in sede comunitaria con il Regolamento n. 1263/96. Area di produzione: provincia di Sondrio (in particolare la Valle del Bitto con Gerola Alta) nonché alcuni comuni confinanti dell’alta Val Brembana in provincia di Bergamo. Formaggio a pasta cotta ottenuto dal latte intero di mucca e di capra (tradizionalmente dalla mungitura di una mucca e di una capra, secondo il disciplinare con non più del 10% di latte caprino) (Accademia Italiana della Cucina  – Guida ai ristoranti 2001,  p. 93).

 

 

Il Bitto Dop ha già perso la guerra dei media

 

Di seguito riferiamo alcuni commenti sul tema dei ‘Bitti’ da parte di giornalisti enogastronomici di fama nazionale. Non ci vuole un’analisi linguistica sofisticata per mettere in risalto la netta contrapposizione che questi esperti percepiscono e stabiliscono tra il Bitto Dop e quello delle Valli del Bitto variamente definito ‘originale’, ‘migliore’, ‘tradizionale’, ‘autentico’, ‘storico’. Se l’efficacia di una Dop deve essere valutata anche sul piano della comunicazione per il Consorzio e il castello burocratico eretto a difesa del Bitto Dop la debacle non potrebbe essere più clamorosa.

Chi è chiamato a valutare la vicenda non può esimersi dal considerare come i provvedimenti sanzionatori a carico del Bitto delle Valli del Bitto non possono certo ristabilire quella fiducia nella DO che è stata pesantemente compromessa dalle modalità con le quali sono stato a suo tempo definiti il disciplinare e l’area di produzione e dalle successive modifiche tendenti ad allontanare ancor più il Bitto Dop dalla tradizione produttiva.

 

Edoardo Raspelli: ‘Mi piacerebbe che si tornasse al Bitto originale, quello prodotto con più fatica, ma dal sapore inconfondibile’.  (Melaverde TV su Rete 4, riferito da la Provincia di Sondrio, 12.09.2004).

 

Luigi Veronelli: ‘Il Bitto, formaggio delle omonime valli, è prodotto da giugno a settembre, nei calècc, subito dopo la mungitura delle vacche di razza bruna alpina e delle rare ma indispensabili capre orobiche o della Val Gerola, con gli attrezzi d' antan: caldera in rame, spino e lira in legno. Questo e non altri il Bitto «delle Valli del Bitto»’(Corsera 14.10.2004).

 

Paolo Marchi: […]il Bitto, un capolavoro assoluto. È prodotto in numero ridicolo, alcune migliaia di forma all’anno, da latte di vacca e latte di capra orobica (è d’obbligo ma non può superare il 20%), formaggio a latte crudo, frutto del pascolo turnato (le bestie non brucano nello stesso fazzoletto) e del rifiuto di enzimi e mangini esterni. Solo la natura, in feroce polemica e sacrosanta contrapposizione con il disciplinare della Dop, voluto e difeso da un consorzio che certifica un prodotto tra il mediocre e il dignitoso a patto di gustarlo poco stagionato.  (Il Giornale 24.07. 2009).

 

Francesco Arrigoni. ‘In passato il Bitto si produceva solo nelle valli del fiume e in alcuni alpeggi vicini. Nel 1996 c' è stato un colpo di mano ed è nata la Dop Bitto (Denominazione di origine protetta dell' Unione europea) che ha autorizzato la produzione in tutta la provincia di Sondrio e in alcuni alpeggi della bergamasca. Gli amatori sappiano però che il Bitto migliore è quello marchiato «Valli del Bitto»’ (Corsera  5.10.2003).

 

Licia Granello ‘i produttori del bitto tradizionale e quelli del Castelmagno d’alpeggio ancora combattono battaglie solitarie contro le nefandezze dell’agroindustria, poco o niente supportati dalle istituzioni (con la solita eccezione di Slow Food). Risultato: insieme a mucche e capre a bassa resa quantitativa – ma altissima qualitativa! – di latte, rischiamo di far scomparire gli straordinari formaggi prodotti a un passo da Francia, Svizzera, Austria, Slovenia’. (La Repubblica 13.09.2009)-

 

Francesco Arrigoni: ‘Patto per il Bitto autentico, firmano sedici produttori. [titolo]E' stato un evento storico. Una specie di giuramento di Pontida del formaggio quello fatto ieri ad Albaredo per San Marco, uno dei paesi sopra Morbegno (Sondrio) attraversati dal fiume Bitto. Un patto sottoscritto dai casari delle Valli del Bitto, cioè da quei sedici alpeggiatori che caricano le malghe della zona storica del Bitto, il più famoso e longevo formaggio delle Alpi. L' Associazione Valli del Bitto è nata in risposta al disciplinare del Bitto a Denominazione di Origine Protetta del 1996, che di fatto ha consentito la produzione del Bitto in tutto il resto della Valtellina’. (Corsera 22 .11.2003).

 

Paolo Marchi:’ Il problema è che se tutte le novità dovessero divenire esecutive, i produttori di Bitto Storico, l’unico per il quale sono giustificate pazzie, poche centinaia di forme che nascono negli alpeggi in quota delle Valli del Bitto, spaccature laterali rispetto alla Valtellina, rischiano di non potere più chiamare Bitto il vero Bitto. Sarebbe come se esistesse solo il Balsamico e quello Tradizionale dovesse cercarsi un altro nome per non dare fastidio al caramello della grande industria. Vi immaginate potere chiamare auto la Duna e non la Ferrari? No? Invece sarebbe così’. (Newsletter 252 del 19.02.2009 Identità Golose).

 

 

Epilogo (per ora)

 

Come può sperare di evitare ulteriori contraccolpi di immagine un Bitto Dop e un sistema di ‘protezione’ che reagiscono da ‘poliziotti del gusto’ a un manipolo di produttori che si battono in nome dell’autenticità e delle qualità. Dalla sua il Bitto Dop non ha neppure le ‘fredde ragioni dell’economia’: i produttori del Bitto Dop produrranno molte più forme ma le vendono alla metà del prezzo del Bitto ‘storico’.  I giornalisti, che hanno espresso giudizi favorevoli sul Bitto ‘storico’ e poco lusinghieri su quello ‘Dop’,  sulla base di tutto questo avranno una ragione in più per confermarli e per farlo sapere in giro. E ad essi si aggiungeranno altri giornalisti, scrittori, chef, personaggi pubblici.

La vicenda poi non resterà certo confinata in Valtellina e in Lombardia. E’ anzi probabile che, grazie a Slow Food, abbia una risonanza internazionale. Questa storia della ‘polizia del gusto’, che va a punire non già i tanti taroccatori in circolazione ma i ‘puri e duri’ i ‘ribelli del gusto’ rischia di gettare cattiva luce su tutto il sistema delle produzioni alimentari di eccellenza del Made in Italy. Una bella grana che poteva essere risolta prima se non vi fosse stata molta presunzione e molta arroganza da parte di chi ha sottovalutato le ragioni di quattro ‘trogloditi che si oppongono al progresso’.


[1] F. Gusmeroli, «Tipicità e tecnologia dei prodotti caseari» in: La Valtellinae i suoi formaggi a cura di F. Gusmeroli e R. Sozzoni, Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1984, p. 58.

[2]G. Ponciani, Can a geographical indication help rewrite local history and traditions? The case of Bitto cheese. In: Linguistica e proprietà intellettuale, M.C Jullion (a cura di), F.Angeli, Milano, 2007, pp. 87-100.

 

 

 

 

 

 

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