(11.10.10) A
Casnigo (BG) all'incontro organizzato dalla
Comunità Montana il 7 ottobre è emersa tutta l'esasperazione
dei contadini di montagna per la presenza dei cinghiali.
Un problema che la politica ha sottovalutato e che ora
è diventato di difficile soluzione
L'assedio
dei cinghiali in Lombardia (e non solo)
di
Michele Corti
Il problema cinghiali
è sfuggito di mano alla politica che lo ha sottovalutato
e derubricato a fatto marginale da lasciare ai
tecnici della gestione faunistica quando invece è
un problema sociale che implica scelte e soluzione di
conflitti tra gli interessi in gioco
E' necessario che la politica assuma consapevolezza
che da quando (vent'anni fa) è stata approvata
la legge sulla 'protezione della fauna selvatica' il
panorama faunistico è radicalmente mutato. E' necessario
rivedere l'impianto di norme che prevedevano
il 'controllo' di 'fauna selvatica
e rinselvatichita' come un fatto eccezionale e che lo condizionavano
a una serie di 'garanzie' per il selvatico (per la
buona pace di un'astratta coscienza ambiental-animalista
lontana anni luce dai problemi del
mondo rurale).
E'
anche necessario rivedere tutte quelle limitazioni all'esercizio
dell'attività venatoria (periodi e giornate di
caccia, rigida 'specializzazione') che rispondevano
all'ansia di dimostrare che il mondo venatorio, con
la legge 157 del '92, si sottoponeva ad una rigida regolamentazione.
Il tutto per spuntare le armi di un ambientalismo ideologico,
largamente condito di animalismo, che - caso unico forse
nel mondo - arrivava anche con le sue componenti maggioritarie
a chiedere l'abrogazione della caccia.
Sintomatico
del clima di vent'anni fa è il titolo stesso
della
legge 157: "Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio"
dove l'esigenza della 'protezione' della fauna è
anteposta a quella della disciplina dell'esercizio della
caccia (nella legge lombarda l'ispirazione 'ecologica'
è ancor più sottolineata e la caccia ancor
più messa in ombra: "Norme
per la protezione della fauna selvatica e per la tutela
dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività
venatoria").
Lo
scenario è radicalmente cambiato
Il cambiamento in atto
nell'ultimo mezzo secolo è di quelli epocali:
simile ai grandi passaggi che hanno segnato la trasformazione
del territorio nel passaggio dall'età antica
all'alto medioevo e in quello successivo tra il tardo
medioevo e l'era moderna. Ma non c'è nessun sordo
peggiore di quello che non vuol sentire e i verdi, per
chiari motivi di interesse, non hanno alcuna intenzione
di riconoscere i nuovi scenari rinunciando alle rendite
di posizione garantite dalla demonizzazione della caccia
e dall'evocazione di una fauna sull'orlo della sparizione
per colpa di un prelievo dissennato.
Il numero dei cacciatori
è crollato. Nel 1990 i cacciatori in Italia erano
1,5 milioni, oggi sono 700mila. Più che dimezzati.
Alcune amministrazioni provinciali iniziano a preoccuparsi
per l'eccessiva rarefazione della categoria che rischia
di divenire una specie
in via di estinzione. Una estinzione di cui solo gli
iresponsabili possono rallegrarsi. Già
oggi, infatti, i costi del controllo della fauna selvatica
o inselvatichita risulterebbero esorbitanti se non vi fossero
gli 'ausiliari': cacciatori che collaborano con le amministrazioni
provinciali per abbattere capi di specie quali la nutria,
il piccione, lo stesso cinghiale responsabili di danni
gravissimi (basti pensare a quelli provocati dai piccioni
in termini di deterioramento del patrimonio monumentale,
diffusione di malattie, danno alle semine, a quelli
provocati dalle nutrie agli argini dei canali, dai cinghiali
ai campi di mais, alle vigne, ai pascoli, ai prati).
Il territorio silvo-pastorale
e l'incolto si sono estesi e , con la rarefazione delle
attività e delle presenze antropiche, le specie
di selvaggina stanziale - a partire da quelle di
ungulati - hanno conosciuto un forte aumento numerico e
un grande ampliamento dei loro areali. Di conseguenza
sono aumentati i danni agricoli e forestali. Non solo:
da qualche anno si registra un vero e proprio assedio
da parte della fauna ungulata che spinge la sua
presenza sino all'interno degli abitati. Nelle
aree montane e collinari ai danni all'agricoltura e
alle foreste si sommano quelli subiti dagli automobilisti
e dai residenti a carico di recinzioni, orti, giardini,
piccole coltivazioni per autoproduzione. Si segnalano
sempre più frequentemente anche casi di aggressioni
e ferimenti (questa estate due diversi casi di ferimenti
in bosco da parte di cinghiali in provincia di Sondrio e di Bergamo).
Un 'patto
scellerato'
Nell'opporsi
ad una nuova legge sulla caccia i verdi minacciando ancora referendum abrogativi.
Essi mirano solo a quel tipo di consenso
suscitato dalle reazioni emotive di un pubblico cittadino
senza conoscenza reale dei problemi, un
consenso che poi provvedono a capitalizzare
in termini di influenza, potere e vantaggi economici.
Per loro, non per 'l'ambiente'.
Una
demagogia che riesce a condizionare la politica. Essa
- in cambio della rinuncia ad azioni di disturbo
incisive su materie di ben altro impatto ecologico rispetto
alla caccia - ha 'appaltato' ai verdi, agli
esperti e operatori di ispirazione ambientalista importanti
'feudi' e 'chiavi' per il controllo della gestione
del territorio: un estesissimo sistema di aree protette (25%
del territorio lombardo) che dispone
di grandi risorse economiche ed è in grado di
procurare posti fissi, consulenze, incarichi ad uno stuolo
di professionisti, esperti, ricercatori, comunicatori di area ambientalista.
Una massa d'urto notevole in termini di influenza ideologica
e politica.
Vi è poi il sistema dei "Centri di educazione
ambientale" la cui azione, finalizzata alla diffusione
di visioni 'conservazioniste', si affianca a quella
dei media. Un tassello importante
della strategia dell'ecopotere è poi rappresentata
dall'ex INFS (Istituto
nazionale fauna selvatica) ora inglobato nell'ISPRA
(Istituto superiore per la protezione e la ricerca sull'ambiente).
L'affermazione di una visione centralista giacobina
e tecnocratica ha consentito di vincolare ai pareri
dell'INFS ogni aspetto minuto della gestione faunistica
legando le mani alle regioni e alle provincie che vedono
le loro competenze condizionate da un organo apparentemente
'tecnico' e 'neutrale' - di certo autoreferenziale -
espressione di visioni come minimo 'settorialiste'
quando non apertamente ambientaliste. Un fatto che pesa
come un macigno quando si tratta di affrontare questioni
di impatto sociale rilevante come la gestione de cinghiale.
Le
colpe dei cacciatori
Se
i cacciatori sono spesso sulla difensiva (vedi la questione
del divieto di caccia nelle aree protette, vedi
la questione della caccia in deroga) una parte della
responsabilità è dovuta anche alla presenza
di una cultura venatoria arretrata e priva di
visione strategica, al particolarismo che oppone tra
loro i cacciatori dediti alle varie forme di caccia
(acuito dalla 'specializzazione' spinta imposta dall'
esigenze di 'compromesso' con le istanze ambientaliste
di cui sopra). Ma la colpa principale dei cacciatori
è stata quella di non contribuire alla creazione
di quel fronte rurale che, in altri paesi, ha efficacemente
contrastato l'ecologismo di matrice urbana. La vicenda
della diffusione e della gestione venatoria del cinghiale
in Lombardia (e non solo in Lombardia) è, da
questo punto di vista, embematica. Tanto più
che in tema di cinghiale i cacciatori
hanno pericolosamente fatto propria la teoria ambientalsta
del 'non esistono più animali nocivi'. E' una
favola come quella del lupo 'buono' che mangia i bambini
solo nelle fiabe, dell'orso 'vegetariano' ecc.
"...
ci dissociamo del tutto dal concetto di animali nocivi
(volpe, lupo ecc.) perché ogni animale ha il
suo posto e il ruolo che gli compete; perciò
ogni animale deve avere una stagone appropriata di caccia
ed una di rispetto, cioè ogni animale deve essere
opportunamente gestito" (F.Ponti, Caccia a palla
alla grossa selvaggina europea. II. La selvaggina,
Editoriale Olimpia, Firenze, 1991).
Ma
questa litania può valere per tutte le specie
e per tutti gli agroecosistemi? C'è da dubitarne.
Allora vediamo qual'è
la realtà del cinghiale e come esso è
"riapparso" in regioni dove era estinto da
secoli.
Il
ritorno di un antico flagello
In
Lombardia il cinghiale si è estinto nel '700. In
coincidenza con una fase di "rivoluzone agricola"
che, a quei tempi, poneva la Lombardia all'avanguardia
nel mondo.
Il ritorno ha una data precisa e non è per nulla
'naturale'. E' nel novembre 1975 che, con la fuga di
sette capi da un allevamento di Besate (MI), si è
sviluppata la popolazione del Parco del Ticino. Cacciatori
e conservazionisti hanno entrambi favorito la crescita
e la diffusione della popolazione che si è presto
estesa al di fuori del Parco raggiungendo in pochi anni
la zona montana della Provincia di Varese. In altre
zone della regione, sia attraverso fughe o deliberate
immissioni di cinghiali d'allevamento o di scrofe domestiche
o 'porcastre'
si sono creati altri nuclei, tanto che la caccia al cinghiale
era già una realtà prima della entrata
in vigore della legge regionale vigente ( del 1993).
Da allora la proliferazione della specie è risultata
inarrestabile, favorita dal sempre più grave abbandono
della montagna e dalla moltiplicazione delle squadre
di cacciatori 'appassionati' che, almeno in anni passati,
hanno fatto di tutto per incrementare lo stock del suide
(mantenendo
ridotto il prelievo, risparmiando le femmine, immettendo
illegalmente capi selvatici, domestici o ibridi, di
'rinforzo. Il cinghiale, inutile nasconderlo, procura una
grande soddisfazione ai cacciatori legata al carattere
di 'grande selvaggina' della specie, alla difficoltà
insita nell'organizzazione delle battute o della caccia
da appostamento, alla difficoltà stessa del tiro
(in battuta), al grande impegno nell'addestramento e
nell'impiego dei
cani. L'organizzazione delle battute con grandi squadre
organizzate gerarchicamente, e con una rigida divisione
dei compiti, assomiglia molto a un 'gioco alla guerra'
(un elemento che solletica i cacciatori che
amano la dimensione 'corale' e 'movimentata' della caccia
a diventare cinghialisti).
Si
è scherzato col fuoco
Negli
anni passati i prelievi sono stati bassi, troppo bassi,
e la specie si è diffusa sino a diventare difficilmente
controllabile (e ancor più difficilmente eradicabile).
Oltre alle colpe dei cacciatori vi sono anche quelle
di una legislazione finalizzata più a proteggere
il selvatico che a controllare il 'nocivo' (rimosso
anche come categoria semantica in nome del buonismo animal-ambientalista).
Ora le cose stanno cambiando (dopo il montare delle
proteste degli agricoltori e del mondo rurale) ma, fino
a qualche anno fa, la gestione della caccia al cinghiale
seguiva norme
che hanno validità per specie da tutelare o comunque
da gestire.
Ma il cinghiale attuale è
un 'normale' selvatico coevoluto con l'ambiente? Anche
a prescindere dall'impatto con le attività agricole
non si può dimenticare che il cinghiale
attuale è ben diverso da quello autoctono ormai
scomparso. Frutto dell'importazione di capi dall'Est
Europa e dell'incrocio con la varietà domestica
di suino il cinghiale attuale è un animale molto
più prolifico, molto più grande e molto
più aggressivo della specie che esisteva allo
stato selvatico. Basti pensare che il cinghiale di oggi
è più prolifico delle razze autoctone
di suini domestici di ceppo europeo (Cinta senese, Mora
Romagnola, Casertana ecc.) dal momento che la sua prolificità
è il risultato dell'incrocio con i suini
domestici attualmente più diffusi (le razze 'bianche'
internazionali) derivati dall'incrocio - praticato in
Inghilterra dalla fine del '700 - tra suino domestico
europeo e suino domestico cinese). E' bene ricordare
che il suino domestico e il cinghiale sono due entità
zoologiche che, almeno sino a tempi molto recenti,
erano unanimemente considerate afferenti alla stessa
specie (Sus scrofa). Anche se oggi si tende da
parte di alcuni a considerare il Sus domesticus una
specie a sè ciò non toglie che vi sia
completa interfertilità tra le forme domestiche
e selvatiche
rattare
il cinghiale come un selvatico 'normale' ha comportato
applicare norme di caccia inadeguate a partire
da una stagione venatoria aperta da giugno ad agosto che
non consentiva neppure di abbattere i non molti capi
disponibili. Non si considerava 'sportivo' cacciare
in autunno-inverno, con i boschi decidui spogli e la
neve. Il risultato dello spostamento della stagione
e, in alcuni casi, anche del suo prolungamento si è
tradotto in un forte aumento dei capi abbattuti in tutta
la Lombardia: dai 1.110 del 1999 ai 3.300 del 2009. Oggi
la maggior parte delle province, in testa Como con 1.500
abbattimenti nel 2009., vedono il prelievo effettivo
avvicinarsi al numero di capi previsto. Ma fino a pochissimio
anni fa le cose non stavano così e gli abbattimenti non
arrivavano alla metà del prelievo programmato.
Solo ora, con la diffusione
in zona Alpi, considerata da tutti catastrofica
ma facilmente prevedibile e forse prevenibile, si
cominciano a capire i gravi errori commessi.
Solo due anni fa l'INFS
'tagliava' il numero di capi stabilito dalle provincie
sulla base, peraltro, di censimenti di difficile attuazione
che tendono a sottostimare la presenza del suide. Per
tutti gli altri aspetti: stagione e durata di caccia,
pluralità di forma di caccia, giornate di caccia, controllo extra-venatorio,
le provincie hanno dovuto negoziare con il gendarme
della fauna (l'lNFS). Peccato che con ci sia un Istituto
Superiore per la Protezione dell'Agricoltura che possa
dire la sua! E che le organizzazioni professionali agricolesi ricordino di certi problemi solo ogni tanto, dimenticando
che l'azione di lobbying efficace si fa 365 giorni
all'anno (come insegnano i verdi!).
Serve
un drastico ridimensionamento
E' bene chiarire che l'auspicabile allargamento
della caccia al cinghiale deve essere visto solo come
strumentale al ridimensionamento drastico della specie
e al suo futuro mantenimento su livelli molto più
bassi rispetto a quelli odierni. Non deve implicare l'aumento
delle squadre e degli 'appassionati' che, ovviamente,
non vorranno poi privarsi delle loro prede.
Il controllo
dei cinghiali si può ottenere concedendo più
opportunità (giornate, stagione, forme di caccia)
ai cinghialisti ma, soprattutto, utilizzando altri cacciatori
'non specializzati' e gli agricoltori muniti di licenza
di caccia. In casi particolari può essere necessario
anche l'impiego della Polizia provinciale e del Corpo
Forestale dello Stato. Tale impiego, però,
comporta costi notevoli e distoglie questo personale
da altri compiti istituzionali.
Ovviamente il controllo delle popolazioni
di cinghiale deve essere effettuato con pari efficacia
anche nella
zone dove la caccia è vietata. Pena vanificare
le azioni intraprese. Sono state proprio
le 'aree protette' a fungere da 'aree di irradiazione'
nella prima fase storica di ricolonizzazoine del territorio
da parte del cinghiale. Ancora oggi le maggiori
difficoltà ad esercitare il controllo del cinghiale
nelle 'aree
protette'
ne limita l'efficacia. Ancora nel 2009, a fronte
di 3.299 capi prelevati attraverso l'attività
venatoria, erano solo 255 quelli abbattuti con mezzi
di controllo extravenatori (ex art. 41 della legge regionale
sulla caccia) nelle 4 provincie (BG, CO, VA e SO) dove
questo viene attuato. Troppo poco!
L'impiego sistematico
di
cacciatori dediti ad altre forme di caccia e l'applicazione
di un controllo efficace anche nelle aree protette
sono elementi imprescindibili per la soluzione del 'problema
cinghiale' (insieme all'uso di mezzi
quali trappole e ad una 'lotta' estesa a tutto l'anno
e a tutte le classi di età).
La legge in vigore
con molte limitazioni prevede comunque già (art. 41 della
L.R. 26 del '93) che:
"Le Province, per la migliore gestione del patrimonio
zootecnico, per la tutela del suolo, per motivi sanitari,
per la selezione biologica, per la tutela del patrimonio
storico-artistico, per la tutela delle produzioni zoo-agro-forestali
ed ittiche, provvedono al controllo delle specie di
fauna selvatica
o inselvatichita anche nelle zone vietate alla caccia".
Prevede
anche l'impiego di 'operatori autorizzati' ovvero 'selettori'.
Ma questi devono frequentare appositi corsi (che le
provincie si devono preoccupare di organizzare) e sono
ancora troppo pochi. La lettura del comma 3. del suddetto
art. 41 da poi l'idea delle tante limitazioni
e clausole cui il controllo deve sottostare. Non
commentiamo poi, almeno nel caso del cinghiale, la pantomima
dei 'metodi ecologici' e dell'onnipresente parere vincolante
dell'INFS.
"
Il controllo, esercitato selettivamente, viene praticato,
di norma, mediante l’utilizzo di metodi ecologici,
su parere dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica;
qualora l’Istituto verifichi l’inefficacia dei predetti
metodi, le Province predispongono piani di abbattimento.
Tali piani devono essere attuati dalle guardie venatorie
dipendenti dalle Province stesse che potranno altresì
avvalersi dei proprietari o conduttori dei fondi sui
quali si attuano i piani medesimi, purché muniti
di licenza per l’esercizio venatorio, nonché
delle guardie forestali, degli agenti venatori volontari
provinciali e delle guardie comunali munite di licenza
per l’esercizio venatorio e delle guardie
dipendenti dalle aziende faunistico-venatorie nonché
degli operatori espressamente autorizzati
dalle province, selezionati attraverso specifici corsi
di preparazione alla gestione faunistica".
Responsabilizzare
i cacciatori
Il
problema cinghiali deve essere assunto dal mondo venatorio
nel suo insieme perché acuisce i conflitti con
gli agricoltori e i residenti nelle aree rurali. Un
conflitto pericoloso dal punto di vista strategico.
Da parte del mondo agricolo e rurale non si deve d'altra
parte cedere
a posizioni anticaccia generalizzate. I cacciatori servono
e serviranno sempre di più. La presenza di consistenti
popolazioni di specie di fauna selvatica rende indispensabile
il loro ruolo. Solo i verdi possono credere
di fare a meno dei cacciatori reintroducendo ovunque
lupi, orsi, linci (che preferiscono poi predare gli
animali domestici)
Una volta stabilito che la
presenza di alcune
specie in determinate zone comporta danni insostenibili
si deve procedere di comune accordo alla loro riduzione
o eradicazione.
Le presenza 'sostenibili' devono invece
divenire oggetto di una valorizzazione economica che
superi l'ipocrita definizione della caccia quale 'attività
senza scopo di lucro' e consenta la convergenza di interessi
tra parte agricola e venatoria. Come abbiamo già
avuto modo di osservare in altre occasioni alla base
di questa convergenza non può non esserci un
diverso inquadramento giuridico dell'attività venatoria
e il superamento dello status della selvaggina
quale 'proprietà indisponibile dell stato'. La
selvaggina non si alimenta di aria, ma di risorse prodotte
nell'ambito del territorio agro-silvo-pastorale. Superate
le anacronistiche divisioni tra gestione agro-silvo-pastorale
e gestione faunistico-venatoria si deve concepire la
fauna prelevabile quale un prodotto provvedendo, però,
a ricompensare i soggetti che hanno contribuito a formare
questo prodotto. Quando il 'danno' alle attività
agro-silvo-pastorali si limita ad una diminuzione di
produttività e non ha un carattere eccezionale può
essere considerato una forma di produzione (altro è la distruzione di piante agrarie legnose o forestali, la devastazione sistematica
di colture in atto, dei prati e pascoli 'arati' dal
cinghiale).
Queste
scelte richiedono una 'rivoluzione copernicana' nell'esercizio
venatorio e possono essere introdotte solo con una radicale
riforma della caccia.
Già
oggi, però,
è necessario fare qualcosa per rispondere all'emergenza cinghiale, sia pure nell'ambito
della legislazione vigente o di sue modifiche a livello
regionale che non
ne stravolgano l'impianto.
Il
punto cruciale è quello del rimborso dei danni
arrecati dai cinghiali.
Danni
non riconosciuti e danni pagati da pantalone
Il
cinghiale ha causato in Lombardia danni per 1 milione
di € negli ultini 5 anni. La cifra di per sè
dice ben poco rispetto al danno sociale e ambientale
inferti. Va precisato che le modalità di risarcimento
dei danni alle coltivazioni, basati sulla perdita di
produzione, fanno si che la maggior parte dei rimborsi
si concentri in pianura. Nel 2009, su 200mila € di danni
da cinghiale risarciti in Lombardia, più della metà erano concentrati
in provincia di Mantova mentre a Como, dove il flagello
dei cinghiali è presente in massima misura, sono
andati solo 26mila € (presumibilmente concentrati nell'area di
pianura). A Como il cinghiale è responsabile
del 90% dei danni da fauna selvatica, a Bergamo dell'80%.
I danni dei piccoli appezzamenti a prato dal punto di
vista economico incidono pochissimo. Ma le conseguenze
per i contadini sono gravi. C'è una mancata produzione,
ma - ciò che più conta - vi sono danni
per inquinamento del foraggio con il terriccio (con
effetti negativi sulla salute e la produttività
del bestiame) e vi
è poi il lavoro di ripristino della cotica
e di livellamento del terreno da eseguire. Tali interventi
sono tanto più difficili laddove non possono
essere utilizzate le macchine (per ragioni di pendenza
o di accessibilità dei fondi).
Va
anche considerato che il ritorno alla produttività
anteriore al danno è graduale e sono a volte
necessari diversi anni per tornare alle condizioni di prima.
Il danno è tanto più rilevante quanto
più ci si sposta sui pascoli estivi, dove il valore
della produzione è ancora più basso, ma
il danno ambientale è notevole. La continuità
della cotica è interrotta e le piogge battenti,
favorite dalla pendenza - che provoca l'aumento della
velocità dell'acqua di ruscellamento - determinano
fenomeni di erosione allargando le aree con terreno
nudo privo di protezione e creando le premesse per smottamenti
del terreno. Il
danno è acuito dall'altitudine in relazione alla
breve stagione di crescita dell'erba e quindi alle minore
facilità di ripristino spontaneo.
Nella
fascia prealpina vi è un esteso sistema di alpeggi
che è esposto a questo pericolo. Così
come la presenza del cinghiale è stata esclusa
dalle fasce a vigneto dell'area pedemontana risulterebbe
necessario preservare gli alpeggi e intervenire risolutamente
eliminando i branchi che si spingono sino alle quote
dei pascoli estivi.
Negli
ATC (ambiti territoriali di caccia) prealpini la presunta
'vocazionalità' del cinghiale si scontra non
solo con la presenza degli alpeggi ma anche con altre situazioni
che, pur non configurano un sistema di coltivazioni
specializzate ed economicamente rilevante, stanno segnando
tentativi di 'rinascita rurale' di rilevanza prevalentemente
sociale (anziani e giovani che trovano motivi di interesse
comune, che svolgono un ersercizio fisico salutare, che
collaborano tra loro). Fatti che i tecnocrati della
gestione faunistica
non sono certo disposti a considerare.
Qua
è là, anche in relazione con la crisi
economica (che spinge ad una rivalutazione dell'autoproduzione),
si riprende a coltivare la patata, si ripiantano piccoli
vigneti e frutteti, si recuparano con grandi sacrifici i
castagneti da frutto. Piccole attività
di coltivazione a 'macchia di leopardo' che la presenza
dei cinghiali mette a repentaglio. Tra i costi del cinghiale
non vi è solo il danno alle coltivazioni in
atto o la sottrazione dei frutti
ma anche la spesa e le fatiche imposte dagli interventi
minuti di 'protezione' delle coltivazioni stesse (utilizzo
di sostanze repellenti, recinzioni elettriche, reti).
Sono costi che in gran parte (tolti alcuni casi eclatanti)
vengono sostenuti dai privati. Paradossalmente poi i primi a
lamentarsi delle recinzioni poste a difesa dai cinghiali
sono gli stessi cacciatori (dediti alla 'normale' selvaggina
stanziale) che vedono limitata la possibilità
di azione per i loro cani.
Oltre
alla intensificazione delle attività di controllo
ex art. 41 (e in attesa di una riforma della legge nazionale)
la Regione potrebbe intervenire nel modificare quegli
aspetti che la legge nazionale demanda alla legislazione
regionale. La 157 stabilisce che i contributi per i
danni prodotti dalla selvaggina siano erogati dagli
organi di gestione (Ambiti territoriali di caccia).
La legge regionale ha però fissato nella modesta
quota del
10% il contributo degli ATC (il 90% degli indennizzi
è coperto dal bilancio regionale). Una ripartizione
più equa (almeno 50% a carico dei cacciatori)
potrebbe rappresentare un mezzo efficace nell'indurre
le squadre dei cinghialisti ad intervenire con sollecitudine
(ed efficacia) laddove i contadini segnalino la presenza
di branchi di cinghiali e l'insorgenza di danni.
Conclusioni
Il contenimento
della presenza dei cinghiali deve essere attuato attraverso
l'impiego dei cacciatori attualmente dediti a questa
forma di caccia, aumentando le giornate di caccia, estendendo
la stagione ma, soprattutto, intervendendo rapidamente
dove i contadini sollecitano l'abbattimento di cinghiali
autori di danni. on aumentando il numerto di cinghialisti.
Per
ottenere una forte diminuzione delle popolazioni presenti
è però necessario allargare l'impiego
degli operatori autorizzati al controllo extra-venatorio
(contadini con licenza di caccia e cacciatori dediti
ad altre specializzazioni).
Il
controllo extra-venatorio deve diventare più
incisivo nelle aree protette dove, in assenza di interventi
efficaci, si ricrea uno stock di cinghiali pronto poi
a reirradiarsi sul resto del territorio.
In
considerazione della rilevanza sociale del fenomeno
non possono essere le sole provincie ad agire in ordine
sparso. E'
necessario un coordinamento (venuto meno) della Regione
accompagnato anche da modifiche normative di competenza
della medesima. Attualmente la diversità di approccio
tra provincie limitrofe non può che compromettere
l'efficacia di un programma di ridimensionamento di
questa presenza faunistica cresciuta in modo incontrollato.
La
difficoltà di gestione del cinghiale mette in
generale in evidenza l'anacronismo di una legislazione
e di una visione dell'attività venatoria e della
'protezione della fauna' che non tiene conto delle
trasformazioni del territorio e dell'aumento massiccio
di alcuni tipi di fauna. La risoluzione del problema
cinghiale (come di altri problemi di 'convivenza' tra
fauna selvatica ed attività antropiche) presuppone
il superamento dalla concezione della caccia quale attività
'sportiva' a favore di una concezione più adeguata
ai tempi che vede nell'attività venatoria una
funzione sociale importante sia dal punto di vista del controllo
della fauna che da quello di una gestione economica di
un patrimonio cheè parte integrante
delle risorse del territorio agro-silvo-pastorale.
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