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Un formaggino di capra (coagulazione presamico-lattica) a crosta fiorita naturale  ancora sull'asse della cantina naturale dopo 10 giorni di maturazione. La superficie è coperta da un delicato corto velluto di Geotrichium candidum che colonizza spontaneamente la superficie in quanto presente  nell'ambiente. Tutt'altra cosa rispetto allo spesso feltro di Penicillium caesiculum/ candidum/

camemberti che caratterizza i formaggi industriali in cui la 'crosta fiorita' è ottenuta aggiungendo al latte degli innesti selezionati di origine industriale che apportano spore fungine (tutte le foto dell'articolo sono di M.Corti)

L'aspetto della pasta dello stesso  formaggino della fotografia precedente. Si noti la tipica maturazione centripeta (dall'esterno verso il centro del formaggio) con cremificazione del sottocrosta per azione proteolitica degli enzimi delle specie fungine colonizzanti la superficie ma non solo.

L'aspetto del territorio delle valli insubriche: piccoli villaggi e valli a forte pendenza dove la capra ha rappresentato un elemento indispensabile per la sopravvivenza delle comunità insediate.

Interno di una abitazione in Valstrona (VCO). L'ambiente culturale improntato a forte famigliarità con i caprini  ha lasciato un sedimento importante nelle vallate insubriche dove la capra, al di là di una temporanea e forse esteriore 'ripulsa' nella fase di 'deruralizzazione', è ancora oggi oggetto di profondo affetto. In passato le poche capre allevate da ogni famiglia erano parte della famiglia stessa, specie la cavra de cà cui era concesso di entrare in casa, venivano riservati gi avanzi della tavola e, in cambio, porgeva docilmente la tetta per l'allatamento dei bambini. Il 'progresso' (ma quale?) ha trasformato a volte anche le capre in 'macchinette da latte' al pari delle povere vacche superlattifere che vivono in tristi condizioni di stress e malessere per tutta la loro breve esistenza. Fortunatamente gran parte dell'allevamento caprino è ancora improntato a moduli 'artigianali' e 'umani'.

 

(30.10.09)  

Le Alpi centro-occidentali sono ricche di espressioni della tradizionale cultura di trasformazione del latte ovicaprino

 

I pregiudizi culturali e igienisti hanno impedito la conoscenza, il recupero e la valorizzazione di molti 'giacimenti gastronomici' ruralpini (per fortuna qualcuno sopravvive)

 

[...] I formaggini di pecora o di capra si possono consumare freschi, ed anche far stagionare [...] Allora possono essere [...] posti in commercio ad un prezzo alquanto superiore a quello dello stracchino'. Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Atti, Vol. VI, Roma, Forzani, 1883, Il Circondario di Lecco, p. 335.

 

Alcuni pregiudizi, purtroppo diffusi, hanno indotto a ritenere che i formaggi di capra e/o pecora di piccola pezzatura a pasta molle e crosta fiorita appartengano alla 'tradizione francese' (cfr anche la pregevole e fondamentale opera di Giorgio Ottogalli Atlante dei formaggi. Guida a oltre 600 formaggi e latticini provenienti da tutto il mondo Hoepli, Milano, 2001, p. 244-245). Parlando dei formaggi a crosta fiorita in generale (quindi compresi i vaccini) Ottogalli osserva come 'non esiste in Italia un'importante tradizione di formaggi a crosta fiorita. Fra questi si distinguono quelli di origine industriale, che impiegano gli starters e hanno una colorazione superficiale omogenea bianco candida, e quelli di tipo artigianale che si affidano alla microflora «autoctona», selvaggia  e presentano una crosta più eterogenea e con sfumature grigie o bluastre. Ovviamente questa distinzione è provvisoria in quanto l'evoluzione tecnologica tende a far scomparire i  formaggi del secondo tipo a vantaggio del primo'. ivi, p. 239.

 

 

Le croste fiorite artigianali erano più diffuse di quanto si pensi e per nulla scomparse

 

Per fortuna la previsione di Ottogalli sulla scomparsa delle croste fiorite 'naturali' non si è avverata. Va anche detto che i formaggini di capra o di pecora di piccola pezzatura  a breve stagionatura (una decina di giorni o poco più) erano più diffusi di quanto si ritenga (Ottogalli si limita a citare alcuni rari esempi piemontesi, trascurando del tutto la Lombardia, se si eccettua lo Scimudin dell'alta Valtellina su cui torneremo).  

In generale si riteneva che queste tipologie di formaggi caprini rappresentassero solo l'espressione di una 'economia di sussistenza': quattro formaggini confezionati senza troppa cura tanto per sfruttare quel poco latte che avanzava (specie in primavera) una volta svezzati i capretti da macello e soddisfatti i fabbisogni di latte alimentare dei bambini.

Questa convinzione si è diffusa anche tra le comunità locali e se si interrogano superficialmente alcuni informatori si rischia di non 'scavare' una realtà che pur era presente. La memoria orale, si sa, non va oltre un secolo (o poco più) ma spesso è anche più 'corta'.  Come dimostra la fonte citata in testa all'articolo e le altre riportate in uno studio approfondito sul ruolo della capra nell'alimentazione e nell'economia delle comunità delle alpi lombardofone  (M. Corti Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in età moderna e contemporanea,  PDF) le cose erano, in passato, ben diverse.

I formaggini di capra (e di pecora), ci dicono le fonti del XVIII e XIX secolo, erano molto apprezzati ed oggetto di commercio a breve ma anche medio raggio.

In molte aree con la decadenza della civiltà ruralpina si sono  persi preziosi saperi alimentari e la tradizione casearia di valorizzazione del latte caprino si è interrotta, tanto che se ne è persa anche la memoria. La semplificazione delle attività economiche punta alla specializzazione, al 'risparmio di tempo'. La produzione casearia caprina si è quindi prima ridotta alla fase dell'alpeggio (a casa il latte in esubero finiva ai vitelli) per essere molto spesso abbandonata poi del tutto. Sviluppi favoriti dai 'premi carne' e dalle indennità 'a pioggia' che hanno favorito la diffusione di discutibili sistemi superestensivi indirizzati alla carne e ... al contributo pubblico, al numero e alla quantità piuttosto che alla qualità e alla differenziazione delle produzioni.

 

 

La sopravvivenza delle tradizioni

 

Fortunatamente, dove la tradizione era più radicata, la produzione artigianale e la commercializzazione dei formaggini tradizionali si sono protratte abbastanza a lungo (sino agli anni '60-'70) da lasciare ampia memoria e tracce di sè. Il commercio dei formaggini di capra era particolarmente attivo dove vi erano grossi centri di fondovalle o sulle rive dei laghi nelle vicinanze. Da alcuni paesi dei dintorni, per esempio Valmadrera, i formaggini arrivavano a Lecco, dalla Valstrona ad Omegna (VCO), da Curiglia e Monteviasco (Va) a Luino. Dagli alpeggi e dai maggenghi i formaggini erano trasportati e venduti anche sui centri minori rivieraschi del Lago di Como (es. Lenno). Alcune di queste 'correnti commerciali' si sono mantenute sino ad oggi grazie a personaggi che hanno fatto da cerniera tra il passato contadino e il presente.

 

 

Alcuni personaggi

 

Ci piace citare Berto (Alberto) Vassena di Valmadrera che  ha iniziato a conoscere e governare le capre da piccolo, prima delle guerra, quando - come ricorda - si svolgevano in paese delle competizioni di mungitura delle capre per premiare la 'regina del latte'.  La passione per le capre di Berto lo condusse trent'anni fa a introdurre dalla Savoia le capre Camosciate francesi. Vi ci si recò personalmente più volte per conoscere chi gli vendeva le capre e da quale ambiente provenissero. La scelta derivava dal fatto di non riuscire a trovare più buone lattifere del tipo 'bormino' (il tipo era stato introdotte nell'alta Brianza dalla Valle Camonica sin da prima della guerra). La moglie di Berto, Carmelina Butti è una riconosciuta specialista di formaggini lattici stagionati, è orgogliosa e consapecole del suo 'sapere pratico' tanto da dichiarare senza complessi di avere solo la quinta elementare. I furmagitt li confeziona secondo la tradizione locale utilizzando, però, il lattoinnesto (di bustine di fermenti industriali, invece, non vuole neppure sentire parlare). Oggi Berto, a causa di un grave infortunio sul lavoro, può mantenere poche capre ma la produzione per autoconsumo e per gli amici prosegue e ... non ha rivali. Quando aveva una trentina di capre vendeva i formaggini a Lecco, ed erano ricercatissimi. I formaggini di Berto e Carmelina sono coperti da una crosta fiorita omogenea di Geotrichium candidum con leggere grinze  e la 'pelle' che tende  a distaccarsi dalla pasta, ma non sono mai amari e con gusto di grasso ossidato come quando lo sviluppo del Geotrichium è troppo aggressivo. Chissà perché la 'pelle di rospo' da noi è considerata un 'difetto' e in Francia - entro certi limiti -  un 'pregio'!

Croste fiorite di questo tipo non solo certo solo della 'tradizione francese'. Anche dove non era diffusa la tradizione della coagulazione lattica e il formaggino era ottenuto da coagulazione presamica (spesso, però, ben più lunga dei 30' minuti che le classificazioni 'moderne' indicano come 'canonici') la crosta fiorita era una presenza frequente.

Poteva essere una crosta bianca o di colore eterogeneo ma poteva essere anche sostituita da una patina rossastra. Non si lavorava in condizioni controllate di temperatura e umidità e ricambio d'aria e non si disponeva di termomentri (e tanto meno acidimetri e pHmetri). La durata della coagulazione dipendeva spesso dalle numerose incombenze cui dovevano attendere le donne (nella maggior parte dei casi, tranne che in alpeggio, erano loro le 'casare' dato che gli uomini emigravano o erano impegnati nei lavori della campagna e del bosco).

I risultati, però, erano garantiti dall'osservanza di norme consuetudinarie e dal fatto che negli ambienti di lavorazione e conservazione si fosse da tempo insediata una microflora favorevole. Uno dei motivi del 'successo' delle lavorazioni radizionali era legato anche al fatto che non si realizzavano tanti tipi di prodotti (come nei moderni caseifici) e non vi erano rischi di contaminazioni 'incrociate'. Un quadro di questo tipo, che conferma la produzione di formaggini a crosta fiorita a breve stagionatura, può essere tracciato per diverse località tra quelle precedentemente citate. Tra queste la Val Veddassca emerge come un'area dove la tradizione locale del formaggino di capra presamico a crosta fiorita è proseguita sia pure in forme rinnovate. Su questo fronte, che vede protagonisti diversi caprai/casari, sia originari della valle che venuti da fuori, il più impegnato è Albino Gatta di Curiglia (Az. Agr. Alpe delle Colture).

 

 

L'originale e le copie

 

Negli ultimi anni il favore del consumatore per questi prodotti ha condotto ad alcune 'riscoperte' e a molte imitazioni industriali di prodotti di 'tipo francese' o anche di prodotti locali. Molto spesso l'imitazione, però, è di 'puro latte vaccino' (ovvero di Frisona-macchina-da-latte) laddove l'originale era di latte ovicaprino e la crosta fiorita naturale è stata sostituita da uno spesso feltro fungino ottenuto aggiungendo al latte c innesti selezionati di origine industriale con spore di  Penicillium caesiculum/ candidum/ camemberti.

Qualche volta le repliche industriali o semi-artigianali (specie nell'area piemontese) mantengono alcune caratteristiche dei prodotti tradizionali quali la deliziosa 'cremificazione sottocrosta' e un gradevole equilibrio gustativo (ben lontano dalle sensazioni offerte dai prodotti artigianali a latte crudo e flore autoctone); altre volte, invece, l'esito è insoddisfaciente:  un formaggio anonimo che 'sa di Brie' ma di consistenza gommosa e ben scarsa gradevolezza. Le industrie, si sa, contano sulla mancanza di pietre di paragone; una volta che i prodotti autentici diventano introvabili il consumatore si accontenta e, anzi, tende a identificare il prodotto industriale di bassa qualità organolettica come 'buono' (vedasi la penosa accettazione del consumatore di frutta acerba e insapore, della carne non frollata ecc. ecc.). Un caso emblematico è quello dello Scimudin dell'alta Valtellina citato da Ottogalli come uno dei pochi formaggi vaccini a crosta fiorita. Oggi lo Scimudin è prodotto con latte pastorizzato vaccino (inoculato con Penicillium) quasi esclusivamente dai più grandi caseifici (siti in media e bassa Valtellina) e pochi si ricordano che, tradizionalmente, esso era un formaggino (sia pure di pezzatura superiore ai 'tomini') di capra. Di fatto esso non è un raro esempio di formaggio a crosta fiorita vaccino italiano, ma un componente di una famiglia abbastanza numerosa di formaggi caprini (e, specie in passato, ovini) che, dalla Valtellina attraverso il l'Alto Lario Occidentale, il Ticino e il Varesotto, si definisce entro un'area geografica abbastanza continua che interessa le alpi lombardo-piemontesi da Cuneo allo Stelvio. Va precisato che anche a Bormio piccoli produttori continuano a confezionare Scimudin artigianali con il latte di capra crudo e senza inoculi. Lo fanno anche in alpeggio. Ma ormai l'immagine dello Scimudin è un'altra. Un nome 'rubato' che con il prodotto tradizionale ha ben poco a che fare. Legge del marketting.

 

 

E altrove?

 

Nelle alpi orientali ma anche in alcune aree di quelle occidentali una pià accanita 'guerra alle capre' (e, secondariamente, alle pecore) ha molto impoverito le tradizioni locali di caseificazione del latte caprino. Quasi ovunque è rimasta traccia di 'formaggelle' (spesso realizzate in alpeggio) mentre è ambigua l'attestazione dei formaggini (lattici o presamici). Dal Friuli al Piemonte troviamo caprini lattici 'alla francese' talmente 'tradizionali' che vengono ottenuti da latte pastorizzato e aggiunta di fermenti industriali. La cosa spiacevole è che sono stati inseriti negli elenchi regionali dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali. Il caprino 'alla francese' come abbiamo visto era sì presente in alcune aree delimitate ma molto meno diffuso di quello presamico 'dolce'. E' evidente che siano di fronte ad una sorta di 'globalizzazione' regionale favorita dal fatto che la produzione del caprino a coagulazione lenta, alias 'lattico', alias 'alla francese' è giudicata più 'sicura' dal punto di vista igienico-sanitario. Qualche anno fa sembrava già una grande e magnanima concessione l'uso del latte crudo, figuriamoci un formaggio fresco 'dolce', figuriamoci un formaggino a latte prudo a breve stagionatura (la 'soglia' di sicurezza che definisce il formaggio 'stagionato' e quindi non a rischio di persenza patogeni è di 60 giorni). Parlando di un formaggino dolce stagionato a 10-15 giorni si fa venire la 'pelle d'oca' ai veterinari delle Asl. Fortuna che oggi, anche questi professionisti hanno assunto una visione più 'ecologica' del rischio sanitario, che rivaluta i meccanismi di controllo e compensazione presenti nel contesto delle lavorazioni artigianali dove alcuni aspetti di pulizia e igiene possono venir controllati in modo 'naturale' o con un controllo più immediato dei processi.

Passata di moda la smania di standardizzazione e affivolitisi gli eccessi igienistici non vi è più motivo per tenere 'sommerse' certe produzioni artigianali che - oltretutto - come già osservato, grazie a caratteristiche di pezzatura, consistenza, gusto, vanno incontro ai gusti dei consumatori, compresi quelli giovani.

 

Per saperne di più sull'allevamento della capra e le produzioni caprine in area alpina centro-occidentale:

M. Corti Risorse silvo-pastorali, conflitto sociale e sistema alimentare: il ruolo della capra nelle comunità alpine della Lombardia e delle aree limitrofe in età moderna e contemporanea, Pubblicato in: SM Annali di S. Michele, 19, 2006, pp. 235-340 PDF

M. Corti I sistemi di produzioni ovicaprini nelle alpi lombarde. La situazione attuale alla luce della loro evoluzione storica e del loro ruolo socioterritoriale, in: Quaderni Sozooalp, 4, 25-37 PDF

M. Corti, L. A. Brambilla Le razze autoctone caprine dell’arco alpino e i loro sistemi di allevamento, Atti del Convegno: L’allevamento ovicaprino nelle Alpi: Razze, tradizioni e prodotti in sintonia con l’ambiente, Cavalese (Tn) 21 settembre 2002, pp. 61-80 PDF

 

 

 

 

 

 

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