Atti Convegno di Sondrio
17 giugno 2012
La montagna di fronte alla crisi:
dall’assistenzialismo all’autogoverno
L'intervento di Ivan Fassin
Comunità ecologiche e comunità umane: cercare soluzioni per un nuovo modello di società a partire dalle comunità alpine
Premessa
Cosa è questo intervento? Si tratta di una prima riflessione, di un pensiero in costruzione, che non ha la pretesa di essere un lavoro compiuto. Vuol essere un contributo, dal versante del Sindacato, cioè di una grande organizzazione del sociale, per una transizione verso un diverso modello di assetto della società e dello “sviluppo”.
Il Sindacato, come si presenta storicamente, è figlio della fase che Gusmeroli ha chiamato della Società “fossile”, quella dell’età dell’industrialismo e della risorsa-petrolio. Ed ha svolto inizialmente il ruolo di una risposta difensiva ai guasti di quella. Si è sviluppato poi nell’età della crescita economica impetuosa e della competizione, e ora, nella crisi, fa fatica ad orientarsi.
È una grande organizzazione del sociale, una organizzazione. di massa, che ha attraversato fasi diverse:
· dal mutualismo (una prima risposta, che era come una continuazione di forme precedenti di solidarietà, applicata al nuovo corso della società);
· al contrattualismo (una risposta più pertinente, quella che gli ha dato soprattutto identità. Ma tutta dentro le dinamiche sociali ed economiche prevalenti – difesa del salario, un po’ delle condizioni di lavoro, molto poco come intervento sulla organizzazione del lavoro e meno ancora sulla produzione, la sua natura, qualità, utilità sociale ecc.);
· è seguita poi una stagione, tra ’68 circa e ’80 e oltre, di sviluppi forti in senso di protagonismo ‘politico’, del resto con tratti di autonomia e originalità;
· fino all’attuale disorientamento: come muoversi in una società complessa, per di più attaccato da molte parti, sull’occupazione, sulle condizioni di lavoro, sulle retribuzioni, per non parlare delle ‘conquiste sociali’ di quegli anni (dallo Statuto dei Lavoratori / 1970 alla Legge 328/2ooo sul welfare)? Soprattutto si tratta di una formazione sociale semi istituzionale, prevista dalla Costituzione (art. 39): un riconoscimento privilegiato, quasi ovvio in una Repubblica ‘fondata sul lavoro’ (art. 1). Cosa che oggi si cerca di mettere in discussione.
Il
presente problematico ci porta a ragionare (qui) su una idea di
Sindacato anzitutto radicato nel territorio, un Sindacato di
Montagna. Più in generale, è ovvio, ci si riferisce a una visione
che potremmo chiamare di ‘federalismo sindacale’. Si
comincia a parlarne.
Ma per restare sul nostro terreno, appunto si tratta di sviluppare la intuizione di un Sindacato di Montagna.
Piano della comunicazione
Lo schema complessivo della comunicazione (che non si può svolgere nel tempo limitato) si sviluppa sui seguenti punti:
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Si parla di rappresentanza del lavoro: sono concetti altamente problematici, forse non discussi abbastanza: sia lavoro (cosa si intende oggi con questo termine) sia rappresentanza (applicata non a istituzioni politiche, ma appunto a una formazione sociale semi istituzionale, benché questo tipo di formazioni sia ampiamente
riconosciuto nella Costituzione Italiana, anzi ne costituisca una peculiarità (art. 1)
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Andrebbe fatto almeno un cenno al ‘lavoro’ tradizionale sulla montagna, nelle Alpi, ma non solo, in quel contesto socio-produttivo (forse fino agli anni ’50 e oltre). Esso in ogni caso non conosceva ‘rappresentanza’.
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La ‘modernizzazione’ dei sistemi socio-produttivi alpini (qui ampiamente ricordata) ha periferizzato le società locali, introdotto una industrializzazione tardiva e esogena, prodotto ingenti mutamenti, fatto nascere associazioni di difesa del lavoro e poi il Sindacato (che però nasce cittadino...).
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L’attuale crisi (dal 2008) sviluppa un attacco imponente all’economia reale, conseguentemente all’economia locale, al lavoro, al sindacato. Gli effetti della crisi sull’ambiente montano arrivano in ritardo, ma producendo guasti rilevanti perché la capacità di resilienza dei territori periferici è minore, non tanto sul piano ‘economico’ stretto, quanto su quello culturale e sociale.
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La prospettiva del lavoro in montagna va completamente ricostruita nelle nuove condizioni. Ovviamente nel contesto di uno ‘sviluppo’ ben diverso dal passato, anzitutto non esogeno, poi ecologico, ecc. come si è detto anche qui da parte di molti. Perché sulla montagna lo ‘sviluppo’ che abbiamo conosciuto potrebbe solo creare guasti imponenti, se si pretendesse di riprenderlo dove si è fermato, per continuare come prima. Il ‘ritardo’, viceversa,potrebbe perfino essere una opportunità, perché non si è persa del tutto la memoria di alcuni caratteri del lavoro di una volta, assai più adeguate all’ambiente naturale e storico della montagna, e sembra perfino che vi siano possibilità di recuperare qualcosa di queste dimensioni. Va assunta anche l’idea, sostenuta con forza dal sociologo ‘alpino’ (Baetzing), che in montagna i sistemi produttivi devono essere polivalenti e fortemente integrati (per le dimensioni ridotte, per gli effetti sull’ambiente, per leconseguenze sociali ecc.)
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Infine le (nuove) prospettive del Sindacato: un sindacato del territorio, un sindacato locale, non localistico, un sindacato ‘di montagna’. Che va pensato e costruito. Una versione di federalismo sindacale, dunque con larghe autonomie di sperimentazione…
La rappresentanza (del lavoro)
Richiede alcuni approfondimenti. Anche la nozione di lavoro va specificata. Essa è una ‘invenzione della modernità’ (Gorz). Un prodotto dell’industrialismo. Si dovrebbe approfondire cosa è stato in montagna (per millenni), come è cambiato con l’era industriale nel ‘900, quali trasformazioni ha subito più di recente ecc. Da attività rurale, a lavoro dipendente (o anche autonomo), a una ipotesi attuale: lavoro come bene comune. Sarà infatti qualcosa che stia scritto nel primo articolo della Costituzione: la “Repubblica…fondata sul lavoro”. Ma di quale lavoro si tratta? Poi si dovrebbe approfondire la nozione di rappresentanza, che se è sufficientemente nota e studiata come ‘rappresentanza politica’ (del cittadino), non altrettanto si può dire in quanto rappresentanza del lavoro (o dei lavoratori, per la precisione). Sembra rientrare nel vasto campo della ‘rappresentanza di interessi’ (oggi si direbbe lobby, ma è diverso. Per questa rappresentanza ci sono infatti le premesse nelle stessa Costituzione dove parla delle (riconosce le) formazioni sociali (che, ovviamente, non votano in quanto tali). In ogni caso i lavoratori sono rappresentati in organismi sindacali che non hanno il potere legislativo del Parlamento, ma hanno un potere di
contrattazione nazionale che ha valenza erga omnes (quasi come la legge). Comunque la ‘rappresentanza’ sindacale ha sviluppato una gamma di forme d’azione che articolano la sua ‘funzione’
Potere di contrattazione
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nazionale;
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in azienda (impresa privata);
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·verso Pubbliche Amministrazioni, in quanto datori di lavoro.
concertazione
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rapporto triangolare (Sindacato, Associazioni Datoriali, Amministrazioni pubbliche – per determinare le politiche pubbliche);
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addirittura quadrangolare (col Terzo settore, quando in funzione di partner politico).
partecipazione
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in azienda (ben poco sviluppata in Italia);
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nelle Pubbliche Amministrazioni (c’è una gamma di diverse forme d’
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azione);
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sul territorio (società locale)
Pressione ‘politica’ (appunto qualcosa come una azione di lobby, ma che persegue finalità non corporative, diremmo meglio ‘di riforma’)
Il sindacato di montagna:
Si tratta di una ipotesi di forte investimento sul ruolo di “soggetto politico” del Sindacato, sulla sua capacità di sfruttare tutte le valenze operative sopra indicate, in particolare l’ultima voce.
Si tratta di una u-topia, in certo modo, ma fattibile, ma ‘necessaria’
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Riguardo alla fattibilità si potrebbero analizzare ostacoli ed opportunità. Tra gli ostacoli ambientali, specificamente riscontrabili qui (in provincia di Sondrio, ma sarebbe da capire se ci sono somiglianze con altri territori) si possono elencare:
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individualismo, familismo persistenti (e in parte rinforzati dalla stessa ‘modernizzazione’ come si è detto);
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·scarsa attitudine a cooperare nella produzione oltre il livello familiare
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(mini aziende);
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scarsa cultura organizzativa d’impresa (molte imprese di una certa dimensione sono esterne, con tutti i rischi connessi di delocalizzazione ecc.);
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scarsa cultura di progetto (ben visibile nelle amministrazioni locali);
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scarsa cultura sistemica (interazioni significative, scale operative, ecc.);
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sistema formativo del tutto inadeguato a promuovere/sostenere uno sviluppo endogeno
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sistema politico allo stremo, partiti affaticati, con sempre più scarso appeal.
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sistema politico istituzionale: fallimento evidente della gestione della Provincia (acque ed energia, infrastrutture [strada, ferrovia, telematica], sanità e servizi sociali, polo formativo, piani di governo del territorio e PTCP, assetti istituzionali [Comuni e unioni funzionali, difesa della provincia, federalismo?, ecc]… Ruolo Comunità Montane, BIM ecc.).
Si possono aggiungere evidenti limiti geografici (che vincolano in agricoltura, foreste, anche allevamento, e poi in comunicazioni e trasporti). Infine lo stesso Sindacato tarda ad innovare la visione. Troppo spesso svolge una funzione solo difensiva, non più “di classe”, non ancora “di luogo” con la necessaria complessità di conoscenze e competenze.
Tra le opportunità da valorizzare: si potrebbero mettere, come lezione che viene specificamente dal mondo della cultura alpina, ma da intendere come sopravvivenze utili, ma non inestinguibili, e già oggi precarie:
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Memoria della terra (continuità patrimoni, ecc.);
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Memoria della povertà (che potrebbe suggerire sobrietà, prudenza, ecc.);
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Residue strutture familiari (solidarietà comunque, ma spesso chiusa);
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Residui valori ecologici (un tempo ben presenti anche se non sempre con un livello pieno di consapevolezza);
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Cultura del limite (è stata anche un freno alla modernizzazione);
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Terreni comunali e tematica dei beni comuni (per ora embrionale);
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Forme di cooperazione nell’emergenza (evidente nel volontariato, diffuso, ma piuttosto anarchico, restio a fare rete, mentre è sempre più necessario a un nuovo welfare di comunità);
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Memoria dell’autonomia locale (anche forme di campanilismo residue…);
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Cultura del lavoro (c’è ancora qualche tratto di laboriosità, manualità, artigianalità…).
Un interrogativo singolare si presenta: è possibile che il nostro ritardo di modernizzazione, evidente dalle considerazioni precedenti, divenga una opportunità in più per il cambiamento necessario, che inevitabilmente utilizzerebbe alcuni tratti dell’antico sapere montano, sia pure in una contestualizzazione diversa…? E una domanda che possiamo farci.
2. Riguardo alla necessità del cambiamento. Si apre il problema di fare alcune scelte molto forti, che vanno in un senso controfattuale, e riguardano ovviamente sia la politica in generale che il Sindacato, per quanto di sua pertinenza, ma nella prospettiva di un soggetto politico di pieno protagonismo, non di mera tutela passiva o rivendicazione.
Ora è ovvio che non appartengono al Sindacato provvedimenti che competono immediatamente alle istituzioni, ma nella sua azione, che non esiteremmo dunque a chiamare ‘riformistica’, esso le può e deve affiancare con gli strumenti suoi propri, anzitutto con il ‘governo’ del lavoro e delle retribuzioni (via contrattuale) e poi con l’innovazione nella organizzazione del lavoro, nella partecipazione ai piani d’impresa, compresa l’impresa pubblica, quindi anche verso le Pubbliche Amministrazioni, e infine nella assunzione di una responsabilità verso lo ‘sviluppo’ territoriale. A una scala più generale queste scelte straordinarie operano nel senso di ridurre l’economicismo insito nella tradizione sindacale per affermare forme
di solidarietà innovative, e allargare l’area della pressione politica.
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Anzitutto: una linea di ridistribuzione del lavoro, e anche di ridistribuzione dei redditi.Cosa possibile e anzi necessaria, da quando la produttività non è più fondata esclusivamente o prevalentemente sull’attività manuale. Il lavoro oggi infatti non è più realisticamente misurabilein ore di lavoro e retribuibile in compenso orario se non per una inerzia convenzionale;
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Quindi una azione di riconversione imponente dell’economia (della produzione) con una accentuazione green – sostenibile ecc. Azione necessaria per evitare, dopo la crisi, la ripresa di una cattiva crescita, e un aumento del ‘profitto’ oltre ogni limite per così dire motivabile Posti questi due obiettivi generali, solo all’apparenza irrealistici, benché chiaramente anti-sistema (ma resi ormai necessari dai limiti fisici ed ecologici del mondo!) ne discenderebbe la possibilità di costruire progressivamente un modello di sviluppo alternativo, fondato su una considerazione puntuale e articolata:dei bisogni fondamentali della popolazione locale;delle risorse (prevalentemente locali) attingibili in maniera sostenibile;di un obiettivo di massima autonomia possibile quantomeno in campo energetico e alimentare, e di sobrietà verso altri consumi;di uno sviluppo (questo sì quanto più ampio possibile) delle conoscenze diffuse e della ricerca, un modello da realizzare attraverso un processo di riforme locali che probabilmente non necessitano neppure di ulteriori deleghe amministrative, ma piuttosto di un coordinamento e una integrazione, sorretti da una consapevole, non formale, visione sistemica. E pertanto con la cooperazione di tutti i possibili stakeholders, partner, attori. In una parola, un progetto locale, del quale il Sindacato potrebbe a pieno titolo essere, a sua volta, protagonista, attore, partner.
Ultima considerazione: ovviamente un progetto, per quanto ispirato a responsabilità locale massima, non è indifferente, ai fini di una riuscita, ai contesti, che a loro volta potrebbero essere modificati anche grazie alla autorevolezza e forza politica ottenibili con il processo autonomistico locale intensamente partecipato.
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