Atti Convegno di Sondrio
17 giugno 2012
La montagna di fronte alla crisi:
dall’assistenzialismo all’autogoverno
L'intervento di Michele Corti
La montagna e la crisi: dall'assistenza alla gestione autonoma delle proprie risorse
Premessa
Il dibattito sulla crisi costringe a risalire alle cause prime del venir meno di modelli di organizzazione economica, sociale e politica e dell'insieme dei valori e culture che ne rappresentano il presupposto. Nella montagna gli elementi della crisi appaiono più trasparenti. Emergono con maggiore immediatezza i nessi tra fattori culturali, economici, territoriali; assumono immediata rilevanza le questioni intorno allo sfruttamento e alla inattivazione delle risorse (umane e naturali), i vincoli di una regolazione burocratica soffocante. Qui si individuano agevolmente le condizioni che possono assicurare una vitalità, spesso compromessa, alle comunità. Nella montagna, nell'ambito di piccole comunità, è possibile far leva sul fattore di prossimità fisica che agevola le relazioni sociali. Questo fattore è presente anche in altri ambiti territoriali laddove i comuni possono essere altrettanto piccoli. Nelle condizioni della montagna , però, si aggiunge anche un fattore di isolamento geografico che condiziona l'organizzazione e la fruizione delleattività economiche e di servizio sociale.
La piccola dimensione della comunità, che entro certi limiti facilita le relazioni sociali, sotto una certa soglia, in presenza del fattore di isolamento (e comunque di ridotta accessibilità ad altri centri), porta alla rarefazione e all'impoverimento delle relazioni. I paesi paiono imbalsamati perché ridotti alla funzione abitativa. Ci si muove dal paese ma non dentro il paese per il venir meno di attività di produzione, commercio servizio spostatesi a valle. Si parcheggia eci si chiude in casa.
In montagna è più agevole individuare le viedi fuoriuscita dalla crisi che qui significa definitiva e certa implosione sociale in assenza di svolte. Lo si può fare attraverso l'avvio di esperienze radicalmente nuove e un coraggioso processo che non esiti a riprendere percorsi storici recuperando i valori e le istituti che la modernità ha cancellato (nel tentativo di imporre i duopolio dello stato e del mercato). Tutto ciò può essere oggetto di un esperimento sociale che – in caso di successo – potrebbe poi produrre indicazioni trasferibili anche a contesti territoriali più ampi.
In montagna non c’è il “Terzo settore”, ma la comunità, la “federazione delle famiglie”. A dispetto dell’individualismo moderno e della
Condizione per la riattivazione di funzioni di produzione di beni e di erogazione di servizi è il riconoscimento della necessità del superamento delle distinzioni “moderne” tra dimensione economica e sociale, tra dimensione pubblica e privata. Queste distinzioni hanno stimolato lo sviluppo economico globale ma nelle condizioni della montagna tendono a portare svuotamento. In montagna non è neppure possibile fare affidamento sul “terzo settore”, quello del volontariato, delle cooperative sociali. Il “terzo settore” è definito sulla base di precisi ambiti, di una specializzazione, di una struttura organizzativa che si adatta alle condizioni della società urbana ma non a quelle della montagna e dei piccoli centri dove sia la dimensione di produzione e di commercializzazione di beni materiali che l'erogazione di servizi sociali non possono che essere gestite sulla base della plurifunzionalità e della semplificazione.
Il “terzo settore” presuppone l'assenza di scopo di lucro maquesto diventa un limite dove attività che altrove sono “naturalmente” associate a una finalità economica assumono un intrinseco carattere sociale. Servizi di trasporto, esercizi pubblici nei paesi di montagna hanno valore di servizio sociale.
La “liberazione” dell’economia sociale di vicinanza
La condizione per la riattivazione di funzioni produttive e di servizio in grado di risollevare le condizioni di luoghi dormitorio dei paesi di montagna è la “liberazione” dell'economia informale di beni e servizi dagli schemi di regolazione burocratica e dagli adempimenti e requisiti pensati per attività lucrative su larga scala. Da questo punto di vista, mentre in ambito urbano sono sorti negli ultimi anni degli istituti di economia sociale informale specializzati (Gas, car-sharing, banche del tempo, orti in comune), per i centri di montagna si dovrebbe piuttosto pensare a soluzioni più flessibili in grado di gestire anche l'assistenza (es. domiciliare agli anziani, accompagnamento malati per terapie e diagnosi, nidi per l'infanzia) ma anche quelle dei servizi educativi (scuole parentali con l'impiego di maestri in pensione e di giovani laureati) postali, di trasporto, di produzione e consumo, gestione di spazi di aggregazione. Tutto questo sulla base del principio che entro la piccola comunità, entro la “federazione delle famiglie” , la rete di vicinato, la gestione di queste attività di produzione, consumo, servizio viene equiparata ai fini fiscali, previdenziali, anti-infortunistici, osservanza di requisiti igienico-sanitari ai rapporti all'interno della famiglia ovvero regolata sulla base di autonome determinazioni della “comunità dei vicini” stessa come presupposto di un autogoverno “materiale” prima che amministrativo e politico (che è però il presupposto necessario di questi insieme al controllo delle risorse). Una prospettiva che richiede il ribaltamento dell'incastellatura giuridica oltre che burocratica a carattere prescrittivo.
Il Comune? Un ruolo insostituibile ma non può essere regolato su principi uguali a quelli delle grandi città
Il Comune assume una funzione di interfaccia tra una comunità organizzata (ben al di là di una “cittadinanza attiva”) e le più ampie dimensioni istituzionali oltre a gestire quelle funzioni propriamente pubbliche che non rientrano nella sfera dell'attività di economia sociale informale, i beni comunali, la pianificazione urbanistica. In questo suo ruolo il piccolo comune (che è molto più impegnato su alcuni piani ma che non deve affrontare altri ordini di problemi) non può continuare ad essere normato sulla base della finzione giuridica che equipara comuni di 100 mila abitanti a quellidi 500.
Da questo punto di vista la realtà dei piccoli comuni dimontagna deve anche presupporre un livello intermedio tra la Regione e il comune stesso, un livello che sia caratterizzato dalla capacità di rappresentanza efficace attraverso l'elettività degli organi e l'omogeneità territoriale (non tanto sulla base delle vecchie provincie quanto su quella della comune appartenenza all'ambito montano).
Recupero di controllo delle risorse territoriali, “verde fertile” e non “verde sterile”, defiscalizzazione
Presupposto dell'autogoverno di una comunità locale che di organizza in quanto tale sia pure nel quadro di un rinnovato ruolo del comune-istituzione è il recupero del controllo delle risorse locali e una ridefinizione del peso fiscale. Condizioni per un autofinanziamento sostenibile delle iniziative comunitarie (va tenuto presente che nella condizione di crisi della finanza comunale già oggi la comunità, la “società civile” tartassata dal fisco predatorio finanzia le attività di servizio del comune laddove non poche pro loco e associazioni versano il ricavato di attività di volontariato come le sagre alle cassecomunale prefigurando de facto un nuovo statuto del comune).
Unacomunità locale che si auto-organizza per gestire molti dei servizi oggi forniti con difficoltà e a costi elevati dalle strutture pubbliche (spesso anche in modo poco efficace per via della burocratizzazione, dell'estraneità degli operatori al contesto locale ecc.) può legittimamente pretendere una defiscalizzazione. Lo può fare anche perché il peso della fiscalità è destinato a garantire trasferimenti di redditi e forniture di servizi ai ceti medi urbani, servizi che in un piccolo comune di montagna non possono essere fruiti (le metropolitane, i teatri lirici ecc.). Il peso tutto sommato marginale dell'apporto al fisco delle comunità di montagna rende possibile l'esperimento di “passo indietro” dello stato fiscale L'altra fonte di reperimento di risorse per l'autogoverno locale proviene dalla defiscalizzazione di attività di produzione, commercio e servizio esercitate nell'ambito dell'economia sociale locale. Quella principale, però, dalla rinegoziazione di quei diritti – a partire dall'acqua – che sono stati in tempi storici recenti espropriati a favore dei centri urbani e industriali. In relazione alla crescente importanza delle energie rinnovabili questoaspetto è cruciale.
Lungi dal concepire l'autogoverno locale comesfruttamento di royalties deve essere chiaro che la mancata valorizzazione delle risorse locali che impoverisce le comunità di montagna e le rende dipendenti dall'assistenzialismo riguarda non solo quelle energetiche ma anche quelle territoriali nel loro insieme a partire da quelle umane (inattivate dal burocratismo, dai lacci e lacciuoli che impediscono la pluriattività e incasellano le persone in posizioni professionali rigide) e da quelle agrosilvopastorali “ingessate” non solo dall'imposizione di regole concepite in condizioni produttive a larga scala ma anche dalla concezione urbana del “verde sterile” a valore estetico, ricreativo e di “pozzo di CO2” che rappresenta una delle forme più aperte di colonialismo (insieme all'esproprio dei diritti sull'acqua), colonialismo al tempo stesso economico e culturale.
Vai all'Indice e al Manifesto (vai)
Altri contributi
Intervento di Mariano Allocco (vai)
Intervento di Ignazio Bonacina (vai)
Intervento di Fausto Gusmeroli
Comunità ecologiche e comunità umane: cercare soluzioni per un nuovo modello di società a partire dalle comunità alpine (vai)
Intervento di Ivan Fassin
Per un sindacato di montagna (vai)