Di fronte alla crisi dello stato (politico e "sociale") e all'economia impazzita la montagna può recupere gli istituti premoderni di un auto-organizzazione economico-sociale-politica
di Michele Corti
Un tornante
della storia?
La crisi attuale secondo numerosi osservatori, che non possono essere certo tutti liquidati nella categoria delle cassandre, potrà assumere una gravità imprevedibile. Essa segnerà forse finalmente la fine di quel lungo periodo che ha interessato mezzo millennio all'insegna della modernità. Di certo la crisi attuali si innesta su quella di lungo periodo dello stato nazionale, dello stato fiscale e assistenziale, della società salariale. A questi fenomeni nella sfera della società, dell'economia e delle istituzioni, fa riscontro anche una crisi ecologica dalle inedite dimensioni ma comunque strettamente dipendente dagli sviluppi della modernità.
La modernità è stata contrassegnata dall'affermazione della sovranità monopolisticadello Stato nazionale, dall'individualismo, dell'utilitarismo e dal mercato.
Tra Stato e individuo sono saltati tutti gli intermediari. La pluralità di istituzioni ha lasciato il campo ad
un'unica sfera pubblica nella quale ogni istituzione, a partire dalla cellula
di base: il più piccolo Comune, rappresenta un'articolazione dell'unico Stato nazionale. Agli individui è consentita
l'aggregazione politica, sociale, economica nell'ambito della sfera
privata. I rapporti economici tra gli individui atomizzati sono stati scissi da qualsiasi forma di legame sociale. Questa situazione si è
affermata solo gradualmente. Basti pensare alla grande importanza che forme di
economia solidale avevano continuato ad assumere ancora tra 19º e 20º secolo.
Lo Stato assistenziale è subentrato in tutti i paesi occidentali a forme di
mutualismo e cooperativismo che erano già molto sviluppate e garantivano previdenza
e assicurazione contro le malattie a milioni di persone. Lo stato è intervenuto
svuotando la natura di queste istituzioni, imponendo alle cooperative di assumere
la natura di imprese e imponendo il suo monopolio anche nel campo della
previdenza e dellaassistenza sociale.
Lo
"sociale" e la crisi fiscale
Con la fine
della società salariale, dell'industria fordista, con la differenziazione
sempre più spinta di bisogni, stili di vita è andato in crisi anche lo Stato
sociale che si prefigge di assicurare a costi sempre più elevati servizi standard, spesso non modulati sulle reali esigenze
di una società frastagliata ed erogati indipendentemente da reali necessità.
L'esasperazione dell'individualismo e l'indebolimento della famiglia e di altre forme di comunità ha trasferito come
voce di spesa dei servizi sociali pubblici una serie di costi che in una fase
sociale precedente erano coperti da quelle aggregazioni. L'esempio dell'assistenza sociale strictu senso nei paesi
di montagna è significativo. Un tempo gestita direttamente dai comuni, nei casi
limite in cui le condizioni di disagio e fragilità non potevano essere ammortizzate entro reti famigliari e vicinali, è stata poi
impostata su schemi stabiliti da enti superiori (asl, regione). Schemi validi
per le condizioni di disintegrazione socialemetropolitana che presuppongono istituzionalizzazione, professionalizzazione.
Applicati alla montagna questi schemi comportano costi molto elevati solo in
termini di trasferte degli operatori. Considerazioni analoghe valgono per altri
ambiti in cui attività precedentemente esercitate nell'ambito di una sfera famigliare
e comunitaria sono state istituzionalizzate, formalizzate, burocratizzate. Un
modo per aumentare il Pil e la fiscalità ma che spesso è negativo in termine di
benessere sociale con l'aumento dell'inattività e del senso di inutilità e di
isolamento.
Lo Stato ha
reagito ai costi di un monopolismo invadente in molte sfere sociali con
l'aumento del debito pubblico e della pressione fiscale, aumento per il quale i
margini si fatti sempre più ristretti anche in assenza della gravissima crisi
finanziaria in atto. L'ulteriore stretta fiscale può evitare nel breve periodo
la bancarotta ma non potrà esimere lo Stato, pena una crescente rivolta sociale,
di avviare una ritirata dai troppi ambiti sui quali si è esteso il suo
controllo sostituendosi alle espressioni dirette della società in spregio ai
principi di sussidiarietà, a considerazioni di efficacia e di efficienza sulla spinta di un'inarrestabile pulsione all'estensione
del suo dominio. Le modalità di una ritirata dello Stato a partire dalla sua
disarticolazione locale rischiano però di sortire effetti gravi e non equamente ridistribuiti sia sul piano sociale
che su quello territoriale. La montagna nel rapporto con le altre aree
territoriali è stata fortemente penalizzata dalla statizzazione che l'ha
spogliata di capacità di autogoverno e di risorse e l'ha periferizzata. Oggi la
prospettiva è di essere penalizzata da una contrazione dello stato su base di
“tagli” sempre più consistenti a quelli che possono apparire i “rami secchi” ovvero
le comunità e le aree di montagna più deboli.
Lo stato si
ritira?
La ricorrente proposta di soppressione dei piccoli comuni e la loro aggregazione forzata in unioni decise dall'alto, oltre ad esprimere la natura intrinsecamente autoritaria dello Stato centralizzato (al di là di ogni patente di democraticità auto attribuita e dei discorsi sulla governance ), non può che rappresentare l'avvisaglia di una prevedibile rarefazione della presenza dello Stato. Una rarefazione che potrebbe anche costituire lo stimolo, nel venir meno di una serie di servizi e di strutture organizzative, al recupero di una capacità di auto-organizzazione delle comunità di montagna in alternativa alla prospettiva di ulteriore spopolamento ovvero desertificazione totale. Di certo per lo Stato è preferibile una montagna desertificata rispetto al recupero di autonomia, dopo secoli di perdita progressiva della stessa, da parte delle terre alte. La prospettiva della desertificazione significa mano libera per lo sfruttamento delle risorse strategiche della montagna che da qualsiasi punto di vista le si consideri, appaiono in prospettiva sempre più preziose.
L' eventuale ripresa di una capacità auto-organizzativa dellecomunità al di fuori dell'impianto istituzionale statalista non può certo rappresentare
una prospettiva rassicurante per lo Stato poiché l'esempio di realtà supposte
“deboli” non potrebbe non stimolare fenomeni emulativi in ambiti dove si
ritiene che lo Stato possa continuare ad esercitare un forte prelievo. È solo la gravità della crisi
attuale che potrebbe quindi spingere lo Stato, in una prospettiva di risparmio
e di dimagrimento, a ritirarsi e ad ammettere l'esercizio di forme di autonomia.
Tornare al
medievo
Per le comunità di montagna esercizio dell'auto-organizzazione non si presenta però facile. Non c'è solo la crisi demografica, la perdita di fiducia in se stessi, il crescere della diffidenza e dell'individualismo, del senso di dipendenza ( basti pensare a quanto incidono sul reddito di molte comunità di montagna i redditi da pensioni); quello che incide maggiormente sulla difficoltà a riprendere in mano il proprio destino è la mancanza di consuetudine con l'esercizio di una pratica di vera autonomia che non sia solo autonomia amministrativa nei limiti imposti dal potere statale ma che significhi auto-organizzazione in senso pieno. Una auto-organizzazione che travalichi le demarcazioni artificiali imposte dalla modernità tra la sfera sociale, quella economica quella politica. Sono purtroppo passati due secoli da quando le comunità rurali alpine hanno conosciuto l'imposizione di forme di espropriazione dei loro beni e della loro sfera di auto organizzazione.
Queste istituzioni a cavallo tra la sfera pubblica e quella privata, sorte inun'epoca medioevale in cui tali sfere non erano separate, rappresentano una risposta alla crisi della modernità. Erano istituzioni che in sé comprendevano capacità di gestione economica imprenditoriale, mutualismo, funzioni assistenziali, un ruolo politico. La crisi di una politica e di una economia “pure” è evidente. La sfera pubblica si trova alle prese con il costo dei servizi sociali e di una fiscalità insostenibile, la sfera economica con il vicolo cieco di una crescita illimitata a fronte di risorse sempre più limitate e della crisi ecologica, della finanziarizzazione, dell'estrema interdipendenza che da fattore di forza diviene elemento di fragilità. Parliamo di fenomeni globali ma è a livello locale che concretamente si possono mettere in atto delle soluzioni per evitare che queste crisi globali travolgano la realtà sociale.
La capacità di riattivazione di forme di auto organizzazione al di fuori del controllo, della regolazione, della
fiscalizzazione statali può rappresentare la soluzione non solo per fornire,
sulla base di principi di reciprocità e mutualismo, quei servizi che lo Stato
non sarà più in grado di assicurare alle decentrate comunità di montagna che
già soffrono per la chiusura di uffici postali, banche, strutture sanitarie, ma
anche per riattivare circuiti di microeconomia informali in grado di rispondere
anche ad altri tipi di esigenze quali i servizi oggi sempre meno assicurati
dalla presenza di operatori commerciali e imprese artigianali. Da una parte le
comunità devono essere in grado di recuperare quella capacità manageriale che
consentiva alle vecchie vicinie di gestire osterie, mulini, segherie.
Dall'altra devono saper sfruttare tutte le risorse di flessibilità della risorsa
umana, recuperando quelle energie sprecate dei giovani, dei pensionati, delle
casalinghe, per la gestione per la gestione di quei servizi socio assistenziali
e di altri servizi alla persona che il pubblico e il mercato non sono più in
grado di fornire. Il principio sulla base del quale è possibile rivitalizzare
una serie di attività economiche di contenuto sociale è il riconoscimento che
nell'ambito delle piccola comunità la distinzione tra attività economiche e sociali
è impossibile e che tali attività devono essere considerate in modo diverso
rispetto a quelle di ben altra dimensione che si esercitano nelle città e nei
centri maggiori. Un negozio polifunzionale in un paesino di montagna non è anche
un luogo di aggregazione sociale? Non fornisce anche servizi di tipo sociale?
L'esercizio di un servizio di trasporto non ha contenuto sociale rispetto
alle fasce di popolazione che per età o reddito non possono disporre di un'auto
privata? In passato, sulla
base di questi principi si sono avanzate proposte di defiscalizzazione. Oggi, con
l'aggravarsi dei fenomeni di spopolamento, desertificazione commerciale,
chiusura di servizi non basta più né meno questa concessione. Al di là
della fiscalità vi sono altri vincoli che pesano in modo ancora più forte sulla
sostenibilità delle attività economiche, commerciali, terziarie, artigianali in
montagna. È il sistema di regolazione minuziosa e oppressiva che è stato
imposto dalle grosse entità economiche per svuotare la piccola economia.
Allargare
alla piccola comunità la sfera al riparo dalla regolazione
L'applicazione
di norme che, in apparenza, dovrebbero tutelare l'ambiente, i consumatori, i lavoratori
in realtà impediscono l'esercizio di attività economica su piccola scala,
aggravano a dismisura i costi, costringono una serie di operatori a
cedere o a collocarsi in un limbo sommerso che, per esempio, per i contadini significa
giustificare le loro piccole ma non insignificanti
produzioni con un poco credibile autoconsumo. Il meccanismo dei registri delle
camere di commercio, delle categorie di partita Iva ( che incasellano
l'attività in ambiti che non consentano di esercitare allo stesso tempo
attività commerciali o professionali) sono ulteriori meccanismi – insieme agli
albi professionali – che ostacolano quella pluriattività che in montagna è sempre
stata in tutte le epoche la condizione per una sostenibilità economica delle
comunità, delle famiglie dei singoli. È proprio partendo dal principio
dell'economia familiare, dell'autoconsumo, unica sfera nella risparmiata dallo
Stato nella sua azione di regolazione e controllo che è necessario partire per
sostenere che la microeconomia delle comunità delle terre alti, di centri
abitati, frazioni, borgate, micro comuni di poche centinaia di abitanti, se non
di poche decine è da ritenere assimilabile all'economia familiare dal momento
che non vi sono i presupposti per l'esercizio di attività in forma di impresa
in modo specializzato e nel rispetto delle normative igienico-sanitarie,
antinfortunistiche, ambientali eccetera, eccetera. Per evitare che
qualche operatore spregiudicato possa approfittare di queste previsioni è sufficiente stabilire
dei paletti ben precisi che riguardano la dimensione di queste attività.
Un negozio-bar-osteria polivalente non potrà trasformarsi magari nella stagione estiva in un ristorante camuffato. Bastastabilire il numero massimo dei coperti.
L'assenza di quei particolarirequisiti e adempimenti che caratterizzano gli esercizi su base commerciale-imprenditoriale può consentire di esercitare attività commerciale di servizio anche in modo del tutto informale. Per esempio, come avviene già in alcuni paesini, la chiusura del negozio ha indotto le famiglie ad organizzarsi in un una coop di fatto con tanto di locale-spaccio dove anche i rari turisti possono fare degli acquisti. Forme di economia informale possono svilupparsi anche sul terreno dei trasporti dove, a fianco della concessione senza formalità dell'esercizio di attività di trasporto pubblico, si può sviluppare anche la messa in comune di autovetture o servizi di reciprocità. C'è da riflettere sul fatto che la montagna nella sua crisi demografica non riesce a cogliere quelle opportunità che proprio nelle grandi città stanno rinverdendo quelle che erano delle pratiche tipiche della società rurale: ed ecco il car-sharing, il car-pooling, le banche del tempo, i gas, gli orti in comune eccetera eccetera. Sono forme che dovrebbero sorgere spontanee in una piccola comunità e che sono impedite dalle barriere della diffidenza, dell'invidia, dell'individualismo subentrate alla crisi della società rurale e alla divaricazione di condizioni, interessi, gravitazioni. Quello che in un ambito urbano non può che sorgere dalla spontanea interazione di individui nelle comunità di montagna alla possibilità di essere sviluppato solo sulla base di un progetto locale, dove il soggetto è una rivitalizzata comunità e non l'incontro di individui isolati come necessariamente avviene nelle città. Non si può non osservare, però, che i vari esempi di dinamismo comunitario che si riscontrano nelle nostre realtà di montagna si scontrano spesso proprio con quella realtà di regolazione burocratica cui si è fattoriferimento poc'anzi.
Un esempio calzante è rappresentato dall'albergo
diffuso. Si tratta di una nuova forma di ospitalità che nasce grazie allo spirito di collaborazione. A Ornica in Val
d'Brembana l'albergo diffuso è stato attivato dal gruppo Donne di montagna,
casalinghe che hanno messo a disposizione una camera nell'ambito di loro unità
immobiliari e il loro lavoro. Hanno aperto anche uno spaccio e l'attività
dell'albergo e sintonizzata con quella di eventi culturali che attirano i
turisti su proposte tematiche. Tutto questo, però, è stato possibile farlo
perché questa forma di ospitalità spontanea è stata riconosciuta dalla regione
mediante una modifica del testo unico sul turismo. L'assenza di normative, o l'esistenza
di sin troppo minuziose previsioni che regolano le attività economiche quante
altre iniziative spontanee impedisce? Si dice che la montagna è “debole”, ma
quante risorse materiali pensiamo solo
all'immenso patrimonio di edilizia rurale) sono inutilizzate. Per non parlare
poi delle risorse umane. Donne, giovani e anziani che potrebbero svolgere attività
sociali ed economiche ma sono inattivi, spendono molte ore davanti la
televisione.
La sfera
della microeconomia e dell'agricoltura rurale
L'esempio
dell'albergo diffuso indica come l'approccio al turismo può cambiare. In questo
caso l'offerta turistica è il risultato di una riattivazione di risorse, del
recupero degli edifici storici, del recupero di energie umane dormienti. Il modello del turismo come principale se
non unica forma di attività economica va respinto specie dove esso implica
investimenti esogeni, la creazione di corpi estranei (in senso economico,
materiale, sociale). La ripresa di vitalità delle comunità deve avvenire
a partire dal rilancio di attività di produzione materiale e di servizi
destinate in primo luogo alla comunità stessa. Ciò non esclude che l'osteria
rurale, gli edifici di valore storico recuperati, i prodotti della resuscitata
agricoltura locale possano essere rivolti anche, sottolineo anche ai turisti.
Si pensi solo al volume di attività messe in moto – qualora si utilizzino materiali,
maestranze e competenze locali – dal recupero edilizio e urbanistico dei centri
storici e dell'edilizia rurale sparsa. Un impegno che lo stato – considerate le
premesse – non potrà certo affrontare ma che possono intraprendere comunità
interessate a riprendere in mano la gestione delle proprie risorse (a partire dall'energia
idroelettrica) e a investire in programmi di sviluppo endogeno. Dalla
riattivazione di capitale sociale, risorse materiali, dall'investimento nella
vivibilità (non solo materiale) può derivare una capacità di attrazione in
grado di invertire l'emorragia dei giovani e di portare in montagna nuovi montanari per scelta interessati a
inserirsi nelle attività locali anche se in parte interessati a continuare a
coltivare rapporti professionali e non con l'esterno. Di certo non aiuta la rinascita
la “colonizzazione” da parte di pseudo neomontanari assunti sulla base di
progetti calati dall'alto in campo turistico, ambientale.
L'agricoltura,
l'allevamento, la pastorizia, la selvicoltura hanno subito una contrazione ai
limiti patologici e sono campi in cui è possibile nuova occupazione. Pensare
che il 2-3% degli occupati in condizione professionale “tengano in piedi”, in
senso molto fisico, la montagna è stata una utopia modernista perniciosa. Si è
spinto gli spessi contadini a restare a valle , a costruire stalle da pianura padana, a supermeccanizzarsi, entrando in filiere globalizzate. Un vortice in
cui al reddito calante deve fare contrappunto la spinta a produrre sempre di
più, a ingrandirsi. Ma in montagna i vincoli
ambientali e della struttura fondiaria impediscono che la logica dell'agricoltura
industriale possa estendersi più di tanto. E allora c'è la desertificazione.
Paesi interi senza un allevatore. Chi "mangia" i prati e le montagne (come dicono i nostri allevatori che si identificano
intimamente con il loro bestiame erbivoro)? Ridotta in termini minimi la zootecnia
sono state quasi del tutto abbandonate la frutticultura (tranne dove si fa monocoltura), la ceralicoltura.
Considerazioni
analoghe valgono per le utilizzazioni boschive. La crisi, però, costringerà a
riconsiderare il valore delle risorse. I boschi con valore negativo (il costo
del taglio , dell'esbosco e dell'allestimento superano il prezzo del legname), la lana con valore negativo
(il valore della lana non copre il costo della tosa), i campi trasformati in
prati e i prati in boscaglie forse saranno lussi che non ci si potrà permettere
in uno scenario di costi dell'energia e dei trasporti in forte crescita e con
la concorrenza di miliardi di bocche che tendenzialmente saranno ricche quanto
noi o più di noi e che, in ogni caso, si stanno cautelando accaparrandosi le
risorse agricole strategiche mondiali. L'alimentazione a basso costo che ci
consente di dedicare il reddito ancora oggi a tante cose superflue non durerà
per molto. La produttività e la redditività relativa dell'agricoltura di montagna
(rispetto a quella industriale energivora e insostenibile) è destinata a
crescere. Anche in questo caso la ripresa dovrebbe avvenire sulla base della
soddisfazione di bisogni locali, sottraendo progressivamente spazio al sistema
che ha il suo terminale nei centri commerciali dove confluisce il cibo globale,
dove la casalinga del villaggio di montagna scende per acquistare un ortaggio
che ha percorso migliaia di chilometri mentre l'orto resta abbandonato.
Rimettere in
circolo le risorse
Ci si deve
pertanto attrezzare per rimettere in circolo le risorse congelate e abbandonate
dopo secoli e millenni di cura paziente pensando a tutto lo spazio coltivabile
e non solo alle risorse silvopastorali. Le comunità nella loro ritrovata (si
spera) capacità di auto-organizzazione devono recuperare anche la
competenza nei fatti della produzione agricola oggi demandati a una mostruosa macchina burocratica. Spesso basta l'istituzione di un mercato contadino
comunale o di un orto e di altri coltivi civici per rimettere in moto una
competenza locale. Anche in un quadro normativo formale immutato che espropria il livello locale dalle competenze in materia. I
piccoli produttori molto spesso chiedono solo di essere liberati dalla
burocrazia. Sono i grossi che mirano ai contributi, ai premi Pac. Le
considerazioni sui circuiti di economia informale valgono anche per la
produzione agricola con l'annessa trasformazione alimentare.
Alle
comunità spetta in primo luogo di riprendersi in mano attivamente le risorse
(boschi e pascoli) ancora fortunatamente in mano ai comuni (spesso, però,
disattenti o attenti solo alla cassa). L'enorme ostacolo alla ripresa
dell'agricoltura in montagna è dato dalla frammentazione. Alcuni comuni hanno promosso
associazioni fondiarie, cooperative, associazioni per il fieno ecc. Si tratta
di formule di non facile attuazione ma che una ripresa di spirito comunitario potrebbe
molto agevolare. Se siamo così ambiziosi da pensare che nella ritirata dello
stato potrebbero ritrovare spazio istituti comunitari di auto-gestione che si
rifanno alle realtà sorta nel medioevo forse potremmo estendere il ragionamento anche alle forme di proprietà. Nel medioevo
molte proprietà già collettive (tribali) vennero privatizzate laddove era
possibile una coltura intensiva. Oggi la proprietà privata parcellizzata è un
grave ostacolo alla ripresa della coltivazione della montagna. Quello che difficilmente riuscirebbe allo stato con riordini
dall'alto forse potrebbe riuscire alle risorte comunità qualora i membri
decidessero di porre sotto 'egida della comunità stessa i terreni abbandonati. Non necessariamente sotto forma di ricostituite
proprietà collettive o di proprietà sociale che dir si voglia ma – almeno
transitoriamente – sfruttando gli istituti che l'assetto giuridico vigente consente.
Così si può pensare che le ricostituite comunità rurali si strutturino sotto
forma di società, fondazione, consorzio in attesa di una riforma giuridica che ripristini
il pluralismo medioevale delle istituzioni eliminando il monopolio statale
della sfera pubblica. L'esempio delle fondazioni di valle svizzere quale forma
di supplenza e sussidiarietà rispetto ad uno stato che ha iniziato il suo
ritiro è da questo punto di vista stimolante
<< intervento precedente intervento successivo>>