I nemici della montagna
di Giancarlo Maculotti
Partiamo da un dato: i primi nemici della montagna sono i montanari. Sono coloro che stanno in montagna come reclusi, come schiavi, come eterni insoddisfatti. Di questi dobbiamo liberarci al più presto. Fanno male a se stessi e fanno male a tutti noi. Dobbiamo ribaltare l’adagio “L’aria della città rende liberi” di epoca medievale, in un altro motto “L’aria della montagna rende liberi”. Se ciò non accadrà la battaglia sarà inevitabilmente persa. I proverbi si cambiano in un attimo, ma come cambiare la mentalità della gente?
La promessa di maggior libertà dev’essere una promessavera, non una promessa da marinaio. Fu così al tempo nel quale agli schiavi o servi della gleba si promise la libertà se andavano a dissodare i pascoli e le radure delle valli. Fu un progetto politico, non una fanfaluca. Divenivano proprietari dei terreni bonificati e quindi boni homines (i cognomi Bonomi, Bonomelli, Bonetti sono lì a testimoniarlo) e dunque liberi.
Diciamolo chiaramente: la montagna ora non ha appeal. Non ce l’ha perché l’uomo è pecorone e corre dove va la massa. Ma non ce l’ha anche perché il vivere nei piccoli paesi a volte o spesso diventa una via crucis quotidiana. Le persone sono capaci di torturarsi per nulla per anni e anni. I piccoli paesi, al di là della retorica sui bei tempi andati, sono anche questo. Beghe che continuano da generazioni per un torto subito dal trisavolo di cui non si ricorda nemmeno il nome. Diffidenza verso i nuovi arrivati o addirittura aperta ostilità.
Ecco perché la città rendeva liberi. Perché tagliavadi netto con il fardello di un passato pesante, asfissiante, petulante. Ma ora, è ancor vero che la città, dove ci si pigia a spintoni in metropolitana la mattina presto o ci si ammazza per un parcheggio o ci impiega due ore per un percorso che da noi si fa in dieci minuti, ha ancora l’aura di libertà? A parte l’inquinamento, l’uomo in città non vive come in una trappola per topi? Se ciò è vero, allora possiamo dire che è giunto il momento della riscossa.
Dobbiamo creare le condizioni perché in montagnal’aria diventi più libera che in città. E’ un grande sforzo culturale che richiede progetti e pazienza, ma è un progetto possibile anche grazie alle nuove tecnologie. Dobbiamo ritornare all’epoca nella quale i montanari erano più colti degli abitanti della pianura. Secoli nei quali i capifamiglia pagavano il cappellano (oggi diremmo il curato) per far scuola ai fanciulli pagato a cottimo: “tanto imparano, tanto t paghiamo” che don Milani recupera qualche secolo dopo.
E’ un progetto possibile se usiamo un criterio: inmontagna ci stanno bene solo i più colti, i più aperti, i più innovativi. Per far questo dobbiamo pensare a scuole eccellenti, a preparazione universitaria, ad esperienze “obbligatorie” all’estero. L’Università di Edolo in Valle Camonica ha già giocato un ruolo molto positivo per i giovani delle valli: li ha tenuti in montagna con la certezza di non essere i soliti rozzi ed ignoranti, i soliti “sfigati” come si dice oggi, i soliti piagnoni lamentosi. Chi rimane da noi con uno spirito diverso sia il benvenuto. Gli altri corrano pure al piano. Maggior libertà. Una parola. Ma se non c’è lavoro? L’autonomia dei comuni è una chimera. Le capacità di unirci e superare i campanilismi un’utopia. Le scuole sempre più degradate. La mentalità sempre più consumista e sprecona. L’attaccamento al lavoro sempre più labile. Come si fa? Con un bel ritorno al medioevo? Neanche per sogno.
La libertà passa attraverso una capacità dirivendicare maggiore autonomia e maggiore potere decisionale. I montanari
sono capaci di decidere da soli, ma devono unirsi, devono stringere
alleanze. E soprattutto debbono darsi obiettivi chiari ed ambiziosi. Sono
finiti i tempi nei quali si andava col cappello in mano a chiedere la carità. La
montagna produce energia pulita e la montagna deve gestirsi la sua energia.
Questo è il primo obiettivo. Se alle valli vengono date le concessioni
delle centrali idroelettriche hanno risolto i loro problemi. Una sola
valle è perdente su una rivendicazione di tal genere. Tre, quattro, cento
valli unite possono vincere. Bastano gli utili dell’idroelettrico per
finanziare i servizi, razionalizzare i comuni, avere più qualità della
vita senza promettere il bengodi. In montagna si fatica e si deve
continuare a mantenere il culto del lavoro che è una delle nostre
ricchezze. Ma non il lavoro dell’asino. Il lavoro faticoso accompagnato
da un alto valore culturale. Altro punto: i piccoli paesi, anche i più
minuscoli, hanno una loro identità e non bisogna incentivare la loro
scomparsa. Semmai bisogna facilitare la loro libera unione con i comuni
vicini.
Sostengo da tempo che sarebbe utile un ritorno
alle Vicinie. Tolto il potere ai soli capifamiglia ed esteso a tutti il
diritto di voto, potrebbero governare i piccoli comuni meglio delle
attuali amministrazioni con leggi imposte dall’alto e con artificiose
contrapposizioni elettorali che creano divisioni e lasciano strascichi
negativi per decenni. Ogni Vicinia si creava da sé il suo statuto.
Decideva quanti amministratori avere e se e come retribuirli, quanto
tempo dovevano durare, se erano o meno rieleggibili. Sostenevano da sole
tutte le spese. E poi si federavano, eccome. Mica stavano chiuse nel loro
orticello. Non è un ritorno all’ancien règime, ma sarebbe la correzione
delle storture introdotte in montagna dalla rivoluzione francese. E
poi la scuola: basterebbe un progetto di utilizzo degli insegnanti in
pensione, con qualche piccolo incentivo, per tenere le scuole (ma non
certo per tre alunni!) anche nei più piccoli paesi. Ovvio: scuole a tempo
pieno che d’estate raccolgono anche i pargoli sfaccendati delle città e
li introducono alla sana vita di montagna con proposte avanzate:
internet, lingue straniere, escursioni, astronomia, botanica, geologia e…
raccolta di legna e sfalcio dei prati. Mica i fanciulli imbelli e
ignoranti che stiamo crescendo ora.
Avere oggi anche nei paesi più sperduti un collegamento internet veloce non è un grosso problema. E se facessimo un progetto perché tutte le generazioni lo usino (come ha fatto Poschiavo) potremmo rapidamente superare il gap che esiste oggi tra Italia e altri paesi avanzati. E potremmo offrire a giovani laureati che vogliono aprire uno studio in montagna appartamenti a poco prezzo o addirittura a gratis per cinque anni purché lascino la giungla cittadina per una scelta di vita più umana. Una scelta di libertà.
E poi agricoltura ed artigianato. Non quattro pazzi conil sicuro conto in banca che diventano allevatori di capre (van bene anche loro per rompere il ghiaccio) ma giovani europei emancipati che vogliono costruirsi un avvenire più piacevole e più libero. Certo ci vuole una politica che non tolleri più sprechi di territorio e punti decisamente e solo sul recupero dei centri storici e delle cascine abbandonate di montagna. Ecco che allora i dissodatori d’antan possono diventare i giovani universitari disoccupati che vogliono liberarsi dalla schiavitù dei costi impossibili e dalla tutela (anche economica) dei genitori.
Gli ecomusei non possono trasformarsi in musei dellecere: o diventano volani di sviluppo economico che recuperano i materiali
e le abilità della tradizione in una visione moderna o possono chiudere.
Non servono a nulla se non agli accademici per scrivere qualche insulso trattatello. Il tutto però passa per un recupero d’orgoglio. Se uno si vergogna di essere
montanaro non lo terrà in montagna nessun servizio: né la scuola, né la
posta, né il municipio, né la farmacia. Già visto. Già sperimentato.
Gli amici di Coumboscuro in provincia di Cuneo si sono inventati il provenzale,
le tradizioni inesistenti, l’uccisione delle Comunità Montane. Hanno
molti torti ed un unico grande pregio: hanno restituito dignità agli
abitanti della montagna. Su questo punto: chapeau. Possono essere
imitati. Facciamolo.
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