Distratti dalla pandemia (o psico-pandemia), usata ampliamente
dai media per condizionare atteggiamenti e comportamenti dei sudditi,
gli italiani più di altri appaiono del tutto inconsapevoli delle
trasformazioni in atto. Ad impedire di capire dove si stà andando, per
quali processi, per opera di quali forze, congiura l'altra narrativa
dominante, quella sul riscaldamento climatico. Ogni tendenza negativa
viene comodamente (per le élites) attribuita alle conseguenze della
pandemia e del riscaldamento climatico. Intanto stiamo assistendo ad un
aumento preoccupante dei prezzi reali delle derrate alimentari, un
aumento non transitorio, solo in parte legato alle conseguenze
congiunturali della pandemia, destinato a pesare sul piano geopolitico
e su quel poco che rimane di sovranità (alimentare e non). la Cina
accaparra cereali e invita la popolazione a fare scorte. E noi? Noi ci
gloriamo del made in Italy alimentare e del pareggio della bilancia
agroalimentare. Ma ci dimentichiamo che stiamo diventando sempre più
dipendenti dalle importazioni per le derrate agricole. Se l'industria
alimentare processa sempre più materie prime di origine global, in caso
di crisi saremo alla mercè dei ricatti politici dei padroni del cibo,
quello vero, qulllo che viene dai campi.
In assenza di titoloni sui giornali e giornaloni (che la
pandemia e il governo Draghi hanno reso ancora più allineati riducendo
quasi a zero le voci che cantano fuori dal coro), il 2021 è stato
caratterizzato dai prezzi più alti delle derrate alimentari - tolto il
terremoto della crisi energetica del 1953-74) da quando esistono le
registrazioni Fao. Una notizia pesante, no? L'altra notizia è che i
prezzi reali annualizzati delle derrate alimentari di base hanno
supertato quelli del 2008 (in coincidenza con la peggiore crisi
economico-finanziaria dal 1929) e del 2011 (l'anno degli scossoni
politici nel medio-oriente spinti dalle "rivolte del pane"). Quello che
conta è che si tratta di notizie di rilevanti conseguenze politiche.
Non sono in gioco solo la stabilità interna dei paese ma anche i
rapporti di forza in un mondo che è sempre più conflittuale. Da che
mondo e mondo il controllo degli approvvigionamenti alimentari e
l'argomento principe del potere. In questi frangenti ci pare utile
riprendere le considerazioni sull'autonomia agricola (più agricola che
alimentare) che avevano sviluppato ai tempi del lockdown (La
produzione di cibo è sempre più indispensabile).
Se si analizza quale sono le componenti
dell'aumento dell'indice dei prezzi reali delle derrate alimentari si
scopre che gli aumenti più consistenti sono stati quelli degli oli
vegetali seguiti da quelli dei cereali. Sull'insieme dei prezzi
agricoli ha inciso l'aumento dei costi energetici, che è in salita
dall'aprile del 2021. L'aumento delle derrate agricole è però più
elevato (+30% su base annua dal 2020 al 2021) e non può essere spiegato
solo con l'aumento dei prezzo dell'energia. Ci sono anche altre cause,
evidentemente. L'ecocatastrofismo, componente importante della
narrativa finalizzata a far digerire il "nuovo ordine mondiale", non ha
dubbi: i prezzi delle derrate alimentari salgono per via del
riscaldamento climatico. Come sappiamo qualsiasi fenomeno negativo è
oggi ascritto al "cambiamento climatico". Piove troppo? E' colpa del
cambiamento climatico. C'è la siccità? E' colpa del riscaldamento
climatico. Così, se il raccolto di grano duro canadese (quello al
glifosato), è andato male per colpa della siccità, ecco una prova degli
effetti del cambiamento climatico. La Cina ha subito i danni per le
piogge abbondanti ma, nonostante questi "danni da cambiamento
climatico" la produzione è cresciuta comunque del 2%. Ha però
aumentato le importazioni. Perché? Perché per motivi politici vuole
mantenere altissime le scorte.
Cereali stoccati
danneggiati dalle piogge in Asia
In tema di "è sempre colpa del
cambiamento climatico" qualche sospetto comincia ad affiorare quando
apprendiamo che l'elevato prezzo dello zucchero, uno di quelli che
hanno subito le massime lievitazioni nel 2021, è da attribuire al gelo
che ha colpito il Brasile. Non si può neppure ignorare che il
cambiamento climatico se, da una parte, può penalizzare la produttività
agricola in alcune aree, dall'altra è in grado di estendere l'area
coltivabile e le rese. Paesi come la Russia e il Canada potranno
mettere a coltura enormi estensioni nella regione boreale. Se la tundra
lascerà posto alla foresta, quest'ultima potrà diventare terra agricola.
Attribuire ogni difficoltà in ambito
agricolo al cambiamento climatico è sicuramente comodo, per qualcuno,
ma non offre solidi argomenti per la comprensione delle cause. Se
prendiamo i semi oleosi, che sono la categoria di derrate alimentari
che ha conosciuto i maggiori aumenti, a parte l'andamento climatico va
considerato, come fattore di lievitazione dei prezzi, la crescente
domanda di bioenergie (biodisel) che spinge a investire grandi
estensioni di terreno in "colture energetiche". Con il risultato
che, come spiega il rapporto finale di uno studio commissionato dalla Commissione
europea (The
land use change impact of
biofuels consumed in the EU
Quantification of area and greenhouse gas impacts),
investire i terreni nella produzione di biodisel comporta emissioni di
gas serra molto più elevate rispetto all'uso dell'energia fossile. Come
nel caso di altre forme di "energia rinnovabile", i risultati - in
termini di riduzione delle emissioni - sono modesti (o persino nulli e
negativi) ma l'effetto certo è l'aumento del costo dell'energia, legato
agli incentivi. I maggiori costi energetici pesano sull'inflazione e
sul costo delle produzioni agricole (un danno sociale evidente) e
premiano la rendita parassitaria dei percettori di incentivi. Quindi va
detto che una delle componenti delle tensioni sul prezzo delle materie
prime agricole è senz'altro dovuta alle politiche "climatiche" e green.
Il
mito del "libero mercato"
Le politiche neoliberali di
liberalizzazione del commercio internazionale hanno reso più forti il
potere monopolistico delle multinazionali e aumentato il peso della
superpotenza cinese, un regime che di liberale non ha nulla. Hanno
indebolito la piccola produzione, in particolare quella agricola, in
tutto il mondo, abbattuto i prezzi riconosciuti ai contadini. Cina e
Usa, peraltro, possono permettersi di utilizzare l'arma dei dazi a
differenza dei piccoli paesi. Quantomeno il riesplodere delle guerre
dei dazi ha avuto il merito di spascherare l'ipocrisia della "libertà
di commercio" mettendo in evidenza che dietro l'ideologia liberista ci
sono solo i nudi rapporti di forza. Le commodities agricole sono
controllate da oligopoli di pochi player che fanno il bello e il
cattivo tempo. Quattro multinazionali (tre Usa, una francese)
controllano il 90% del commercio dei cereali. Un attore ancora più
potente, ci si scorda troppo spesso di citarlo, è però il governo
cinese. Alcuni si accorgono solo oggi, di fronte all'impennata dei
prezzi del 2021 che la Cina possiede il 60% dello stock mondiale di
grano tenero, arrivato a un massimo di 150 milioni di tonnellate.
Invece che ridurre lo stock, come fanno altri paesi quando i prezzi
aumentano (notare l'andamento ondeggiante della linea scura che indica
la dimensione dello stock di grano nel mondo, esclusa la Cina e
l'India), la Cina lo ha costantemente aumentato dal 2006. Evidente che
la Cina segue logiche diverse da quelle dell'Occidente, logiche
marcatamente politiche.
Per mantenere il consenso nei confronti del regime comunista, un regime
caratterizzato da politiche sempre più autoritarie, il regime vuole
assicurarsi che la disponibilità di cibo (e di carne) non venga meno.
In Cina il partito comunista ha instaurato il sistema del "credito
sociale", ovvero il punteggio del "buon cittadino". Grazie all'uso
delle stesse tecnologie sviluppate dalle big tech californiane per il
controllo totale del comportamento, in Cina il cittadino è già super
controllato e riceve "pagelle" che comportano premi e punizioni (il
green pass del governo Draghi è l'anticipazione di un sistema simile).
Se sei virtuoso hai connessioni internet più veloci, puoi viaggiare,
puoi accedere a scuole prestigiose; se sei "cattivo" tutto il
contrario. Per quanto la cultura cinese sia orientata all'obbedienza
sociale, un simile odioso sistema non potrebbe reggere se non in un
contesto di soddisfazione dei bisogni materiali. Per i cinesi avere
abbondante carne avicola e suina sulla mensa è una condizione di
"tranquillità sociale". Nel 2019 l'influenza suina (la Cina è la
fabbrica dei virus umani e animali) provocò l'abbattimento di milioni
di suini e un'impennata delle importazioni con conseguenze sul mercato
mondiale. Con la ripresa degli allevamenti, le importazioni di soia e
mais sono schizzate in su. Nel 2021 le importazioni di mais cinesi si
sono triplicate, quelle di soia sono raddoppiate. E qui gioca
l'industria zootecnica. Le importazioni di grano tenero sono arrivate a
12 milioni di tonnellate (più del 50% di aumento).
Acquisti
aggressivi
La Cina ha operato acquisti giudicati
"aggressivi" sui mercati mondiali rastrellando grano tenero (ma anche
orzo) di produzione francese, ucraina e australiana. Qualche politico
si è spinto a denunciare l'accaparramento. Oltre alle finalità di
politica interna (il regime comunista non vuole correre il rischio cge
i sudditi non abbiano la pancia piena) non ci saranno altre finalità
politiche internazionali? Forse che Pechino prevede anni di didotta
produzione mondiale e si prepara a utilizzare l'arma del cibo? La
spregiudicatezza della Cina nell'operare sui mercati per fini
strategici rende lecita questa considerazione. Nel 2017 la Cina per
motivi legati alla tensione sui dazi con gli Stati Uniti ma forse
semplicamente per una manovra commerciale, sospese le importazioni di
lana dalla Nuova Zelanda gettando l'industria in una crisi nera che
costrinse a ridurre gli allevamenti e a macellare le pecore. Grazie
alle quote di mercato (sia di esportazione che di importazione) essa
può fare il bello e il cattivo tempo su molti mercati. Con la prima
fase della pandemia, l'interruzione dell'importazione dalla Cina di una
grande varietà di articoli per il consumo e di beni intermedi mise in
crisi le catene di approvvigionamento. Non sono bastati questi
avvertimenti?
Ma quale solidarietà alimentare?
La solidarietà europea l'abbiamo vista
bene con la prima ondata della pandemia nei primi mesi del 2020.
Francia e Germania hanno imposto il divieto di esportazione delle
mascherine. Difficile credere che in caso di crisi alimentari la
Francia rinuncerebbe a vendere derrate alla Cina per darle ai "partner"
europei? A parte l'egosimo nazionale dei campioni dell'europeismo
(Francia e Germania sono europeiste solo eprché possono imporre la loro
egemonia nazionale, se questo è ... europeismo) dobbiamo pensare che di
fronte alle pressioni della Cina (in grado di bloccare le catene di
approvvigionamento), in caso di crisi globale funzioni la "solidarietà
europea"? Se nell'ambito della maggior parte dei paesi europei, maxime
in Italia, non prevalesse l'interesse delle élites (che vedono l'Europa
come uno strumento a loro favore) le fandonie europeiste non avrebbero
corso e potrebbe essere perseguita una sovranità alimentare alla faccia
della Pac e di tutti i vincoli imposti da Bruxelles per azzerare quanto
rimane di indipendenza nazionale. Possiamo essere tranquilli con
i paurosi deficit di alcune fondamentali derrate agricole? Le
importazioni rappresentano il 70% del fabbisogno di soia, il 64% del
frumento tenero, il 40% del grano duro, 45% della carne. Il caso del
mais è drammatico. Se all'inizio di questo secolo, sono passati solo
vent'anni, importavamo il 10% del fabbisogno interno di mais, nel 2015
abbiamo importato il 45% e nel 2020 il 50%. dato preoccupante la
superficie a seminativi continua a diminuire.
La battaglia del grano.
Rispetto alla situazione del primo dopoguerra, quando le importazioni
di grano tenero rappresentava 1/3 del fabbisogno, agli inizi
degli anni '30 era stata quasi raggiunta l'autosufficienza passando da 50 a 80 milioni di q.li di produzione grazie al forte aumento delle rese unitarie.
L'illusoria
autosufficienza alimentare (senza l'autosufficienza agricola)
Nel 2021 le esportazioni di prodotti
agroalimentari hanno conosciuto un forte aumento che, unito
all'orientamento verso i prodotti made in Italy del consumatore
interno, hanno conseguito uno storico pareggio della bilancia
agroalimentare. Chi non consce le filiere agroalimentari potrebbe
ritenere che, al di là del dato economico, questi risultati possano
garantirci la sicurezza negli approvvigionamenti. Ma le cose non stanno
affatto così: il prodotto dell'agroalimentare italiano, specie se di
origine animale (ma il discorso vale anche per un prodotto simbolo come
la pasta) è ottenuto dalla trasformazione di derrate agricole
importate. L'autosufficienza alimentare è illusoria, è frutto
dell'esportazione di prodotti che hanno un valore aggiunto superiore ai
"prodotti base" di cui siamo deficitari. L'autosufficienza agricola,
che riguarda le derrate strategiche, ed è quella che determina la
sovranità alimentare è altra cosa. L'Italia continua nella sua
"battaglia del grano al contrario", con blandi provvedimenti sul
consumo di suolo e una politica "ambientalista" che incoraggia
l'avanzare del bosco e la proliferazione della fauna selvatica dannosa
per le coltivazioni e gli allevamenti. Continuiamo a subire una
politica agricola europea che, da una parte, incentiva l'agricoltura
intensiva, gli allevamenti che richiedono importazioni di soia e
cereali, dall'altra - per darsi una facciata green - incentiva il
sottoutilizzo dei pascoli e la "rinaturalizzazione" di quote di terreno
agricolo. L'implacabile burocratizzazione e la sempre crescente
pressione regolativa ammazzano l'agricoltura e l'allevamento su
piccola scala imponendo adempimenti che possono avere senso per le
grandi aziende. Nel mondo di oggi, però, con le prospettive di scontri
tra le potenze a colpi di forniture energetiche e agricole (vedi l'arma
dell'export di soia usata dagli Usa contro la Cina) ci si può
permettere di fare dei conti come se non ci fossero nubi all'orizzonte,
come se vivessimo in un mondo affratellato, senza confini, senza
conflitti?
Le utopie "internazionaliste" sono
servite a fare ingoiare a tanti paesi la rinunzia alla difesa del mondo
agricolo, la rinunzia della sovranità alimentare, ma si sono rivelate
una truffa che ha fatto delle multinazionali e delle grandi potenze i
"padroni del cibo". Hanno imposto soluzioni politiche in nome
dell'economia. In questo quadro la sovranità alimentare rischia di
essere solo uno dei
tanti slogan buonisti, sottoscritto anche da chi, in realtà, sostiene
le
politiche che la stanno ulteriormente cancellando. Troppi hanno paura
che, affermando il principio di un grado minimo di autosufficienza
nazionale per i prodotti agricoli, si venga assimilati ai
"sovranisti" (che parolaccia!).
In realtà l'esperienza del Covid ha
messo in evidenza non solo l'egoismo nazionale dei campioni di
europeismo ma anche la fragilità delle catene di approvvigionamento.
Logico sarebbe garantire obiettivi di autosufficienza anche a livello
locale (il "localismo" altra parloaccia per il mainstream prono alle
élites) che accorcino le catene garantendo fonti di approvvigionamento
quando tutto salterà (le famose "reti", i "sistemi esperti").
Al di là
della "scorta casalinga", dei tot kg di pasta e altri articoli
indispensabili che la prudenza ci spinge a tenerci in casa, sarebbe
opportuno poter contare su qualcosa di più. Dal piccolo orto famigliare
al campetto di patate e di fagioli si può arrivare (cooperando tra
famiglie e coinvolgendo piccolo coltivatori) ai campi di cereali.
Utilizzando il lavoro umano (attività da vedersi come benefica al pari
di quella sportiva, ma utile) e una piccola meccanizzazione dedicata
(vedi le piccole mietitrebbie asiatiche adatte per operare sulle
coltivazioni di riso terrazzate) i tanti spazi di una disordinata
urbanizzazione e quelli lasciati all'estensivizzazione o all'abbandono
della montagna e nelle aree rurali possono essere teatro di
un'agricoltura urbana-civica-sociale che può trovare senso e spazio
nelle periferie delle grandi città, nelle aree rurbane (le aree "nè
carne nè pesce" che non sono più agricole ma non sono neppure urbane e
dove comunque non si coltiva più la terra) e in quelle rimaste rurali
(Appennini, alcune aree alpine e prealpine). Oltre alla dimensione
dell' "agricoltura civica", comunque importante per garantire autonomia
alimentare a famiglie e comunità, l'obiettivo della sovranità agricola
va perseguito anche sul piano dell'agricoltura su piccola scala,
dell'agricoltura contadina, dell'agricoltura di montagna (delle piccole
aziende) che deve essere liberata da tutti gli adempimenti, regole,
inquadramenti che valgono per le attività agricole imprenditoriali
gestite con dipendenti e importanti fatturati. Queste forme di
agricoltura sono in grado di produrre anche prodotti animali
utilizzando le risorse foraggere (pascoli, prati stabili, erbai di
leguminose) in un contesto di reimpieghi circolari che riduce l'import
di soia e cereali e valorizza risorse che l' "ambientalismo" vorrebbe
trasformare in wilderness, sterile dal punto del vista del cibo.
Se, in passato, abbiamo sottolineato
l'importanza sociale di queste iniziative, cruciali anche per
ricostruire l'identità delle comunità e riattivare relazioni sociali
(vedi la pagina Cibi
di comunità qui su Ruralpini), oggi l'obiettivo di un'autonomia
alimentare assume anche connotati più chiaramente politici. Troppo
scoperta è ormai la strategia del controllo delle risorse alimentari
che non si limita più a soggiogare l'agricoltura all'industria e al
grande commercio ma che punta apertamente a produrre cibo prescindendo
dalla terra (vertical
farms) e dagli animali (vedi la carne sintetica).
In attesa che, sulla scorta dei "social credits" cinesi, venga
applicato un punteggio per l'accesso al cibo, il food pass, con
il quale se non ti comporti come vogliono le élite, il bravo schiavo
ubbidiente, avrai solo... farina di insetti e alghe (e non ci sarà
nessuna borsa nera, nessuna scappatoia, perché la tecnologia non
concede scampo).