(16.09.10) Dopo
aver munto da mamma Provincia autonoma altri soldi per
rinnovare l'impianto dele mozzarelle (che diventavano
blu) l'annuncio shock della chiusura dello storico caseificio
trentino
Fiavé
chiude, in nome delle 'economie di scala'
Il
modello agrindustrialista trentino non aiuta i produttori
agricoli ma ha divorato ingenti risorse pubbliche. La
sua crisi non conosce pause. Dopo il crack di La
Vis con la fusione con Cavit arriva l'annuncio
della chiusura del caseificio di Fiavé.
Ultimo atto di un'agonia durata anni
di
Michele Corti
Al caseificio di Fiavé ai primi
di agosto riprendeva la produzione delle mozzarelle.
La linea di lavorazione era stata interrotta perché le
mozzarelle diventavano blu ( vedi
articolo ).
Per rinnovare gli impianti 'colpevoli' delle contaminazioni
erano stati fatti degli investimenti (coperti
per 250 mila € dalle elargizioni della solita mamma
provincia). Ora arriva l'annuncio shock chiusura
dello storico caseificio. A farlo è lo stesso
stesso Sergio Paoli, super direttore 'unificato' del
Polo Bianco, mica illazioni o chiacchere da bar.
Qualcuno intanto si è chiesto
se una decisione di una tale portata si sia potuta prendere
nel giro di poche settimane e che senso abbia avuto
rinnovare l'impianto della mozzarella se era già
stata decisa la chiusura. Misteri trentini. Roberto
Bombarda, consigliere dei Verdi in provincia ha anche
presentato un'interrogazione che, oltre alla preoccupazione
per i post di lavoro, solleva anche la questione dei
tanti soldi spesi per salvare delle strutture produttive
che ora vengono semplicemente azzerate.
Una
crisi che dura da anni
Da anni la vita del grande impianto
di Fiavé era travagliata (vedi anche gli articoli
correlati) . Erano stati accumulati 50 milioni di debiti,
non solo in relazione all'impianto produttivo principale
(di Fiavé) ma anche alle operazioni delle 'filiali',
prima tra tutte quella della produzione di yogurt di
Villa Lagarina della ex Sav-latte. Il fallimento del
caseificio Fiavé-Pinzolo-Rovereto era stato evitato
con iniezioni di capitali della Federazione cooperative
(coop fidi) e della Provincia.
Alla 'ristrutturazione finanziaria'
era seguito il programma di fusione societaria
con Latte Trento in nome della creazione del 'Polo Bianco'.
Una fusione ormai 'digerita' che ha comportato per i
soci di Fiavé l'accettazione di un prezzo del
latte (38 cent.) inferiore di 2,5 cent. di quello riconosciuto
ai colleghi che conferiscono a Latte Trento. Ma
la fusione non prevedeva di certo la chiusura degli
impianti.
In queste traversie diversi soci
anche importanti hanno abbandonato la nave che affondava
conferendo il latte a privati (società venete)
o mettendosi a caseificare in proprio. Un elemento che
ha aggravato la crisi del caseificio.
Ora l'annuncio della chiusura del
grande impianto di Fiavé conosciuto ben oltre
i confini del Trentino e protagonista di una lunga storia
che nasce con le latterie turnarie di fine ottocento
(la sede della latteria, sorta nel 1892, era nella
piazza del paese, dove ora sorge il municipio). Forse
l'apice della sua parabola il caseificio di Fiavé
l'ha conosciuto vent'anni fa, quando è stata
realizzata la sede attuale. Poi con le fusioni e le
trasformazioni della realtà dei mercati
è iniziata la fase del declino contrastata senza
grande lungimiranza da forti iniezioni di risorse pubbliche.
Una politica che si spiega solo alla luce del forte
intreccio tra politica e vertici del sistema cooperativo
in un quadro di una rigida organizzazione del consenso
(con un deficit di 'democrazia di base' molto più
drammatico che nelle regioni 'ordinarie' prive dei privilegi
- a doppio taglio - dell'autonomia vedi
articolo)
Un
simbolo negativo
La chiusura del caseificio di Fiavé,
ormai certa, non è però immediata. Prima
verrà concentrata a Trento la produzione dello
yogurt. Si tratta della produzione di quell'impianto
di Villa Lagarina che ha contibuito al tracollo
del complesso Fiavé-Pinzolo-Rovereto. Resterebbe
in vita solo il caseificio di Pinzolo specializzato
in 'nicchie' (Trentingrana bio, Spressa).
Per giustificare l'operazione (ma
non era più onesto dichiararla subito in sede
di fusione?) la dirigenza - ormai unica - della Latte
Trento parla della necessità di 'economie
di scala' e scopre che 'costa meno trasportare il latte
che tenere accese le caldaie'.
Forse è un occasione per
parecchi allevatori per passare alla trasformazione
aziendale o per ripartire dove si era cominciato un
secolo fa: con i caseifici di 'prossimità': latterie
di paese legate a un concetto di filera corta e di rapporto
di fiducia con il consumatore. Allora sì che
il consumatore trentino comprerebbe trentino come auspicato
da una grande campagna pubblicitaria lanciata, con la
solita dovizia di mezzi, lo scorso anno
(vedi
articolo)
Un'occasione per chiarire che se
la corsa alla concentrazione non ha fine e se ogni identità
produttiva locale deve essere annullata tanto vale
creare un unico caseificio a Bolzano.
Con Fiavé crolla anche un
simbolo negativo perché la presenza del grande
impianto (sproporzionato rispetto alla localizzazione
in una valle di montagna) aveva indotto la crescita
di un sistema zootecnico abnorme super-intensivo a Fiavé
e nei comuni limitrofi. Basta guardare le mappe satellitari
google per notare come almeno 5 stalle da latte intensive
(con grandi 'trincee' di insilato di mais) assedino
da presso il centro del paese. Poi vi sono altre stallone
a Lomaso e a Bleggio (comuni limitrofi). Erano stalle
che non avevano superfici sufficienti per l'utilizzo
agronomicamente corretto delle enorme quantità
di liquami prodotti. Ne soffrivano l'olfatto degli
abitanti ma anche i corpi d'acqua. Un corollario era
(è) costituito dagli erbicidi spruzzati a ridosso
delle case di abitazione e della famosa torbiera delle
palafitte (il WWF, da noi interpellato in proposito,
ha addotto cavilli burocratici relativi al tipo di area
protetta per giustificare l'assenza di interventi).
La chiusura del caseificio che aveva innescato questo
sviluppo perverso indurrà un ripensamento negli
allevatori? Crediamo di si anche perché la crisi
del caseificio e l'insulto dei 2,5 cent in meno rispetto
ai soci di Latte Trento avevano indotto già diversi
soci conferentri della zona a mettersi in proprio, bandire
il silomais, puntare alla qualità, alle razze
a duplice attitudine (al posto delle Frisone spinte).
La beffa del leasing
Gli impianti vengono chiusi e che
ne sarà del grande caseificio di Fiavé?
La coop era stata salvata ristrutturando il debito ovvero
utilizzando 30 milioni di euro gentilmente concessi
dalla Federazione e da mamma PAT in cambio dei fabbricati
(poi riconsegnati alla coop a titolo di leasing gratuito).
Ora i 'salvatori' si trovano in mano un pugno di mosche
perché non è facile trovare una nuova
destinazione per i giganteschi immobili in
un paesino come Fiavé. Quale altra grande azienda
si potrebbe insediare qui. E a fare cosa? In ogni
caso non sarebbe certo disposta a pagare il fabbricato,
nato come caseificio, al prezzo valutato nell'ambito
dell'operazione di salvataggio. Che così appare
quello che è: un bel po' di milioni (in
gran parte, direttamente o indirettamente, riconducibili
a 'pantalone') gettati in un pozzo nero. Ma forse
il 'gigante' potrebbe avere una sua destinazione (parliamo
della scatola, delle strutture edilizie).
I
sogni concreti e i concreti sperperi (del denaro altrui)
Chi non riesce a ragionare, se
non in termine di monocolture agricole e della mente,
si dispera pensando al gigante inutile, al caseificio
destinato a chiudere. Nel nostro articolo del 20.08.08
avevamo ipotizzato che 'gli immobili del caseificio
a qualcosa potrebbero servire'.
La strada da seguire sarebbe quella della differenziazione produttiva e del biologico puntando a produzioni caratterizzate per il loro legame con la montagna (cereali minori, ortaggi, frutta). A Fiavè erano famosi I fagioli e le favorevoli condizioni agronomiche potrebbero consentire al piccolo altopiano protetto dalle montagne da ogni lato di presentarsi come un distretto di agricoltura di qualità e bio. I mercati del vicinissimo bacino turistico del Garda, di Comano, Ponte Arche potrebbero assorbire senza difficoltà produzioni differenziate e con elevato valore aggiunto grazie alla trasformazione artigianale locale (gli immobili del caseificio a qualcosa potrebbero tornare a servire!). Ci sarebbe in più un indotto e un flusso turistico attratto dall'immagine di un "altopiano biologico" e dalla possibilità di incanalare parte della produzione nei "centri benessere" della zona che rispondeono all'esigenza di un segmento in espansione del mercato turistico. In zona si aprirebbero possibilità di occupazione qualificata non solo nel settore della produzione agricola e alimentare ma anche dell'ospitalità turistica e dei servizi. In zona c'è la torbiera con il sito palafitticiolo più importante delle Alpi meridionali (oggi a pochi passi si distribuiscono pesticidi come documentato a fianco), castelli, pievi, bellissime case rurali che contrastano con la squallida architettura zootecnica, la plastica, i copertoni usati, le selve di silos di mangime del paesaggio "agricolturale" (non "rurale" per favore) del Lomaso-Fiavè. Vi sono bellissimi itinerari ciclabili e Rango "uno dei borghi più belli d'Italia".
La prospettiva di uno sviluppo
diverso per la valle non era frutto delle mie personali
elecubrazioni ma del movimento spontaneo sorto a Fiavé
contro il progetto della maxi-centrale a biogas (movimento
poi organizzatosi nel CIGE - Comitato iniziative Giudicarie
esteriori). La 'soluzione' biogas, ovvero centrale coproelettrica
(con ampia 'digestione' oltre all'acquoso liquame del
nobile letame, di patate, mais e 'scarti verdi'),
avrebbe perpetrato il modello monocoltura mais-
zootecnia super-intensiva - produzione casearia di scarsa
qualità (il tutto con contormo di impatto ambientale
negativo e di disincentivazione del turismo). Già
allora (siamo nel 2007-2008) il CIGE denunciava che
il caseificio era in profonda crisi e sosteneva che
aggiungere errori ad errori era una follia. I politici
e gli amministratori allora facevano spallucce. Ci
davano dei talebani e sognatori. Ma di concreto i super
manager e i super politici trentini (Dellai dice che
la definizione di 'provincia' per il Trentino è
riduttiva) hanno accumulato (almeno in campo agricolo)
grandi fallimenti e dissipato grandi risorse. Risorse
che provengono dai privilegi di un'autonomia tutta sui
generis (una rendita di posizione geo-politica parassitaria
che si regge sulla farsa della regione fantasma Trentino-Alto
Adige) e, in concreto, dalle tasche dei
contribuenti lombardi, veneti e piemontesi.
Venissero tutti dalle tasche degli
elettori trentini sarebbero spesi meglio. Con beneficio
per i trentini (e gran dispiacere della casta).
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