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Fiavé chiude, in nome delle 'economie di scala'

 

Il modello agrindustrialista trentino non aiuta i produttori agricoli ma ha divorato ingenti risorse pubbliche. La sua crisi non conosce pause. Dopo il crack di La Vis con la fusione con Cavit  arriva l'annuncio della chiusura del caseificio di Fiavé. Ultimo atto di un'agonia durata anni

 

di Michele Corti

 

 

Al caseificio di Fiavé ai primi di agosto riprendeva la produzione delle mozzarelle. La linea di lavorazione era stata interrotta perché le mozzarelle diventavano blu ( vedi articolo ). Per rinnovare gli impianti 'colpevoli' delle contaminazioni  erano stati fatti degli investimenti (coperti per 250 mila € dalle elargizioni della solita mamma provincia). Ora  arriva l'annuncio shock chiusura dello storico caseificio. A farlo è lo stesso stesso Sergio Paoli, super direttore 'unificato' del Polo Bianco, mica illazioni o chiacchere da bar.

Qualcuno intanto si è chiesto se una decisione di una tale portata si sia potuta prendere nel giro di poche settimane e  che senso abbia avuto rinnovare l'impianto della mozzarella se era già stata decisa la chiusura. Misteri trentini. Roberto Bombarda, consigliere dei Verdi in provincia ha anche presentato un'interrogazione che, oltre alla preoccupazione per i post di lavoro, solleva anche la questione dei tanti soldi spesi per salvare delle strutture produttive che ora vengono semplicemente azzerate.

 

 

Una crisi che dura da anni

 

Da anni la vita del grande impianto di Fiavé era travagliata (vedi anche gli articoli correlati) . Erano stati accumulati 50 milioni di debiti, non solo in relazione all'impianto produttivo principale (di Fiavé) ma anche alle operazioni delle 'filiali', prima tra tutte quella della produzione di yogurt di Villa Lagarina della ex Sav-latte. Il fallimento del caseificio Fiavé-Pinzolo-Rovereto era stato evitato con iniezioni di capitali della Federazione cooperative (coop fidi) e della Provincia.

Alla 'ristrutturazione finanziaria' era seguito il programma di fusione societaria con Latte Trento in nome della creazione del 'Polo Bianco'. Una fusione ormai 'digerita' che ha comportato per i soci di Fiavé l'accettazione di un prezzo del latte (38 cent.) inferiore di 2,5 cent. di quello riconosciuto ai colleghi che conferiscono a Latte Trento.  Ma la fusione non prevedeva di certo la chiusura degli impianti.

In queste traversie diversi soci anche importanti hanno abbandonato la nave che affondava conferendo il latte a privati (società venete) o mettendosi a caseificare in proprio. Un elemento che ha aggravato la crisi del caseificio.

Ora l'annuncio della chiusura  del grande impianto di Fiavé conosciuto ben oltre i confini del Trentino e protagonista di una lunga storia che nasce con le latterie turnarie di fine ottocento (la sede della latteria, sorta nel 1892,  era nella piazza del paese, dove ora sorge il municipio). Forse l'apice della sua parabola il caseificio di Fiavé l'ha conosciuto vent'anni fa, quando è stata realizzata la sede attuale. Poi con le fusioni e le trasformazioni della realtà dei mercati è iniziata la fase del declino contrastata senza grande lungimiranza da forti iniezioni di risorse pubbliche. Una politica che si spiega solo alla luce del forte intreccio tra politica e vertici del sistema cooperativo in un quadro di una rigida organizzazione del consenso (con un deficit di 'democrazia di base' molto più drammatico che nelle regioni 'ordinarie' prive dei privilegi - a doppio taglio - dell'autonomia  vedi articolo)

 

Un simbolo negativo

 

La chiusura del caseificio di Fiavé, ormai certa, non è però immediata. Prima verrà concentrata a Trento la produzione dello yogurt. Si tratta della produzione di quell'impianto di Villa Lagarina che ha contibuito al tracollo del complesso Fiavé-Pinzolo-Rovereto. Resterebbe in vita solo il caseificio di Pinzolo specializzato in 'nicchie' (Trentingrana bio, Spressa).

Per giustificare l'operazione (ma non era più onesto dichiararla subito in sede di fusione?) la dirigenza - ormai unica - della Latte Trento parla della necessità di 'economie di scala' e scopre che 'costa meno trasportare il latte che tenere accese le caldaie'.

Forse è un occasione per parecchi allevatori per passare alla trasformazione aziendale o per ripartire dove si era cominciato un secolo fa: con i caseifici di 'prossimità': latterie di paese legate a un concetto di filera corta e di rapporto di fiducia con il consumatore. Allora sì che il consumatore trentino comprerebbe trentino come auspicato da una grande campagna pubblicitaria lanciata, con la solita  dovizia di mezzi,  lo scorso anno (vedi articolo)  

Un'occasione per chiarire che se la corsa alla concentrazione non ha fine e se ogni identità produttiva locale deve essere annullata tanto vale creare un unico caseificio a Bolzano.

Con Fiavé crolla anche un simbolo negativo perché la presenza del grande impianto (sproporzionato rispetto alla localizzazione in una valle di montagna) aveva indotto la crescita di un sistema zootecnico abnorme super-intensivo a Fiavé e nei comuni limitrofi. Basta guardare le mappe satellitari google per notare come almeno 5 stalle da latte intensive (con grandi 'trincee' di insilato di mais) assedino da presso il centro del paese. Poi vi sono altre stallone a Lomaso e a Bleggio (comuni limitrofi). Erano stalle che non avevano superfici sufficienti per l'utilizzo agronomicamente corretto delle enorme quantità di liquami prodotti. Ne soffrivano l'olfatto degli abitanti ma anche i corpi d'acqua. Un corollario era (è) costituito dagli erbicidi spruzzati a ridosso delle case di abitazione e della famosa torbiera delle palafitte (il WWF, da noi interpellato in proposito, ha addotto cavilli burocratici relativi al tipo di area protetta per giustificare l'assenza di interventi). La chiusura del caseificio che aveva innescato questo sviluppo perverso indurrà un ripensamento negli allevatori? Crediamo di si anche perché la crisi del caseificio e l'insulto dei 2,5 cent in meno rispetto ai soci di Latte Trento avevano indotto già diversi soci conferentri della zona a mettersi in proprio, bandire il silomais, puntare alla qualità, alle razze a duplice attitudine (al posto delle Frisone spinte).

 

La beffa del leasing

 

Gli impianti vengono chiusi e che ne sarà del grande caseificio di Fiavé? La coop era stata salvata ristrutturando il debito ovvero utilizzando 30 milioni di euro gentilmente concessi dalla Federazione e da mamma PAT in cambio dei fabbricati (poi riconsegnati alla coop a titolo di leasing gratuito). Ora i 'salvatori' si trovano in mano un pugno di mosche perché non è facile trovare una nuova destinazione per i giganteschi immobili in un paesino come Fiavé. Quale altra grande azienda si potrebbe insediare  qui. E a fare cosa? In ogni caso non sarebbe certo disposta a pagare il fabbricato, nato come caseificio, al prezzo valutato nell'ambito dell'operazione di salvataggio. Che così appare quello che è: un bel po' di milioni  (in gran parte, direttamente o indirettamente, riconducibili a 'pantalone') gettati in un pozzo nero. Ma forse il 'gigante' potrebbe avere una sua destinazione (parliamo della scatola, delle strutture edilizie).

 

I sogni concreti e i concreti sperperi (del denaro altrui)

 

Chi non riesce a ragionare,  se non in termine di monocolture agricole e della mente, si dispera pensando al gigante inutile, al caseificio destinato a chiudere. Nel nostro articolo del 20.08.08  avevamo ipotizzato che 'gli immobili del caseificio a qualcosa potrebbero servire'.

La strada da seguire sarebbe quella della differenziazione produttiva e del biologico puntando a produzioni caratterizzate per il loro legame con la montagna (cereali minori, ortaggi, frutta). A Fiavè erano famosi I fagioli e le favorevoli condizioni agronomiche potrebbero consentire al piccolo altopiano protetto dalle montagne da ogni lato di presentarsi come un distretto di agricoltura di qualità e bio. I mercati del vicinissimo bacino turistico del Garda, di Comano, Ponte Arche potrebbero assorbire senza difficoltà produzioni differenziate e con elevato valore aggiunto grazie alla trasformazione artigianale locale (gli immobili del caseificio a qualcosa potrebbero tornare a servire!). Ci sarebbe in più un indotto e un flusso turistico attratto dall'immagine di un "altopiano biologico" e dalla possibilità di incanalare parte della produzione nei "centri benessere" della zona che rispondeono all'esigenza di un segmento in espansione del mercato turistico. In zona si aprirebbero possibilità di occupazione qualificata non solo nel settore della produzione agricola e alimentare ma anche dell'ospitalità turistica e dei servizi. In zona c'è la torbiera con il sito palafitticiolo più importante delle Alpi meridionali (oggi a pochi passi si distribuiscono pesticidi come documentato a fianco), castelli, pievi, bellissime case rurali che contrastano con la squallida architettura zootecnica, la plastica, i copertoni usati, le selve di silos di mangime del paesaggio "agricolturale" (non "rurale" per favore) del Lomaso-Fiavè. Vi sono bellissimi itinerari ciclabili e Rango "uno dei borghi più belli d'Italia".

 

La prospettiva di uno sviluppo diverso per la valle non era frutto delle mie personali elecubrazioni ma del movimento spontaneo sorto a Fiavé contro il progetto della maxi-centrale a biogas (movimento poi organizzatosi nel CIGE - Comitato iniziative Giudicarie esteriori). La 'soluzione' biogas, ovvero centrale coproelettrica (con ampia 'digestione' oltre all'acquoso liquame del nobile letame, di patate, mais e 'scarti verdi'),  avrebbe perpetrato il modello monocoltura mais- zootecnia super-intensiva - produzione casearia di scarsa qualità (il tutto con contormo di impatto ambientale negativo e di disincentivazione del turismo). Già allora (siamo nel 2007-2008) il CIGE denunciava che il caseificio era in profonda crisi e sosteneva che aggiungere errori ad errori era una follia. I politici e gli amministratori allora facevano spallucce.  Ci davano dei talebani e sognatori. Ma di concreto i super manager e i super politici trentini (Dellai dice che la definizione di 'provincia' per il Trentino è riduttiva) hanno accumulato (almeno in campo agricolo) grandi fallimenti e dissipato grandi risorse.  Risorse che provengono dai privilegi di un'autonomia tutta sui generis (una rendita di posizione geo-politica parassitaria che si regge sulla farsa della regione fantasma Trentino-Alto Adige) e, in concreto, dalle tasche dei contribuenti lombardi, veneti e piemontesi.

Venissero tutti dalle tasche degli elettori trentini sarebbero spesi meglio. Con beneficio per i trentini (e gran dispiacere della casta).

 

 

 

 

 

              

 

 

pagine visitate dal 21.11.08

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