(30.10.09)
Alpi centro-occ. Giacimenti gastronomici ancora inesplorati
Le
tradizioni casearie contadine, specie quelle
basate sul latte ovicaprino e i prodotti
di piccola pezzatura, sono ancora poco conosciute
e tanto meno valorizzate. Ma come tante
cose ignorate e disprezzate gli 'umili'
formaggini 'nostrani' delle 'umili' capre
e pecore oggi incontrano il gusto del consumatore
leggi
tutto
(06.09.10) Missaglia (LC). La Brianzola vuole riscoprire la vocazione lattifera
Nel parco di Montevecchia la pecora Brianzola ha trovato un ambiente ideale. Ora, grazie all'entusiasmo di Marco Frison, un allevatore ventenne, e di Pasquale Redaelli, presidente dell'Associazione della pecora Brianzola, si sta mettendo a punto un progetto per affiancare alla produzione di carne (e di lana) quella del latte. E' un recupero storico perché i famosifurmagittdi Montevecchia erano prodotti con latte ovino e la Brianzola viene ricordata come una pecora piuttosto lattifera. E'anche una conferma che l'agricoltura multifunzionale, potendo contare su animali multifunzionali, può essere vitale anche nella superurbanizzata Brianza.leggi tutto
(15.07.10) I furmagittde cavra del Miro (a Sala Comacina)
Nel
viaggio tra i formaggini di capra 'autoctoni
dell'Insubria proponiamo un fotoracconto
'storico' (realizzato nel marzo 2001, sui
muunt di Palese a 670 m). Protagonista
Miro Puricelli, classe 1913, un 'monumento
vivente' ruralpino e un archivio della memoria.
Con ricetta per i formaggini ma anche quella
(più preziosa e rara) per fare il caglio
di capretto. vai
a vedere
(18.03.10) Due appuntamenti per lo stracchino storico
Due distinti appuntamenti segnano un momento d'oro per l'auspicabile rilancio dello stracchino tradizionale. Capostipite 'tradito' di tanta produzione industriale (molto diversa dagli originali) ma anche radice da ritrovare della cultura casearia lombarda.
Il primo è l'incontro di presentazione del Presidio Slow Food dello 'stracchino all'antica' orobico (sabato 20 a Milano), il secondo la serata sulla 'Civiltà degli stracchini: la matrice alpina del caseificio lombardo' organizzata a Cernusco s/N (mercoledi 24) da Rievoca-Prodotti di montagna con la collaborazione di Slow Food Vallo Orobiche, Amamont, e Marco Imperiali, maestro assaggiatore Onaf leggi tutto
Lombardia
(Varese)
(28.08.09)
Nella montagna varesina rilancio di radicate
tradizioni di trasformazione del latte caprino
Nella montagna varesina ci
sono paesini abitati tutto l'anno dove tutt'oggi
non si arriva nemmeno con il fuoristrada.
Qui la gente non ha mai abbandonato l'allevamento
della capra che, insieme alla castagna,
rappresentava la base della sussistenza.
Grazie all'impegno della Provincia di Varese
i caratteristici prodotti caprini
di queste valli (Veddasca e Dumentina) sono
in fase di riconoscimento quali 'Prodotti tradizionali'
della Regione Lombardia. Nella prospettiva di valorizzare
al meglio la risorsa del turismo gastronomico quale
condizione di sviluppo di questo bellissimo
territorio. leggi
tutto
IL
FORMAGGIO DETTO "REBBIOLA"
da:
Giuseppe Cornaggia, Il formaggio detto "Rebbiola",
: L'industria del latte, 2, 1904, (21) pp.
61-64.
Presso
il caseificio dalle malghe alpine e del piano è
assai noto una specie di formaggio a pasta molle, di
piccole dimensioni, chiamato Rebbiola.
Esso
viene fabbricato specialmente da coloro che lavorano
piccole quantità di latte; è un prodotto
di caseificio domestico che permette di utilizzare le
più piccole quantità di latte. É un
articolo questo che vien consumato nel piccolo ambito
dove si produce, e forse per ciò passa inosservato
alla maggior parte degli autori della partita.
La
sua fabbricazione è semplicissima: non richiede
istrumenti propri di caseificio, qualsiasi recipiente
si fa servire, non esige tante cure riguardo alla sua
maturazione che è assai rapida. Generalmente
si fa con latte scremato dopo 12 ore di affioramento;
la forma è circolare, piuttosto bassa, il peso
di ogni forma è mediamente di un chilo, se ne
fanno anche di più piccole a seconda della quantità
di latte e a seconda dei gusti.
La
pasta di questo formaggio è di un aspetto lardaceo,
di sapore piuttosto salato e piccante; appena fatta
è molto ricca di acqua, poi maturando si essica
con abbastanza rapidità.
Da
alcuni si fa con latte tutto intero e anche con latte
ingrassato con panna e si confezionano delle forme piccole
di prontissima maturazione, che mature sono assai delicate
e piacevoli al gusto, ed entrano nella categoria dei
formaggini dì lusso, nell'industria e nel commercio
dei quali la ditta Gralbani si è fatta tanto
buon nome.
Ma
la proprietà caratteristica di questo formaggio
è la rapidità della maturazione. Nella
stagione più propizia, che è il settembre-ottobre,
dopo dieci o quindici giorni al massimo della sua fabbricazione
esso è proiao al consumo; in questo è
superiore al quartirolo ed alla crescenza, che pure
vengono considerati come formaggi dei più pronti.
Non
abbiamo dati per stabilire se anche in questi formaggi
la maturazione è accompagnata da una trasformazione
radicale della caseina, per la quale essa diventa solubile
e facilmente assimilabile. È lecito però
supporre che la trasformazione biochimica della loro
pasta dovrebbe essere assai viva ed accelerata se in
pochi giorni basta a modificarne la proprietà.
Anche
nei dettagli della fabbricazione la Rebbiola
differisce da quella del quartirolo e della crescenza.
Il latte si porta alla temperatura di 32° 34°e
si dà il caglio; la coagulazione deve avvenire
piuttosto lentamente, in mezz'ora circa, quindi il caglio
si regola proporzionatamente a questo tempo e alla quantità
di latte da coagulare. Avvenuta la coagulazione
si rompe colla pannarola a fette in senso longitudinale,
poi si dà un quarto d'ora di riposo e si rompe
del tutto la cagliata fino alla grossezza delle nocciuole
circa; nella stagione fredda conviene tenere coperto
il recipiente con un panno perchè non si abbassi
troppo la temperatura, cìò che determinerebbe
una cagliata troppo fiacca; rotta la cagliata si lascia
in riposo: il coagulo va al fondo; dopo mezz'ora circa
si leva un po' di siero e oi la cagliata, la quale si
suddivide in forme speciali a forma cilindrica dell'altezza
di 15, 20 centimetri, con tre fori al fondo che nel
gergo si dicono garrotole. A seconda della grossezza
dei formaggi si prendono anche le garrotole (che
sono messe in vendita dai tornitori in legno) e così
si hanno garrottole per forme da 1/4, da 1/2
e da un chilo. Nella garottola la caglíata
subisce un primo spurgo dal siero, che scola dai fori
che sono sul fondo dell'asse, Dopo cinque o sei ore
si toglie dalla garrottola e si mette a sgocciolare
sulla paglia disposta su un tavolo un po' inclinato
e vi si lascia fino a quando la pasta comincia a diventare
bianca; di solito occorrono da due a tre giorni a seconda
della stagione; allora si sala con sale fino da una
faccia, e dopo 24 ore dalla faccia opposta. La salatura
sarà piuttosto abbondante. Dopo di che si lascia
a stagionare per il che tutti i locali sono adatti ;
e nella stagione buona, in capo a 10 giorni, il
formaggio è pronto al consumo. Altrimenti si
richiedono parecchi giorni di più.
I
limitì di rendimento in rebbiola sono assai vari; può dare da 8 a 10 Kg per o/o di latte
alla maturazione e dalla ricchezza del latte in grasso.
Quello fabbrícato con latte scremato da 12 ore
di affioramento si vende al dettaglio ad un prezzo che
varia da L. 0,70 a L. 1,00 al kg.
Ma
i formaggi di questo tipo a base di latte intero e anche
ingrassati artificialmente, che tanto incontrano i buon
gustai, potrebbero formare oggetto di una larga e molto
rimunerativa industria, perchè molto più
duri della crescenza si prestano assai più facilmente
ai trasporti e potrebbero trovare larga diffusíone
all'estero e assai più in Italia.-
La
ditta Galbarni, che credo unica in Italia, fa già
largo smercio di questi formaggini di lusso da 1/4,
da 1/2 chilo fino a un chilo, per tutta l'alta
Italia; io credo che questa industria potrebbe
estendersi deviando quantità noti trascurabilidi latte dalla fabbricazione dei formaggi cotti da condimento
e da tavola.
(30.12.10) La valorizzazione delle produzioni tradizionali
deve uscire dal confusionismo. La cultura casearia esige
la sua 'paleontografia' e 'filologia'. E nel passato
possiamo trovare tante risorse utili per il presente
Le
rebbiole: formaggi da riscoprire
(in
chiave ovicaprina)
Proseguiamo
le nostre indagini alla riscoperta delle radici alpine
e ovicaprine del caseificio lombardo e piemontese. Radici
più profonde e più estese di quanto si
pensi.
di Michele Corti
Pantaleone
da Confienza nella sua Summa latticinorum (edita
a Torino nel 1477) cita il "Formaggio della Morra"
chiarendo che questi formaggi "si chiamano robiole
e sono piccoli". La loro area di produzione la
colloca nelle terre "del Marchese del Monferrato
e da Cerretto e Ceva" e "si mangiano più
volentieri dopo sei oppure otto mesi di stagionatura".
Cerretto è nelle Langhe (non distante da
Roccaverano), Ceva è nella Val Tanaro e i suoi
formaggi erano stati lodati nientemeno che da Plinio
il Vecchi nella sua Naturalis Historia (I secolo
d.C.).
Robiole...
meglio di capra
Quanto
al latte di provenienza Pantaleone precisa: "Si
fanno per lo più con latte di pecora, anzi si
chiamano propriamente robiole quando si ricavano dal
latte di capra. Alcuni tuttavia lo tagliano aggiungendo
latte di mucca". Già nel XV secolo quindi
"robiole" e, soprattutto, "robiolini"
sono spesso sinonimo di "caprini". E
già allora era praticato il 'taglio' con latte
vaccino. Pantaleone non aggiunge molte altre notizie
"Siccome questi formaggi sono piccoli, anche
se buoni" (evidentemente era più interessato
ai formaggi che, in ragione delle grosse dimensioni,
potevano essere oggetto di commercio a lunga distanza).
Ci tiene, però a precisare che se
ne producono di buoni anche nella sua Lomellina.
La
scena di mungitura e lavorazione del latte nell'affresco
con il sogno dell'angelo di S.Gioacchino (foto M. Corti)
Un
documento molto interessante sulla produzione del formaggio
di capra è rappresentato dagli affreschi, di
stile molto originale, di Giovanni Mazzucchi, realizzati
nel 1471, non molti anni dopo il trattato di Pantaleone.
Gli affreschi, che costituiscono un ciclo della vita
della Madonna, ornano le pareti del Santuario del
Brichetto dedicato alla Madonna dell'Assunta che sorge
su una collinetta appena fuori dall'abitato di Morozzo.
Il
Santuario del Brichetto a Morozzo (Cn) (www.morozzo.org)
Gli
affreschi - che meritano una visita - costituiscono
un interessante spaccato di vita pastorale dei tempi:
si osservano dei grossi cani molossi con collari anti-lupo
irti di aculei di ferro, pastori che suonano la cornamusa
e armati di lancia, ma ciò che ci interessa maggiormente
è la scena di mungitura e lavorazione del latte
di capra.
Il
S. Gioacchino padre di Maria riceve in sogno la visita
dell' angelo. La scena ritrae la Val Pesio a N
di Morozzo che si trova in pianura sulle rive del Pesio (foto
M.Corti)
Il
gregge raffigurato comprende capre e pecore. Il latte
sarà stato mescolato? Di fatto l'artista ritraendo
la mungitura delle capre ha certo inteso sottolineare
l'importanza di queste ultime per la produzione del
formaggio. Quello che è certo è che nel
medioevo dalle valli scendevano per svernare nella pianura
padana grossi greggi misti di capre e di pecore da latte
(Agnelli, 1866; Besana, 1939; Menant, 1993). Il formaggio
veniva venduto e in parte serviva per pagare le tasse
di pascolo.
Miniatura del
famoso Theatrum Sanitatis (Codice 4182 della Biblioteca Casanatense di Roma), ambiente padano della fine del XIV secolo. La raffigurazione evidenzia il contesto dell’allevamento pastorale dell’epoca. La pecora è identificabile con l’attuale razza Bergamasca-Biellese in relazione alla caratteristica
morfologia del padigliore auricolare (i uregiatt,
detto in altri termini)
La
capra ha 'tenuto' in Lombardia e in Piemonte, la pecora
si è 'rifugiata' nel Piemonte Sud-occidentale
Le
tecniche di caseificazione erano le stesse utilizzate
in montagna in un contesto che anche in pianura ha mantenuto
a lungo, almeno il alcune zone, un connotato pastorale
come mostra l'arazzo cinquecentesco sotto raffigurato.
Qui, però, c'è una differenza: al posto
delle pecore troviamo le vacche. Con questo non si vuol
affermare che le pecore spariscono del tutto. Sia nel
cuneese che lella Langa la tradizione dell'utilizzo
del latte ovino non è mai cessata. In Lombardia
la pecora Bergamasca e la Brianzola sono state munte
sino a secolo XX inoltrato e anche su alcuni alpeggi
valtellinesi si mungevano pecore locali. In compenso
in Lombardia sulle Alpi Orobiche ma anche sul Lario,
in Valchiavenna in Val Saviore, nelle valli varesine le
capre non hanno mai ceduto il campo neppure quando
sono infuriate le peggiori 'guerre alle capre'. E il
'revival' della capra alla fine degli anni '70 (post
sessantotto) si è innestato su un tronco che
non era mai seccato.
Arazzo della
serie dei mesi del Baciacchia (secolo XVI) di ambiente
oltrepadano. É un chiaro contesto di transumanza
Ma
restiamo ancora un attimo al medioevo. Il Besana (A. Besana, L'agro laudense, Lodi, 1930), che
riferisce della 'calata dei montanari nell'agro lodigiano'
tra il XII-XIII secolo parla - peccato che non citi
le fonti - della fabbricazione di formaggi misti di
capra e pecora: robiolini a forma di cilindretto,
robiole a forma di focaccia:
"I malghesi fabbricavano piccoli formaggi molli a forma di cilindretto (robiolino) oppure a focaccia (robiola) col latte di pecora e di capra. Col tempo queste robiole si fecero col latte di capra e di bovina. Così pure - ma la storia non è precisa - furono questi malghesi a fabbricare per primi la crescenza o 'carsenza'; stracchino molle di forma quadrata che si mangia dopo quindici giorni o venti di magazzino." p. 33
Robiolini
e stracchini di capra: molto apprezzati nel XIX secolo
Facciamo
un salto al XIX secolo. Nella 'Corografia fisica,
storica e statistica d'Italia' del 1840 Vol VII
del Zuccagni-Orlandini a p. 348 leggiamo a proposito
del Canton Ticino che:
"[...]
la razza caprina è invece propagata anche di troppo: basti il dire che ivi se ne contano oltre ai 60,000 capi. Col latte di tali mandri si prepara, ma in poca quantità,un formaggioricercato da alcuni per la piccante sua sapidezza: sulle pendici del Camoghè e del Generoso, ed altrove ancora, se ne fanno formaggi freschi
o raviggioli
[formaggi
toscani],chiamati in paese
robiolini
d'ordinario il latte caprino si mescola con quel di vacca spannato, per farne formaggi dimezza pasta".p.
348
Il
pregio dei formaggi di capra era stato riconosciuto
all'inizio del secolo dall'economista Merchiorre Gioia
(M. Gioia, Discussione economica sul dipartimento
del Lario, Lugano, 1837, p. 81)
“Quello
che è [il formaggio] formato dal latte caprino
è preziosissimo allorché non riceve
qualche battesimo d’acqua, o d’altro latte straniero”
Cesare
Cantù descrivendo la provincia di Como (Grande
Illustrazione del Lombardo-Veneto, Vol. III) nota, a
proposito della Valsassina che:
“I
valligiani preparano nelle loro baite (cascine) le robiole
e gli stracchini caprini di cui fanno grande esportazione”
(p. 990)
Verso
la fine del secolo troviamo conferma della fabbricazione
dei 'caprini ' in Valsassina e della produzione di analoghi
piccoli formaggi, 'formaggini' per l'appunto, di latte
di pecora nella zona collinare del lecchese (Brianza).
"Il latte delle pecore, il cui prodotto si calcola in ragione di ettolitri 2,50 annui cadauna, mentre non si mungono che durante quattro mesi all'anno, con una media giornaliera di litri 2,25, è ricco di materia caseosa e prestasi alla fabbricazione dispeciali latticini che foggiansi a guisa di piccoli cilindri detti formaggini, che sono molto pregiati in commercio. Di pari merito [rispetto a quello di pecora quindi], è iI latte, caprino che, segnatamente nella Valsassina,impiegasi come il pecorino a fabbricar formaggininel modo seguente: Nel latte appena munto si mesce il necessario presame preparato coi ventricoli di capretti o di vitelli macerati nell'aceto,e se ne attende la cagliata, che si rompe e si frammischia finché sia ben segregata dal siero. Allora si ripone in formelle di legno, ove si lascia a sgocciolare fino a che abbia, raggiunto una certa consistenza. Quindi i formaggini si salano generosamente e se voglionsi ottenere di sapore forte, vi si aggiunga anche una piccola dose di pepe".Giunta per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Atti, Vol. VI, Roma, Forzani, 1883. Il Circondario di Lecco, Vol VI, Tomo I, Fasc. II, p. 335.
Tra
questi formaggini di pecora brianzoli particolare fama
godevano i 'robiolini di Montevecchia' di cui abbiamo
già avuto modo di trattare (vai
all'articolo).
Robiolini,
caprini, tomini, formaggini. Sono la stessa cosa o no?
Ottogalli
nella sua Guida (p. 199) ha ribadito come
le denominazioni "tomini", "robiolini"
e "caprini" siano largamente intercambiabili.
É proprio così; solo che va aggiunta la
quarta categoria: i "formaggini" (furmagitt). Si può
peròaggiungere che la denominazione 'robiolini'
e 'robiole' pare più antica abbracciando ampie
zone del Piemonte, della Lombardia e dell'Emilia. In tempi più
recenti (parrebbe dal XIX secolo) in Lombardia vi è
stata la tendenza a sostituire 'robiolini' con 'formaggini'.
mentre in Piemonte sono diventati popolari i 'tomini'
(ce n'è una sfilza).
La
Guida gastronomica d'Italia del Touring Club
(1931) segnala moltissime 'robiole', anche se la loro
identità appare incerta. Sono elencate quelle
degli alpeggi valdistani (p. 26), quelle di Castelnuovo
d'Asti e d'intorni ("grasse di forma rotonda
e schiacchiate, di pasta molle e giallognola e dalla
crosta rossastra", p. 25), di Ceva (ci mancherebbe,
p. 31), derl Monregalese (p. 32). Si accenna in qualche
caso all'uso del latte caprimo. Le più 'arcaiche'
appiono quelle delle valli piecentine (Nure,
Trebbia, Arda e Tidone) "di pecora o miste"
(p. 227). In Lombardia ce ne sono a raffica. Vengono
segnalate come "fabbricate nelle valli delle Prealpi
e segnatamente in Valsassina". Sono ricordate quelle
della Valle Imagna e della Valtorta (Val Brembana),
quelle di Introbio e Ballabio (Valssassina), di Maggianico
(Lecco) ma anche di Maccagno (Va) sulle rive del Verbano. Possono essere quadrate
o tonde. I 'Robiolini' invece paiono aver mantenuto
un'identità più precisa: "formaggini
di forma cilindrica del peso di 50-100 g fatti di latte
di vacca solo, o misto a quello di pecora e di capra,
di pasta molle. Si consumano freschi e si producono
in molte località della Lombardia (e del Piemonte)"
(p.52).
Una
strategia di differenziazione di marca che gioca ...
sulla pelle delle denominazioni storiche
L'incertezza
sull'identità delle robiole ha fatto sì
che l'industria - già da un secolo in qua, a onor del vero
- abbia riempito dei contenuti più consoni alle
strategie di mercato del momento la 'forma robiola'ovvero una denominazione radicatissima.
Così
nelle strategie di marca, al fine di operare la differenziazione
rispetto alla concorrenza sono divenute 'robiole' le
crescenze (stracchino a rapida maturazione e pasta molle)
o i 'taleggini'. la Robiola della Valsassina commercializzata
da diverse ditte non è nient'altro che una variante del
Taleggio di dimensioni ridotte, e con una maturazione più rapida. Le forme quadrate (di 10 cm di lato), hanno un peso tra 0,4-0,5
kg. Già negli anni '50 l'Invernizzi lanciava
la Robiolina Invernizzi, una 'crescenzina'. Ma la Galbani
non aveva inventato il 'Certosino'? E considerato che
la grande Invernizzi aveva la 'Robiolina' perché
non inventarsi la 'Robiolina di Crema' (Caseificio Brandazzi
di Credera Rubbiano)? Al sig. Brandazzi che usa, (una
denominazione 'storica' ed una geografica'), del tutto
legittimamente, sia chiaro, finché solo le Dop
sono meritevoli di produzione e le denominazioni storiche
sono 'fuffa' . Gli va però concessa almeno
un'attenuante, l'azienda è sita a Rubbiano, un
toponimo che intriga qualche legame con il nostro antico
formaggio (anche se la toponomastica tende ad ascrivere
Robbio, Robbiola ecc. alla robbia, la pianta tintoria
e quindi in comune ci sarebbe il colore rosso,
sempre che valga la derivazione della robiola' da 'rubeola'
= rossa). Troviamo poi la 'Robiola cremosa' (F.lli
Franzoni di Torbole Casaglia, Bs). Niente, però,
in confronto alla 'Robiola osella' che grazie ad un
martellante jingle di
Ricky Gianco
(gli spot cambiano ma il jingle resta da decenni) è
diventata LA ROBIOLA. Non ci credete? Fate una ricerca
sul web su 'robiola' e vedete cosa salta fuori.
Ma
è solo l'industria a far danni?
Ma
è solo l'industria a far danni o quantomeno
una voluta confusione per tirare l'acqua al suo mulino?
Nell'immaginario del consumatore sì data la forza
di penetrazione dei suoi messaggi. Però anche
le 'istituzioni' ci mettono dell'impegno. Sia attraverso
l'inserimento che attraverso l'omissioni di prodotti
tradizionali dai famosi 'elenchi regionali' dei
PAT (Prodotti agroalimentari tradizionali). In Lombardia,
terra di robiole, ne abbiamo solo due 'codificate' nei PAT: la Bresciana
e quella della Valsassina. La Robiola Bresciana (produttore
principale il grosso caseificio Zani di Cigole che produce
anche la versione Brescianella) ha per sinonimi Smorzasoel,Formaela,Rubiulina,
Strachì bianc. In
effetti è una versione dello stracchino 'storico'
(che tra le altre cose si distingue per lo scalzo molto
più basso rispetto al Taleggio) che nelle varianti
'morbide' tende alla crescenza. Va detto che spesso
certe 'Robiole' a crosta fiorita sono più simili
al Brie che a formaggi autoctoni. Quanto alla Robiola
della Valsassina già sì è detto:
è un piccolo taleggino con la sua brava crosta
lavata. In Piemonte oltre alla Robiola di Roccaverano
Dop abbiamo tra i PAT quella d'Alba, di Cocconato e
di Bossolasco (detta anche Tuma, però). In Emilia
Romagna abbiano tra i PAT una generica Robiola
e una Ribiola.
Un
panorama di grande confusione. Quello che ci sentiamo
di dire è che sarebbe ora che i prodotti tradizionali
rispondessero a dei criteri più rigorosi. La
tradizione di evolve - ci mancherebbe - ma definire
ciò che è in rapporto con una continuità
storica appare utile anche per valutare ed apprezzare
le produzioni che alla tradizione si rifanno in parte, per apprezzare le innovazioni.
Se non si è in grado di mettere ordine nei prodotti
'tradizionali' (temosia impresa inane) si proceda nel
valorizzare i formaggi -
'storici'. Formaggi che devono essere intesi quali
patrimoni storico-culturali oltre che giacimenti gastronomici.
Filologia
casearia: una necessità
Risalendo
nella storia il guazzabuglio di denominazioni nato dalla
differenziazione spazio-temporali, spesso solo
apparenti e nominali, è possibile risalire a
categorie abbastanza precise basate su elementi importanti:
tipo di latte (specie, scrematura o meno) e 'costanti'
di lavorazione (temperatura, rottura, stufatura, ambienti
e durata di maturazione). Le 'costellazioni' degli stracchini,
delle robiole, delle formaggelle sono troppo ricche
di storia, tradizione, diversità per dilapidare
questa storia mescolando tutto, confondendo nomi di
fantasia, marchi commerciali, denominazioni geografiche.
La
'filologia' casearia ci dice che la 'babele dei dialetti',
il 'campanilismo caseario' sono fenomeni abbastanza
recenti. L'incrostazione può essere rimossa.
Individuare le tipologie 'archetipiche' non è
poi così difficile. Alla base delle tipologie
casearie vi sono determinanti storiche ed ecologiche individuabili:
il ruolo preminente degli ovicaprini, anche nella pianura
padana, sino alla fine del medioevo, i vincoli della
transumanza, un'omogeneità di culture casearie
su aree vaste (l'estensione dell'area delle robiole
ci suggerisce che la transumanza mettendo in contatto svariati ambienti di origine ha favorito tecniche
simili dalle Alpi Marittime all'Appennino settentrionale
alle Orobie). Su quale sia l'archetipo delle 'robiola'
pare non ci siano molti dubbi: una forma schiacciata,
'a focaccia', l'essicazione sulla paglia, una maturazione
abbastanza rapida (più che nel caso degli stracchini,
con l'eccezione della crescenza).
Punti
di riferimento
Le descrizioni sulla tecnica di lavorazione del passato
sono spesso vaghe; nel caso della Robiola (o Rebbiola), però,
disponiamo di una descrizione precisa che risala ad
oltre un secolo fa ad opera di un tecnologo caseario
della scuola lodigiana che, staccandosi per una volta
dai problemi del Grana, si prese la briga di visitare
le malghe della Val Seriana osservandone le produzioni
(G. Cornaggia, Appunti
sul caseificio di montagna. Il formaggio di montagna,
L'industria del latte, 2, 1904, (21) pp.
53-60).
Il Cornalba oltre al Formaggio di montagna
notò altre produzioni: la prima ("che
in certo qual modo richiama il quartirolo, alto
come questa ma di forma rotonda, del peso di kg 1,5
a kg 3, grasso o mezzo grasso a seconda delle circostanze,
piuttosto dolce, che lassù viene chiamato formaggella".
E poi: "Si fa anche una specie di formaggello
detto Rebiola".
Una
precisazione importante: il Cornalba notava come "presso
alcune malghe si tengono e capre e pecore ed il loro
latte viene mescolato con quello delle vacche per farne
formaggio". Una riprova, ma ce n'è ancora
bisogno?, che la mungitura, non solo delle capre ma anche
delle pecore, sugli alpeggi lombardi non è roba
da medioevo ma è stata praticata fino a 'ieri'.
Incuriosito
dalla 'Rebiola' l'autore, intuendone l'interesse e notando
che: "É un
articolo questo che vien consumato nel piccolo ambito
dove si produce, e forse per ciò passa inosservato
alla maggior parte degli autori della partita" ne
approfondì la descrizione in un altro articolo
che riporto integralmente nella colonna a sinistra:
Conclusioni
Che
la Rebiola rappresenti un formaggio molle di piccola
pezzatura, di rapida maturazione, ad alto tenore di
acqua che ben si presta a valorizzare le caratteristiche
del latte ovino e caprino par fuor di dubbio. Che anticamente
fosse ottenuta di preferenza con latte ovino e caprino
è altrettanto fuori di dubbio.
Come
abbiamo osservato altre volte c'è una tradizione
autoctona alpino-padana di formaggi ovini e caprini
a pasta molle di piccola pezzatura che attende solo
di essere valorizzata. Quello che il mercato in tempi
recenti non era in grado di tornare ad apprezzare oggi
ha ottime chances perché, oltre alla famigliarizzazione
con il latte caprino, c'è anche la voglia di scoprire
come lo stesso latte caprino ma anche quello ovino possano
essere utilizzati per lavorazioni diverse dai 'soliti
caprini' e di 'soliti pecorini'. Siamo di fronte a lavorazioni
con un forte contenuto di manualità ma un grado
di consentire una reale differenziazione dalle produzioni
industriali perché attraverso la tecnica artigianale
le qualità del latte crudo ovino e caprino (la
cui produzione implica di per sé costi elevati
specie se si evitano le scorciatoie della forzatura
produttiva e dei mangimi) possono essere esaltate almeglio. Per molti alpeggi - ho in mente alcuni proprio della Val Seriana dove il Cornalba aveva 'scoperto' le Rebbiole - sarebbe quanto mai auspicabile disporre di una produzione con tutto il blasone della tradizione ma al tempo stesso facilmente 'smerciabile' nel periodo di punta di afflusso degli escursionisti-consumatori. 'Non facciamo in tempo afare le formaggelle che ce le portano via fersche'. Ma allora invece di vendere immaturo un prodotto nato per una media stagionatura perché non offrirne uno a breve maturazione? Che, oltretutto, valorizza al meglio eventuali disponibilità sdia pure ridotte di latte ovicaprino.
Con i Rebiolini di Montevecchia si sta
già lavorando con l'Associazione della pecora Brianzola per riuscire a produrre presto
quella di solo latte di 'Brianzola'. Con altre
Robiole e Regiolini c'è da lavorare. E sarebbe
quanto mai auspicabile che questo lavoro fosse supportato
da un progetto organico al tempo stesso agricolo, culturale
ed educativo per creare uno schema di riconoscimento, tutela e valorizzazione dei formaggi storici.
Le Dop da questo punto di vista non solo non hanno tutelato questi valori, ma - abbastanza spesso - li hanno compromessi in relazione con la difesa di interessi economici prevalenti . A differenza della Francia dove esiste un Istituto per le AOC (le DOP 'in francese') che valuta i requisiti storici prima dell'approvazione di nuove Appellation, in Italia le DOP sono spesso il risultato della negoziazione tra interessi locali e funzionari regionali e ministeriali che si è risolta nell'applicazione di criteri fluttuanti e contradditori. Non parliamo della spregiudicata e continua richiesta (e approvazione) di modifiche dei disciplinari che svuota il principio 'costituzionale' delle DOP: la produzione secondo metodi tradizionali e costanti nel tempo. Un modo per dilapidare un 'capitale' creato nei secoli (da generazioni di contadini e casari artigiani) in nome dello sfruttamento da parte delle filiere industriali di un 'valore aggiunto'. Come per altri contesti tutelare i valori storico-culturali è anche un modo per garantire nel lungo periodo risorse durature per l'economia territoriale basate sulla interconenssione dei circuiti economici.
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