(16.07.10) Questo fotoracconto è 'storico',
risale al 30 marzo 2001, ma ho pensato di proporlo insieme ad
una serie di altre testimonianze del genere più recenti
perché l'intervista con il Miro Puricelli dimostra quanto
siano radicare in Insubria le tradizioni 'caprine'
Altro
che 'caprini alla francese'!
Alla
(ri)scoperta delle tradizioni insubriche
foto e testo di Michele Corti
Dal
Miro Puricelli di Sala Comacina ci sono andato nella
primavera del 2001 (il giorno era il 30 marzo). Lo scopo
era 'carpire' la ricetta della produzione casalinga
del quacc (caglio). Miro è un personaggio che
non si esagera a definire 'mitico'. Classe 1913 è un
archivio vivente ed ha una memoria di ferro (o meglio
l'aveva nel 2001 quando l'ho conosciuto). Di certo oltre
alla memoria ha avuto una salute di ferro (lo scorso
anno qualcuno mi ha detto che c'è ancora, anche se non
fa più i furmagitt sul muunt.
Il
Miro accoglie i
visitatori accanto al focolare. Si noti il rudimentale
braccio girevole in legno
Nel
marzo 2001 era andato a trovarlo al muunt (Monti
di Palese a 670 m). La vita dei ruralpini lariani come
Miro è sempre trascorsa prevalentemente sui muunt.
Si passava da quelli bassi a quelli alti e poi si riscendeva;
alcune famiglie caricavano gli alpeggi comunali prendendo
in carico le bestie dei 'comunisti' e salivano
più in su. Dal Miro mi aveva accompagnato l'Ermanno
Venier, originario di Gordona e residente a Dubino,
dipendente Enel e capraio appassionato per quanto a
part-time (ritratto a sinistra nella foto sotto a tavola
con Miro, dove manca il maldesto fotografo, io, che
lo ha 'tagliato').
Miro
e Ermanno a tavola (c'è anche il mio piatto)
Al
Miro i geent si rivolgevano per avere notizie
sui confini delle proprietà, sugli avvenimenti famigliari.
Era infallibile. Oltre ad avere la ricetta del
caglio ho ottenuto da questo personaggio ruralpino tante
altre informazioni sull'allevamento della capra, sull'utilizzo
del suo latte, sulla vita sussura di muunt e di aalp.
La
memoria di Miro consente di mettere a fuoco con precisione
il periodo anteguerra e (si ricorda non solo quali aalp
caricava la sua famiglia ma anche le altre anno per
anno). Un esempio più pregnante del valore delle 'fonti
orali' per la ricerca storica è difficile trovarlo.
Miro
mi ha parlato de l aalp de Ponna in Valle Intelvi
dove tutt'ora i Soldati, una famiglia della Tremezzina
(subentrata ai Puricelli) gestisce l'alpe comunale e
produce rinomati furmagitt de cavra e misti (casara
la giovane Stefania).
«[...]il
latte era separato, quèll de mucca [veniva portato
nel]la nevèra, in di cùnch [per raffreddarlo
e far affiorare la panna ]e quèll de cavra el butava
giò in la culdéra la sira e pö i e mungevum la matina,
butaven giò anmò la matina de fá i furmagín»
Per
saperne di più sulle nevère e il sistema d'alpeggio
in zona andate a vedere se volete:
Gli elementi del paesaggio
pastorale del Lario Intelvese. Identificazione, recupero, rifunzionalizzazione
Un
elemento molto interessante dei racconti di Miro riguarda
l'origine della proprietà del muunt dove si è
svolta l'intervista: in forza del suo ruolo di archivio
storico vivente Miro risale a eventi del XIX secolo.
Ricorda come il bisnonno abbia acquisito la proprietà
dove ci troviamo negli anni '80 dell' '800. Ma ancora
più sorprendente è come il bisnonno abbia raggranellato
il capitale necessario per l'investimento fondiario
(a fine '800 la terra era carissima in montagna!). L'attività
del bisnonno consisteva nel trasporto e vendita dei
formaggini. Allora, però, il trasporto era a dorso d'uomo
e il bisnonno due volte alla settimana saliva all'Alpe
di Lenno (a 1.500 m) per portare in paese (sulle
rive laritane a 200 m) i formaggini. 1.300 m di discesa
con il carico massimo sulla groppa attraverso sentieri
malmessi (lo dice l'Inchiesta sui pascoli alpini dell'inizio
del XX secololo). Data la fibra dell'avo non ci meravigliamo
che Miro stia per arrivare al traguardo del secolo (sicuramente
grazie anche agli 'anticorpi', ovvero a quel contatto
con lo 'sporco' che l'immunologia popolare ha sempre
ritenuto necessario, facendo inorridire l'igienismo,
ma che è stato accreditato da recenti vedute
scientifiche).
«[...]el mè bisnònu i e crumpàa chi siit chi a purtá giò
i gerli di furmagin de l’aalp de Lenno, nava sü dò voolt
a la setimana a töij e n’áa fáj censesánta chili i diseva.
I nava sü a töö tutt quèl che nava a vént. E’
morto nel 1884, aveva appena comperato questa proprietà:
100.000 metri di terreno. Al zincarlín a nava sü
a töö al ma poer nònu.»
Vale
la pena ricordare che all'Alpe di Lenno i Ciapessoni
producono tutt'oggi ottimi e giustamente rinomati prodotti
d'alpe: formaggio vaccino, stracchini, formaggini di
capra, zincarlin. Merita una visita. Si arriva
in macchina con la strada militare del 1916 e il panorama
è strepitoso.
Dai
racconti di Miro emerge il ruolo fondamentale che ha
giocato la capra per la sopravvivenza delle generazioni
ruralpine che ci hanno preceduto. Mentre mucche e capre
salivano nei tre mesi canonici (giuglio, luglio, agosto)
agli alpi (maschile come in Ticino), qualche cavra
de cà restava ai maggenghi dove c'era la gente che
segava i prati. Non c'era il Tetrapak, c'era la cavra.
Si mungeva e con il latte si faveca la minestra. Il
'condimento' (grassi) e la proteine veniva da lì. Persino
i falciatori che andavano a fare la stagione in altre
vallate, i carbonai, i taglialegna, 'menavano' dietro
una capra. Era il modo più economico per sopravvivere
anche lontano da casa. Le capre meritano monumenti altro
che le leggi idiote che tutt'ore sono in vigore. Miro
la minestra di latte di capra con i germogli di luppolo
selvatico la prepara ancora oggi (a tutti consiglio
quella col riso con un pizzico di sale facilissima da
preparare, provare per credere).
«[...]
la
portavano qui [sul maggengo, quando il resto del bestiame:
vacche e capre era all’alpe] una capra per far la minestra,
per adoperare il latte, si faceva la minestra cunt i
briöö [germogli di luppolo selvatico], mi la fò anmò»
Miro
Puricelli, all’età di 90 anni, produce ancora per consumo
famigliare (si deve scrivere così) i furmagín.
Ma può essere fiero di aver fatto
studiare in collegio uno dei figli che oggi gestisce
ed è proprietario di due ristoranti a Londra «con il
ricavato dei formaggini».
Quando non c'era l'ASL e si potevano vendere alla luce
del solo. E non moriva nessuno.
Una
capra di Miro dall'aspetto molto 'nostrano'
Miro ci fornisce anche notizie sull'origine
delle capre. Una volta la riproduzione delle capre avveniva
in zone 'vocate' e la gente acquistava le capre già
adulte sulle Fiere (lo stesso che con le mucche). La
capra 'nostrana' detta 'Lariana o di Livo' è la stessa
sul tutto il Lario ma è stata riconosciuto solo sull'Alto
Lario. Alla burocrazia (anche zootecnica in questo caso) interessano
altre cose, non sapere effettivamente dove era ed è diffusa
una popolazione 'autoctona'.
Due
capre tra le baite un tempo abitate
Così tutt'oggi la Lariana in basso
Lario è una 'meticcia' mentre il Alto Lario è una popolazione
riconoscita che può consentire ai proprietari di capre
di ottenere un contributo. Ma Miro è chiaro: «Mi i cáver pusée bei i u crumpáa a Liiv, bianche e nere
[marín], alla Fiera di S.Giuseppe l’è stáa nel sesanta…».
Io queste cpse le ho dette ma tra Regione, Provincia,
Comunità Montane, APA non mi ha dato retta nessuno.
Il
figlio del Miro con una capra 'camosc' (niente
a vedere con le 'signorine' francesi)
Miro
(e il figlio) nel 2001 i formaggini li preparavano nel
modo del tutto artigianale tramandato dai vecc. Anche
la preparazione del caglio di capretto (non si è mai
usato caglio industriale qui) è quella tradizionale
(un fatto che fa inorridire l'ASL). Ma tanto Miro e
figlio non li fanno più i formaggini e quello che racconto
è un 'reperto archeologico' (una testimonianza etnografica
in termini più appropriati).
Gli
abomasi dei capretti appesi ad essiccare sopra il camino
Riferisco
quanto appreso da Miro: l'abomaso (stumeghín)
dei capretti da latte («che non ci sia dentro fieno!»)
viene nesso ad essiccare e affumicare sopra il camino.
L'imboccatura dell'abomaso viene legata con uno spago
fine e si pratica una incisione verticale di 4-5 cm
al di del legaccio per inserire il sale necessario alla
conservazione (poco meno di Dopo due mesi gli abomasi
essiccati vengono conservati in un sacchetto di che
resta appoggiato sopra la trave del camino. La preparazione
del caglio viene eseguita in autunno («questo
autunno lo adopero, adesso uso quello de l an pasàa.
Viene innanzitutto eliminata la porzione di alcuni cm
di lunghezza al di sotto del legaccio «le tagli
via quèst chi che l'è minga bun» «e dòpu fu föra
il quacc in del tegame, in del ram, no, e la pèl la
pesc-cti bèla fina fina cunt un curtèl grand,
ghè dènt la sgèma ... del lat, ghè dént un quaj péel,
mangen sü, sü ... si pesta bene la pelle sull'asse...
te la tàjet sü bèla fina». Preciso che ho trascritto
fedelmente Miro, la parlata risente un po' di un effetto
koinè, è un po' milanesizzata, un effetto ben noto
in etnolinguistica quando i parlanti si trovano
di fronte ad un interlocutore di un area più vasta (per
faas intend de un milanées cumpagn de mi, insòma).
Al contenuto dell'abomaso e alla 'pelle' del medesimo
si aggiungono alcuni ingredienti necessari per la conservazione
e si amalgama il tutto in un mortaio di pietra: «ci
metto la pelle, solo la scorza, del limone, 1-2 spicchi
d'aglio e un po' di aceto; per pestarlo adopero un murtéer».
Come pestello si utilizza l'estremità arrotondata
di un palfér (palo di ferro per praticare buchi
nel terreno) e l'operazione di amalgama
viene proseguita a lungo (1 ora-1 ora e mezza) , aggiungendo
sempre un po' di aceto. Una volta pronto l'impasto assume
aspetto di una sfera di 10-12 cm di diametro di color
marrone, dall'aspetto umido e liscio; l'odore (di formaggio)
è gradevole. Questa sfera viene conservata in sacchetto
di plastica, a sua volta mantenuto in una scatola di
latta.
Il
dosaggio del caglio
Per
ogni impiego viene utilizzata una pallina (balòt)
di caglio del diametro pari alla lunghezza della falange
del dito indice. Tale dose viene utilizzata per 30 litri di
latte. Un banlòt di diametro pari circa alla metà (riferimento
la lunghezza l'unghia dello stesso indice) viene utilizzato
per 15 litri di latte (vedi fotografia). In estate
le dosi sono un po' ridotte. Per aggiungere il caglio
al latte si scioglie la pallina in una tazza di acqua
tiepida e si filtra il tutto con un colino da cucina
di plastica al fine di trattenere peli e altre eventuali
impurità.
Aggiunta
del caglio
La
quantità di caglio che resta trattenuta tra le maglie
del colino viene conservata nel colino stesso fino giorno
seguente («altrimenti se ne dovrebbe usare molto di
più»).
Recupero del
caglio
Per
la produzione dei formaggini si utilizza esclusivamente
latte caprino (quello bovino, c'è anche qualche mucca,
viene utilizzato per produrre un formaggio magro). Versato
il latte nella caldéra, lo si porta alla
temperatura di 32-33°C (leggermente superiore ad inizio
stagione). Allontanata la caldéra dal focolare,
si aggiunge il caglio secondo le modalità sopra descritte.
Il caglio viene mescolato con la massa del latte utilizzando
le mani e La coagulazione avviene in 90-120' lasciando
il coperchio sopra la caldéra.
Presa
del caglio
La
rottura della cagliata è effettuata con il palmo aperto
della mano e la dimensione dei grani non è uniforme
(da chicco di mais a nocciola).
Rottura
della cagliata. La mano 'vede' attraverso il tatto ciò
che la mediazione degli strumenti non consente di 'vedere'
in modo diretto
Dopo
aver riposato per 70' la cagliata viene trasferita negli
stampini di plastica di uso corrente (diametro 9 cm,
altezza 10 cm). Gli stampini vengono rivoltati durante
la prima ora due volte e poi altre due volte nel corso
della giornata.
La
cagliata è trasferita negli stampini 'moderni'
La
salatura viene eseguita il giorno successivo a secco
utilizzando sale di 'mazziglia' (del tipo usato perla
salatura delle carni, né fine, né grosso; per ogni pezzo
viene utilizzata la quantità che rimane adesa sulla
superficie umida delle prime falangi delle quattro dita
della mano appoggiate sul sale steso su un foglio di
carta). Il giorno successivo si procede ad una seconda
salatura con le medesime modalità e si tolgono i formaggini
dagli stampini (balzèt). Il nome utilizzato per
denominare gli stampi (balzèt, balzìt era
origine utilizzato per denominare degli stampi in legno
(ghéra quéj turnì intorno) Prima della plastica
si utilizzavano stampi di banda stagnata (nüm ghérum
i balzìt de ramèja).
A
sinistra i formaggini avvolti nella rusca
Da
questi stampi allungati, alti 20-25 cm, si ottenevano
4-5 formaggini che si tagliavano a fette (questa modalità
è rimasta viva a Vegna di Cavarna, in val di Muggio
e in qualche altra località ticinese ma era diffusa
anche nella parte montana del varesotto). In passato
si utilizzavano anche delle scatolette di carne in scatola (scatulèt,
quèj de la carna). In primavera lo spurgo è più
lento a causa della temperatura più bassa e, dal momento
che il formaggino estratto dallo stampo non possiede
ancora una sufficiente consistenza (la cagliata fa fatica
a stare insieme, a legare) e si rischierebbe il distacco
di alcuni frammenti di pasta, si usa tutt'ora avvolgerlo
in una rusca. Il nome, in lombardo, denomina
la corteccia delle piante arboree che, effettivamente,
veniva usata per ricavare delle strisce sottili e flessibili
adatte allo scopo. In particolare la rusca adatta
ad avvolgere i formaggini era ricavata dalla corteccia
della gura (tiglio).
L'uso
della corteccia era in passato molto diffuso come 'fascera'
o 'stampo' per i formaggi di piccola pezzatura (è rimasta
viva la memoria un po' ovunque nell'Insubria, dall'Ossola
al varesotto al Ticino). Oggi al posto della rusca
si utilizzano striscie di plastica bianca per uso alimentare
«sono più comode» (all'insegna della sana abitudine
contadina al ricico, però, il Miro taglia a strisce
di adatta altezza la plastica, delle confezioni da 2-5
kg di sale marino). A noi può dar fastidio tutta quella
plastica che si trova nelle baita. Ma dobbiamo pensare
che il contadino non butta via niente e riesce a 'riciclare'
nei modi più fantasioni i vari imballaggi prodotti dal
consumismo metropolitano. Gli snob che si commuovono
per i sandali ottenuti dai vecchio copertoni d'auto
nel terzo mondo disprezzano queste 'usanze contadine'.
Al terzo giorno il formaggino è prontoper
il consumo. Una o due volte la settimana il figlio di
Miro trasportava in paese i formaggini, utilizzando
per transitare lungo la ripida e stretta mulattiera
che sale dal Santuario della Madonna della Salute
di Ossuccio una vecchia Panda. Dopo 15 giorni i formaggini
sono stagionati (marüüd) e coperti da una patina
batterica rossa (se tenuti in ambiente umido e piuttosto
freddo). I formaggini stagionati, così come il formaggio
magro vaccino, sono mantenuti nella cantina semi interrata
posta al livello inferiore della cascina.
Le
basse formaggelle vaccine
La
lavorazione del latte avviene al livello superiore nel
locale provvisto di focolare, dove si preparano anche
i pasti. Su questo livello vi è anche una camera letto
adiacente alla cucina. In autunno i formaggini stagionati
vengono messi sott'olio e divisi a metà. Le olive sono
di produzione propria (siamo nella zona del Lario più
vocata per l'olivicoltura) e vengono torchiate
presso il frantoio Vanini di Lenno. Nel vaso di vetro
si aggiungono 2-3 foglie di alloro e 5/6 grani di pepe.
Cosa sopravviverà di queste tradizioni?
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