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Agroecologia

Michele Corti, 23 Giugno, 2022

Svolta agroecologica: se non ora quando?

Allo shock dei prezzi dell'energia, dei fertilizzanti, si è aggiunto quello di una siccità che non ha paragoni. Le prospettive dei raccolti sono disastrose, specie per il mais che ha ricevuto poca acqua e non potrà più essere irrigato se l'emergenza prosegue. Le aziende che già si trovavano in condizioni difficile rischiano la chiusura con l'abbattimento delle bovine; molti decideranno di anticipare una chiusura che era già in vista (specie dove non c'è un ricambio generazionale o le difficoltà appaiono insormontabili). In pianura si produrrà molto meno fieno e non sarà possibile venderlo. Le aziende di montagna non sapranno dove reperire le scorte per l'inverno. Nel contesto di una congiuntura terribile, che vede i prezzi del latte e della carne in crescita ma sempre meno dei beni intermedi, si deve ammettere che sono in corso cambiamenti strutturali irreversibili. I limiti di un sistema che viene da tempo criticato per gli impatti ambientali e per la compressione del reddito agricolo a seguito dell'allargarsi della forbice tra prezzi dei beni venduti e di qualli acquistati, emergono in modo drammatico. Eppure sarebbe sbagliato pensare che non esistono soluzioni. Quello che non si dice è che le soluzioni ecologicamente vantaggiose sono anche quelle che fanno rivivere le campagne e l'azienda famigliare. Sostenerle, da parte della politica, implica coraggio perché si va contro agli interessi delle multinazionali e al main stream (burocrazia, apparati di consulenza comemrciale, interessi accademici e industriali). Intanto è importante che se ne parli.

E' ora di chiarire cosa si intende per agroecologia, di uscire dall'ambiguità. L'agroecologia non ha nulla a che vedere con l'ambientalismo da salotto (altra faccia della medaglia dell'industrialismo agricolo e del cibo artificiale) ed è molto di più dell'agricoltura biologica (che per certi versi, a partire dalla dipendenza da input esterni e dalla dipendenza delle filiere, può essere uguale all'agricoltura convenzionale) per non parlare della generica "sostenibilità". Non è solo un insieme di tecniche (tradizionali o innovative che siano) ma un nuovo quadro di pratiche, al tempo stesso tecniche e sociali che presuppone nuove relazioni tra azienda e mercato, tra azienda e azienda, tra azienda e consumatore. In un quadro di approvvigionamento di risorse esterne sconvolto (energia, fertilizzanti, alimenti per il bestiame) si ribaltano i rapporti di valore: il sempre più elevato peso dell'input dall'esterno dell'azienda di mezzi tecnici, credito, energia, competenze specialistiche, tecnologia, che ha consentito di espandere la produzione per unità di lavoro sulla base delle spinte apparentemente irresistibili della specializzazione e delle economie di scala (riducendo la quota di valore aggiunto sulla produzione lorda e trascinando alla lunga al ribasso il reddito aziendale) diventa un vicolo cieco. A dispetto dell'ortodossia scientista e del pregiudizio progressista, che prevede solo traiettorie di sviluppo lineari e unidirezionali, la storia racconta qualcosa di ben diverso, ovvero di cammini (apparentemente) all'indietro, che in realtà non portano al punto di partenza ma a condizioni che per certi aspetti sono simili al passato. Oggi non è assurdo pensare a un ritorno di aziende famigliari largamente basate sui reimpieghi aziendali, sulla circolarità (entro i canceli dell'azienda ed entro l'ambito territoriale locale) dei processio biologici quale condizione per raggiungere un equilibrio, una resilienza maggiore rispetto alle fluttuazioni dei prezzi di mercato? Chi ride di fronte alla prospettiva che ci possa essere una tendenza alla riduzione delle dimensioni aziendali consideri che la storia agraria è stata contrassegnata da un ciclo di alternanza tra azienda contadine e grande azienda. La pianura lombarda è emblematica a questo riguardo: dall'economia agricola di villaggio (epoca pre-romana) si è passati a un'economia rurale inserita nel mercato ma basata su piccole aziende proprietarie (centuriazione), poi con l'età imperiale, l'economia contadina, schiacciata dalle tasse e dall'insicurezza economica è stata fagocitata dai grandi latifondi coltivati dagli schiavi. Una struttura che è continuata con le curtes altomedievali  che però si frammentarono presto in unità distaccate, coltivate da servi  o comunque da coltivatori in condizione di forte dipendenza personale (obbligati a prestare gratuitamente giornale di lavoro sulle terre del signore). A questa situazione subentrò il rapporto di massaricio, con il quale i mansi, i poderi in grado di essere coltivati da una famiglia, venivano dati in affitto (in natura) a liberi contadini.


Le comunità rurali, anche in pianura, potevano disporre di diritti collettivi su boschi e pascoli sui quali potevano allevare animali da lavoro e da carne, l'economia contadina era rifiorita e potè anche conseguire in molti casi la proprietà della terra. Con l'età comunale (XII-XIII secolo) inizia un nuovo ciclo di compressione della piccola proprietà e dell'azienda contadina. I diritti collettivi vengono usurpati, i contadini oppressi dalle tasse si caricano di debiti e, in corrispondenza di siccità e altre calamità naturali sono costretti a vendere le loro terre ai grandi proprietari cittadini.  Alla fine del medioevo le grandi proprietà di dividono in grandi aziende che vengono gestite da affittuari ai cui ordini lavorano contadini ridotti al rango di braccianti. Nasce la grande cascina lombarda che ha mantenuto la sua struttura quasi sino ad oggi (nonostante molte, non più centro aziendale per l'accorpamento delle proprietà) siano divenute ruderi o semplici ricoveri di attrezzature perdendo la funzione abitativa. 
Oggi vi sono dei segnali che indicano come possa avviarsi un nuovo ciclo di ritorno all'azienda famigliare, di neocontadinizzazione. La capacità delle piccole aziende zootecniche di ridurre le perdite emerge da studi danesi,  ovvero da una realtà nella quale i processi di intensificazione zootecnica sono molto avanzati (più dell'Olanda). Non a caso in Danimarca è sorto anche il primo impianto per produrre "latte", ovvero pseudo latte, facendo produrre a lieviti geneticamente modificati proteine simili a qualle del latte.


Figura 1 - Analisi su 1600 aziende di vacche da latte danesi riferita al 2016 (in ascissa il numero di vacche, in ordinata il reddito operativo/perdita in migliaia di corone danesi = 0,13 euro) Nel diagramma  in verde i risultati operativi del terzo migliore di aziende, in grigio la media, in azzurro i risultati (perdite) del terzo peggiore di aziende riferiti a un'unità lavorativa a tempo pieno. Fonte: SEGES 2017, da: J.D. Van der Ploeg et al. (2019) The economic potential of agroecology: Empirical evidence from Europe. Journal of Rural Studies, 71. pp. 46-61.


Le politiche di eliminazione delle piccole aziende non hanno basi economiche e tanto meno ecocologiche e sociali

Un confronto tra aziende di bovine da latte LI (Low input) e HI (High input) su scala europea, eseguito tra il periodo 2004-2012, ha messo in evidenza come le prime siano in grado di remunerare meglio i fattori aziendali.

Tabella 1 - Profittibilità delle aziende zootecniche da latte europee: confronto aziende LOW INPUT (1 ha/vacca, utilizzo del pascolo prevalente, produzione foraggera 8 t di sostanza secca di erba/ha) e HIGH INPUT (o,35 ha /vacca, utilizzo prevalente di insilato, produzione foraggera 10 t di sostanza secca di erba/ha, 14 t di mais/ha)


fonte: Bijttebier, J., Lauwers, L., & Van Meensel, J. (2018). Low input dairy farming: potentially competitive?. In 166th EAAE seminar on Sustainability in the Agri-Food Sector.

E' facile osservare come la maggiore produzione delle aziende più intensive comporti un livello più elevato di input (consumi intermedi) che consistono in soia, mangimi concentrati, integratori, concimi chimici, gasolio. Il valore aggiunto aziendale nelle aziende Low input rappresenta il 47% della produzione lorda, un valore che scende al 33% nelle aziende intensive. Il reddito famigliare delle aziende intensive è leggermente più elevato ma, in una prospettiva di lungo termine, ovvero legata alle scelte strategiche e di continuità dell'azienda, non può non essere ignorata la remunerazione dei fattori aziendali: il lavoro dei componenti della famiglia, la remunerazione della terra, la remunerazione del capitale investito. Le scelte nel passaggio generazionale non possono tenere conto delle alternative: se vendere o affittare l'azienda, impiegare le proprie capacità lavorative fuori dall'azienda consentono migliori opportunità patrimoniali e di reddito perché insistere a vedere sottoremunerati i fattori aziendali? Non serve poi essere economisti per capire che se i prezzi dei prodotti agricoli (il latte per stare ai nostri esempi) salgono meno dei prezzi dei consumi intermedi, le aziende intensive vedranno eroso il reddito aziendale più di quelle a bassi input, capaci di valorizzare i reimpieghi.  Basta una banale operazione sui dati della tabella precedente per dimostrarlo. Per pareggiare i redditi aziendali con un aumento del 10% dei prezzi dei prodotti venduti (vedi ultimo aumento prezzo del latte alla stalla) - lasciando tutti gli altri valori uguali - basta un aumento del  20% dei costi variabili per portare alla pari, a 20 mila euro, il reddito dei due tipi di aziende. Ma sappiamo che i costi sono saliti anche di più. Pensare che gli aumenti dei cereali, dell'energia, dei fertilizzanti possano rientrare è irrealistico. A sostenere la domanda di energia e cibo sono sistemi economici che si sono fatti più competitivi nei confronti dell'occidente. E allora dov'è la superiorità dei sistemi intensivi? Bisogna avere il coraggio di dirlo: nella profittabilità per le multinazionali, per l'industria (mangimistica, meccanica), per l'industria agroalimentare e la grande distribuzione che possono operare su prodotti agricoli di base a prezzi vili, per le società di consulenza e assistenza (tecnica, amministrativa), per chi fa ricerca di base e applicata con i finanziamentidelle multinazionali.

La forza dei sistemi basati su una minore intensività risiede nell'autonomia delle aziende che consente di mettersi al riparo dagli scossoni dei mercati globalizzati destabilizzati dalla deglobalizzazione conflittuale. Le conoscenze tradizionali o rielaborate a livello di azienda e di gruppi di aziende locali, consentono di adattare le pratiche alle specificità delle risorse locali e di utilizzarle in modo più efficiente in senso biologico ed economico. Questo aspetto è largamente sottovalutato dalla ricerca applicata e dalla consulenza (di tipo prevalentemente commerciale e finalizzata a perseguire i propri obiettivi). Le pratiche che possono essere etichettate come agroecologiche  si basano anche su una sperimentazione a livello pratico, di azienda o di gruppi di aziende, e sono in continua evoluzione seguendo percorsi graduali. Una differenza evidente rispetto a un regime come quello dell'agricoltura biologica che prevede regole stabilite e un breve percorso di conversione. Sei di qui o sei di là.

Il discorso sull'agroecologia riguarda però solo pratiche aziendali virtuose? Diciamo subito di no. E cercheremo di spiegarlo nel corso dell'articolo. La forza di uno schema agroecologico consiste nella rottura di quell'incapsulamento nelle filiere agroindustriali che hanno subito i nostri agricoltori. Se, per qualche azienda, le "filiere corte" hanno consentito di rompere il rapporto esclusivo e obbligato con l'industria trasformatrice e la GDO, molti minori progressi sono stati realizzati nel ripristino di schemi di collaborazione orizzontale tra aziende, dello stesso settore o di altri settori agricoli. Lo scambio di servizi e prodotti intermedi tra aziende rappresenta un altro mezzo per sottrarsi dalla dipendenza del mercato e dai suoi movimenti speculativi. Mettere in comune attività, risorse, attrezzature tra piccole aziende non rappresenta un percorso facile ma appare come una delle vie più promettenti per abbattere i costi e sviluppare autonomia. Vi sono attrezzature costose che non si usano tutti i giorni, ma che d'altra parte con sono così specializzate e costose come quelle dei contoterzisti, perché non imparare a metterle in comune?


Gli aspetti sociali e culturali, che l'ortodossia tecnicista ignora (negli interessi, ovviamente, dei sistemi economici a monte e a valle dell'azienda) non solo appaiono importanti nel facilitare le relazioni orizzontali tra agricoltori professionali (e quelle con i consumatori) ma anche con altri soggetti quali i "coltivatori amatoriali", con i quali possono essere instaurati scambi al di fuori del mercato. Pensiamo all'importanza, in montagna, delle relazioni con i tanti piccoli proprietari di parcelle che sono suscettibili di produrre foraggio, un bene sempre più scarso e prezioso per gli allevatori. La politica corporativa delle organizzazioni professionali, recepita anche dall'Europa e dalle regioni, ha penalizzato - sotto troppi riguardi - i proprietari non coltivatori e i coltivatori amatoriali favorendo l'abbandono delle superfici e contraendo la potenzialità foraggera locale (basti pensare all'esclusioni da contributi, dagli indennizzi per i danni della fauna selvatica ecc.). Una soluzione, sul piano istituzionale, che ha consentito di affrontare il problema delle terre abbandonate dai piccoli proprietari è rappresentata dalle Associazioni fondiarie, per le quali esistono leggi approvate in diverse regioni. E' evidente come, garantendo al tempo stesso i proprietari e gli imprenditori agricoli, queste Associazioni consentano di riportare a coltura ampie superfici di territori montani e collinari.  Il tutto, come è evidente, va a vantaggio di una prospettiva agroecologica perché consente di ridurre l'importazione di foraggi e alimenti concentrati dall'esterno. Condizione indispensabile di recupero di superfici è anche un ripensamento normativo che rinuova gli assurdi, anacronistici, autolesionisti limiti al recupero di quelle "conquistate" dalle boscaglie e dagli arbusteti. E' ora di finirla con le limitazioni a piccole superfici degli interventi con provedure semplificate, con le assurde "compensazioni£ (piantare altri alberi altrove o pagare fior di soldi), frutto di una mentalità ambientalista da salotto. Andrebbe premiato chi recupera terreno coltivato, non oppresso da adempimenti e costretto a sborsare per pratiche e compensazioni. 


Lo scopo del recupero di superfici abbandonate, sulla base del coinvolgimento dei tanti piccoli proprietari, potrebbe essere raggiunto anche da Associazioni (banche) del fieno basate su una serie di elementi: l'accordo di proprietari e allevatori con una o più aziende che si assumono il servizio di fienagione su una base di piccolo contoterzismo o della formazione di una cooperativa, la raccolta collettiva presso strutture di essicazione (fienili solari), meglio se in forma sfusa per ridurre le perdite di qualità e la necessità di macchinari e manipolazioni). Un servizio di questo tipo risulta indispensabile dove le aziende famigliari - nonostante la mafia dei pascoli - riescono ancora ad assicurarsi la conduzione degli alpeggi. La dislocazione dei terreni in disponibilità (affitti, comodati, accordi informali) a varie quote e in vari comuni rende spesso improbo per l'allevatore, che deve seguire la mandria in alpeggio, poter dedicarsi anche alla fienagione. Un tempo gli animali venivano affidati "a guardia" a caricatori d'alpe professionali o a pastori salariati pagati da associazioni di allevatori; non è quindi vero che l'invidualismo rappresenti una caratteristica atavica. La cooperazione era la norma. E' stata resa più difficile dalla frammentazione, dalla differenziazione degli interessi, dalla progressiva espansione dell'economica di mercato e dei processi di mercificazione estesi a ogni livello, dalla promozione di culture di matrice urbana individualistiche e utilitaristiche, dalla perdita di collanti comuni (senso di appartenenza, tradizioni, valori comuni). Le soluzioni agroecologiche proposte, che potevano anni fa apparire quali puri esercizi teorici, oggi,di fronte a una crisi di prezzi che non è congiunturale e alla quale si aggiungono gli effetti di una siccità senza precedenti, appaiono quali soluzioni indispensabili di fronte alla prospettiva di chiudere molte stalle di montagna per l'impossibilità di rifornirsi di fieno.

Quando si sostiene che l'agroecologia è rappresentata da pratiche sociali oltre che tecniche (o socio-tecniche, se si vuole), dall'attenzione ad aspetti oltre che sociali anche culturali, identitari, antropologici, intendiamo dire che questi piani, il "lavoro culturale" è fondamentale anche per l'economia aziendale (chi lo nega lo fa per difendere gli interessi industriali, degli apparati burocratici, corporativi, di certo accademismo). Gli aspetti demografici, valoriali, identitari, etici condizionano la vitalità dell'azienda famigliare, il ricambio, il numero di unità lavorative, i rapporti all'interno dell'azienda. L'identità dell'azienda è stata giocata tutta negli ultimi anni (e si capisce bene perché), per favorire l'incapsulamento, l'incorporazione, la subordinazione dentro gli schemi economici (ma anche ideologici) della cultura urbana industrial-scientifico-finanziaria). Ma abbracciare i valori del business, di una cultura imprenditoriale disincarnata (dalle attività concrete manifatturere o agricole) porta a ragionare secondo criteri finanziari e... a vendere l'azienda o a dirottare i rampolli che studiano dalle facoltà agrarie a quelle giuridiche ed economiche, a farli studiare all'estero, pronti poi - di fronte a buone offerte - ad abbandonare l'azienda. Che con la manodopera extra-aziendale non si vada da nessuna parte è ormai palese. Finito il serbatoio indiano, con gli indiani che se ne vanno in Canada, chi manderà avanti le aziende? I robot? I droni? le trattrici a guida automatica? In parte, ma a che costi? E a prezzo di quale ulteriore dipendenza da conoscenze esperte, tecnologie costose? Cosa resterà dell'agricoltore se si procede in questa direzione? Ecco allora che la cultura rurale, la cultura della famiglia, l'orgoglio per le tradizioni produttive delle generazioni passate possono contribuire a creare un nuovo stile produttivo contadino (e agroecologico) come base di una solida base motivazionale, come collante di gruppo sociale (e premessa di quelle condizioni di fiducia reciproca che ... valgono un capitale (capitale sociale, per l'appunto, non meno importante e prezioso di quello oggettivato nelle attrezzature e nelle trattrici da 300 cv). Di stile contadino che rinasce, di economically farming, in Olanda se ne parla da trent'anni, grazie, ma non solo a Jan Duwe Van der Ploeg, il sociologo agrario di Wageningen (il cervello della cultura scientifica agronomica e rurale europea) che ha teorizzato il "ritorno dei contadini" e una nuova teoria contadina che riprende, nella realtà attuale, le intuizioni di Alexander Chayanov, l'autore di The Teory of Peasant Economy, conosciuto anche come "il Marx dei contadini" (e inghiottito dal Gulag).

Economia contadina, stili produttivi agroecologici, rinascita della campagna

L'ortodossia legata alle banche, alle multinazionali ha indotto per decenni a ritenere che l'unico modo per difendere il reddito agricolo consistesse nell'aumentare la Produzione lorda per unità di lavoro, ovvero nel perseguire a ogni costo le economie di scala, la velocizzazione delle operazioni. Di qui l'aumento dell'importanza del capitale, dei mezzi tecnici, l'aumento della potenza dei macchinari, della velocità delle macchine operatrici. Guidata dalle economie di scala, l'economia agricola ha portato alla concentrazione delle aziende, alla rarefazione della forza lavoro agricola, alla scomparsa della società rurale, alla scomparsa della campagna sostituita da lande di monocoltura, dove la risorsa biologica viene depauperata (zero biodiversità,  drastica riduzione dei processi biologici del terreno,  riduzione del terreno fertile a un substrato meccanico per la pratica di una sorta di coltura idroponica di pieno campo con massiccio uso di concimi chimici e pesticidi). Qui ci accorgiamo che il depauperamento è al tempo stesso sociale, culturale ed ecologico. La diminuzione delle aziende e la contrazione di chi lavora in agricoltura ha comportato la perdita di funzione abitativa delle cascine divenute ruderi o rimesse di macchinari e magazzini o, in aree "appetibili" la trasformazione degli edifici rurali in villette. In ogni caso il volto della campagna, della dimensione rurale si è perso, sia nelle aree rurbane pregiate (gentrificate) che in quelle dell'abbandono o della periferizzazione metropolitana. Si sono perse identità sociali e territoriali, espressioni culturali.  Si osserva un parallelismo tra impoverimento sociale e culturale della campagna e perdita di fertilità del terreno: perdita di culture e risorse specifiche di un contesto significa adottare tecniche standardizzate, puntare su un più elevato apporto di input tecnici dall'esterno dell'azienda. Del resto,  meno il terreno è fertile, meno si applicano le soluzioni agroecologiche del passata, più la monocoltura facilita la presenza e la virulenza delle avversità biotiche, più le multinazionali hanno la possibilità di smerciare i loro prodotti. L'agricoltore se ne accorge ma è in un vicolo cieco e chi lo consiglia, il gatto e la volpe, lo spronano a proseguire. E' l'immagine del criceto che corre sulla ruota, corre semprte più forte ma è sempre allo stesso punto. Il reddito rimane lo stesso perché sono i segmenti a monte e a valle delle filiere industriali che si mangiano con la forbice tra prezzi dei beni acquistati e di quelli ceduti dall'agricoltore l'aumento di produttività, le economie di scala conseguiti dall'azienda agricola (a prezzo di investimenti).

Oggi si ricreano delle fasce di vegetazione spontanea: una rinascita della campagna anche in termini estetici

L'agricoltura vera è una forma di coproduzione che rispetta le risorse naturali e le fa "lavorare" a vantaggio dell'uomo (gratuitamente)

Eliminati i filari, i boschetti, le siepi, diserbata con il glifosate la vegetazione delle ripe, eliminati i fossi, livellati al laser enormi campi di decine ettari in nome della velocità, dell'aumento della produttività del lavoro non ci si è accorti (o si è fatto finta di niente) che si distruggeva quel capitale naturale che ha fornito per secoli servizi non solo ambientali ma, al tempo stesso, economici. La biodiversità, la fertilità e la vitalità del suolo (capitali costruiti dalle generazioni di contadini e agricoltori) sono state compromesse non solo dall'applicazione di pesticidi (che comportano effetti collaterali sul vivente che vanno bel al di là dei loro "target" come dimostra il caso degli interferenti endocrini) ma anche dall'eccessiva applicazione di fertilizzanti chimici, dalle lavorazioni eccessivamente profonde, dall'azione eccessivamente energica (potenza  e velocità) degli organi che lavorano il terreno (tale da distruggere lo stato di aggregazione delle particelle minerali e organiche tra loro, già compromessa dalla riduzione della sostanza organica "collante"), dal peso dei mastodontici macchinari con la deleteria azione di compressione che aggrava le condizioni strutturali del terreno (aggregazione, spazi per la circolazione dell'aria e dell'acqua) rendendolo un substrato asfittico, sempre più difficile da lavorare (è un circolo vizioso), sempre meno capace di trattenere l'acqua e di cederla gradualmente alle piane (capacità "spugna"), sempre più ostile alla diffusione delle radici e in grado favorire l'assorbimento dei nutrienti. 



L'alternanza delle colture sullo stesso campo, l'alternanza dei campi con vare colture in atto nella stessa stagione, la presenza di fasce e bordi di vegetazione spontanea, diminuisce drasticamente la diffusione delle malattie delle piante legate ad agenti biotici (insetti, funghi, batteri, virus) attraverso vari meccanismi: effetto "parafulmine", ospitalità dei predatori dei parassiti, effetto "barriera" (il parassita specifico non può diffondersi nello spazio perché non trova la pianta ospite in superfici contigue), impedimento della sopravvivenza, da un anno all'altro del parassita, per effetto delle diverse condizioni e dell'impossibilità di nutrimento determinate dal subentrare sullo stesso terreno di un'altra coltura. Tutto ciò significa risparmio di trattamenti (vuoi con pesticidi di sintesi, vuoi nelle forme consentite dall'agricoltura biologica). 



Funghi, batteri, microfauna (insetti, collemboli, millepiedi, crostacei, ragni) "lavorano" incessantemente e sinergicamente in  modo gratuito. Del resto basta zappare un orto, smuovere la terra di un vaso per veder guizzare vari tipi di piccoli artropodi. Il loro lavoro è sia meccanico che biochimico. Basti pensare al ruolo dei lombrichi, così numerosi nel terreno di un prato stabile, spariti nelle lande di terreno quasi sterile e desertificato (con percentuali infime di sostanza organica) della monocoltura. I lombrichi che sono un indicatore della salute della terra, sminuzzano il terreno ingerendone le particelle quando scavano le loro gallerie e lo rimescolano con le loro deiezioni che contrubiscono all'aggregazione del terreno. Favoriscono la circolazione dell'acqua e dell'aria e lo sviluppo delle radici, mantengono lo stato di aggregazione dei glomeruli di terriccio (insieme di particelle organiche e minerali). Come altri componenti della microfauna, nutrendosi dei detriti (necromassa vegetale) alla superficie del terreno ne favoriscono la frantumazione favorendo l'azione dei microrganismi. L'azione meccanica all'interno della massa del terreno da parte della microfauna è importante per favorire la penetrazione dell'aria che consente di operare le reazioni ossidative da parte della componente aerobia (che opera in presenza di ossigeno) del microbiota. Le reazioni biogeochimiche che coinvolgono i macroelementi che entrano a far parte delle molecole organiche (Carbonio, Azoto, Zolfo, Fosforo) richiedono la combinazione di processi chimici ossidativi e riduttivi, quindi la presenza di microrganismi che operano sia in assenza che in presenza di ossigeno (e di acqua, come sempre esige la vita). L'azione degli organismi viventi del suolo è basata sia sulla degradazione che sulla sintesi nel contesto di un grande riciclo di materia. L'energia per tutto ciò è fornita, indirettamente, dal sole, direttamente dalle tante reazioni chimiche trasformative. Solo per fornire un'idea dell'utilità del ruolo dei microrganismi (funghi e batteri) basti pensare che alcuni batteri (rizobi), capaci di vivere in simbiosi con le radici delle piante (dalle quali ottengono l'energia necessaria) sono in grado di trasformare l'azoto atmosferico (N2) in ammoniaca (NH3) assorbita come sale ammonico dalle piante o trasformata in nitrato. E' la stessa reazione che l'industria chimica ottiene ad elevate temperature e pressioni (quindi utilizzando grandi quantità di energia elettrica). Solo che nel terreno avviene gratis. Non tutte le piante sono in grado di ospitare nelle radici i rizobi; lo sono le leguminose. Erba medica, soia, trifogli, sulla, ginestrino, veccia, piselli, ceci, lupini hanno la proprietà di lasciare nel terreno più azoto di quanto non consumino e, inserite in una rotazione, consentono un notevole risparmio di concimi azotati. Le leguminose che hannoa disposizione direttamente azoto  nelle radici sono anche foraggi molto ricchi di proteine e il loro utilizzo può ridurre gli acquisti di farina di soia e di nuclei proteici per l'alimentazione del bestiame.



I funghi, con i loro filamenti (ife) hanno non solo un ruolo primario nella degradazione della necromassa (vegetale e animale) che si accumula negli strati superficiali del terreno, ma intervengono nella nutrizione delle piante rendendo disponibile un elemento indispensabile come il fosforo che può essere abbondante nel terreno ma in forme insolubili (sali con ferro, alluminio e calcio). E' grazie alla presenza di associazioni delle ife fungine con le radici delle piante che queste ultime possono assorbire il fosforo. L'azione di trasformazione del fosforo in forma assibilabile dalle piante è operata anche da batteri che, a causa delle pratiche agronomiche moderne, si sono rarefatti e che ora l'industria propone di aggiungere al terreno, un caso emblematico di come si depauperi una risorsa naturalmente disponibile in un bene da acquistare sul mercato (ovviamente brevettato). Va tenuto presente che le riserve di fosforo, in forma di sedimenti contenti fosfato (fosforiti), potrebbero esaurirsi (quando è però controverso, come nel caso del petroli, si tratta comunque di una risorsa non rinnovabile). Anche nel ciclo dello zolfo intervengono microrganismi estremamente utili che rendono disponibile lo zolfo per le piante (solfato SO4--) a partire dalla forma minerale e che provvedono a mineralizzare le molecole organiche (come gli aminoacidi cistina e cisteina) a solfato. Questo processo, però, è possibile solo in condizioni aerobiche (in presenza di aria e quindi di ossigeno). In condizioni anaerobiche la degradazione produce H2S (acido solfifrico) tossico per le piante e devono intervenire altri batteri che lo ossidano a solfato. L'azione dei batteri e dei funghi è essenziale anche per la mineralizzazione delle sostanze azotate (proteine, acidi nucleici) ad ammoniaca (NH3) che alcuni batteri del suolo ossidano a nitrito (NO2-) e nitrato (NO3-)utilizzato dalle piante. La presenza di aria (la buona struttura del terreno) è fondamentale per garantire questi processi ossidativi che si svolgono quando la temperatura sale in primavera e le piante sono in grado di assorbire i nitrati che, altrimenti, facilmente solubili, sono dilavati e inquinano le acque superficiali e profonde. Quando la sostanza organica si riduce ( a meno dell' 1%), la struttura del terreno si degrada, perdendo porosità, capacità di trattenere e far circolare l'acqua, di garantire la presenza di aria, le catene dei cicli biologici si squilibrano e il "lavoro biologico" gratuito del sistema terreno si riduce. Deve essere compensato con più concimi, più lavorazioni, più irrigazioni. Il suolo depauperato di sostanza organica, maltrattato, compresso, diventa - con la siccità - un blocco di cemento. E quest'anno ci accorgiamo di quanto sia peggiorata la qualità dei terreni.


Pur compromettendo la fertilità a lungo termine, pur dissipando un capitale naturale (di humus, di biodiversità) accumulato in decenni e secoli, il sistema poteva reggere sino a che il costo dell'energia (e quindi dei fertilizzanti) era basso. Si parla a ogni piè sospinto si "circolarità" ma si sono rotti i cicli per sostituirli con processi lineari dissipativi (ma suscettibili di generare profitto finanziario).

Più terre coltivate in modo meno intensivo: i dogmi produttivisti devono andare in soffitta

Agroecologia è l'opposto della tendenza a premiare da una parte l'agricoltura intensiva e a favorire, dall'altra il rewilding, la forestazione di pianura, il set-aside. Il fatto che il grosso del sostegno della PAC sia andato alle aziende agricole europee più grosse e più intensive la dice lunga sulla coerenza del mantra della sostenibilità. Se, in montagna, in assenza di recupero di superfici da pascolo e da sfalcio, ci sarà un crollo del patrimonio zootecnico (pilastro della vita economica locale) anche in pianura si devono ricercare soluzioni. E queste, stante l'aumento consistente e strutturale dei costi dei mezzi tecnici, non potranno che essere cercate in sistemi meno intensivi che recuperino terreno coltivato ponendo un fine alla schizofrenia dei boschi in pianura (un conto sono i boschetti e i boschi ripariali un conto le "foreste" vagheggiate dagli ambientalisti e dall'Ersaf poi abbandonate all'incuria per i costi elevatissimi delle operazioni di pulizia selvicolturale), delle logistiche, delle autostrade inutili.

Abbiamo trasformato la pianura lombarda nell' Iowa, e adesso?

Sinora non è stato possibile proporre, al di fuori di situazioni particolari, un riorientamento degli indirizzi colturali e zootecnici perché gli addetti ai lavori erano imprigionati nel dogma della struttura fissa dei costi e dei prezzi. Dato per scontato che il prezzo dei mezzi tecnici e dei prodotti venduti sul mercato rappresentassero variabili indipendenti, si è operato, come già ricordato, 
solo sul piano dell'aumento della produttività per unità lavorativa, ottenuto con l'economia di scala (aziende più grandi, più animali allevati), con l'aumento della dotazione di capitale per unità lavorativa (macchine più grandi, costose, potenti) con l'aumento delle rese unitarie (kg per vacca, t per ha). Ci hanno messo tanto a convincere gli agricoli. Ma ce l'hanno fatta. Ed ora è difficile ragionare con un nuovo scenario (anche se i prezzi di gasolio. mangimi, urea sono molto "educativi" a riguardo). Pensare di ridurre i costi, aumentare i prezzi era considerato utopistico. Eppure qualche forma di diversificazione dal main stream è già in atto da anni. Il risultato è che il rapporto del Valore Aggiunto/Produzione lorda può aumentare e questo, come già anticipato, consente di ammortizzare i rincari dei beni intermedi consumati dall'azienda e di difendere il reddito. Il peso del Valore Aggiunto può aumentare a condizione che aumentino i reimpieghi, si riducano i costi, si spuntino prezzi migliori. Di solito l'aumento di peso del Valore Aggiunto è il risultato dell'adozione di uno stile produttivo diverso che comporta miglioramenti da tutti o quasi tutti questi punti di vista (faremo subito degli esempi a proposito).



Le aziende zootecniche si prestano bene a mettere in evidenza cosa succede riducendo la specializzazione e l'intensificazione produttiva. Dalla loro hanno il vantaggio di poter sfruttare diverse complementarietà che consentono di ridurre i costi (per esempio l'uso delle stesse trattrici per alcune operazioni in campo e in stalla) oltre che poter disporre di importanti reimpieghi (concime, foraggio, paglia quando si usava il letame). In barba alla criminalizzazione ideologica dell'allevamento animale (che non fa distinzione tra l'azienda famigliare con i pascoli e i prati e gli animali mantenuti in condizioni di benessere ottimale e i feed lots con migliaia di bovini da carne e i lagoni di deiezioni), l'azienda a indirizzo misto , policolturale, con disponibilità di concime organico (e magari di energia animali per lavori leggeri) è quella candidata alla conformarsi in modo più facile e naturale all'agroecologia.  L'esperienza delle aziende che, imboccata una traiettoria "proto-agroecologica",  hanno sostituito sistemi a elevata specializzazione, alti input, alte produzioni unitarie con sistemi meno "spinti"  indica la possibilità di ridurre i costi per spese veterinarie, mangimi, concimi chimici, rimonta, acquisto di seme di tori a fronte di diminuzioni di produzione (per vacca, per addetto, per ettaro) che sono, almeno in parte, compensate dall'aumento del prezzo del latte, in parte legato ai premi per la qualità, in parte alla possibilità di differenziare il prodotto finale (latticini) sulla base della razza (il parmigiano delle vacche rosse) o del sistema di alimentazione (il grana padano dei prati stabili, il latte-fieno).
 

Animali e colture: un sistema unico che solo il riduzionismo tecnicista separa arbitrariamente

L'adozione di una risorsa genetica animale meno specializzata, con obiettivi di produzione unitaria più bassi (ma più elevati in termini di fertilità, vendita di carne, minore morbilità, durata in stalla) implica, a cascata, modifiche nel sistema colturale in senso agroecologico. Oltre all'ampliamento della quota di erbai di medica, prato stabile (in parte pascolato almeno dagli asciutti), un indirizzo zootecnico meno spinto, dal momento che consente di ridurre il fabbisogno di proteina digeribile, non solo riduce il fabbisogno di soia e di nuclei proteici rispetto al razionamento per alte produzioni a base di silomais, povero di proteina, ma consente di non anticipare lo sfalcio (come si consiglia per ottenere un'elevata quota proteica), e di massimizzare le Unità foraggere latte (energia) per ettaro (oltre che favorire la disseminazione e conservare e repcuperare la biodiversità che, oggi, anche nei prati stabili, in forza delle elevate applocazioni di azoto e dello sfalcio precoce è andata riducendosi). Di qui una cascata di conseguenze agroecologiche positive: il contenuto di azoto dei liquami/letame si abbasserà e il rapporto C/N si alzerà, riducendo le perdite di azoto nelle varie fasi (in atmosfera e nelle acque) e favorendo i processi di umificazione. 



Più prati stabili ed erbai di leguminose, meno trinciato (e soia)

Considerato che il mais richiede inevitabili trattamenti erbicidi (seminato ad aprile sarebbe soffocato dalle infestanti se non intensamente spruzzato tanto che, regolarmente, ogni anno nel Po, e negli affluenti i valori di pesticidi superano i limiti di legge), l'uso di urea per la "partenza della coltura" (con applicazione di unità di azoto ulteriori rispetto alle già tantissime provenienti dai liquami), lavorazioni di aratura e preparazione del letto di semina, che va abbinato nella razione alla soia, che lascia spesso il terreno scoperto per in autunno e in inverno, non è azzardato sostenere che la minor produzione di sistemi foraggeri , basati con più ampio spazio per gli erbai di leguminose e sul prato stabile (produzione di t di sostanza secca silomais = 18, medica = 14, prato stabile = 10) possono, in presenza di prezzi costantemente alti di gasolio e urea, essere facilmente compensati se c'è un sistema di premialità (PSR) che abbia il coraggio di  tenere conto della differenza sostanziale di esternalità  (impatti ambientali) dei due sistemi foraggeri. Da un punto di vista agroambientale appare decisivo il contributo del prato stabile
alla fissazione della CO2 e al mantenimento e implementazione della fertilità a lungo termine (legato alla presenza di sostanza organica). Qui trascuriamo pure i valori paesaggistici, estetici, ricreativi (ma non dimentichiamoli perché l'immagine di un prodotto, per un marketing territoriale efficace, è legata molto alle immagini paesaggistiche, vedi i prati stabili del Mantovano che si valorizzano attraverso il grana padano dei prati stabili ma, in modo congiunto, anche con la candidatura Unesco dei prati in quanto paesaggio). Inutile aggiungere che, per il prato, stabile si utilizzano solo i concimi organici, che il reticolo immenso di sottili radici delle foraggere è in grado di intercettare in modo efficiente i nitrati, che nel suolo si mantiene un'elevata biodiversità, che gli insetti impollinatori non corrono rischi di essere uccisi dai prodotti chimici e dalle sementi conciate, che, per definizione, il terreno è indisturbato e può assumere la struttura glomerulare ottimale.

Oggi si rivalutano i sistemi di alimentazione "a verde". Sino a pochi anni fa gli antesignani che avevano adottato questa "retroinnovazione" erano considerati degli stavaganti

Uno stile produttivo, fatto di risorse umane, di creatività, relazioni, stimoli motivazionali, valori da condividere


Il conto colturale non può comunque essere disgiunto dal conto economico della stalla. E' l'insieme di un nuovo "stile produttivo" esteso a tutta l'azienda che può portare miglioramenti. Meno teso alle rese elevate a tutti i costi a ridurre i tempi delle operazioni, lo stile agroecologico può permettersi macchinari e tecnologie meno up to date, meno sofisticati, meno costosi, meno dipendenti da servizi costosi di assistenza. Macchinari che il bravo agricoltore è (era) capace di riparare da solo.  Ed ecco che si può allora anche dare spazio alla macchina usata, al modello più spartano
, ecco che si può prestare senza eccessivi patemi d'animo la macchina a un collega, innescando quelle relazioni di reciprocità che costruiscono in modo cumulativo la fiduciam e che, anche se gli economisti agrari (a differenza dei ruralisti) non amano sottolinearlo, rappresentano un capitale aziendale e un modo di ridurre i costi. Uno stile aziendale "neocontadino" e agroecologico è uno stile più rilassato che facilita i rapporti umani dentro la famiglia, con i dipendenti, con i colleghi, con i consumatori (e con gli animali), che consente di dare spazio ad attività che per lo "stile iperproduttivistico" appaiono perdite di tempo. Così ci si informa di più, si coltivano relazioni e interessi, ci si scambia idee ed esperienze tra la cerchia dei colleghi e fuori. E si elaborano soluzioni innovative (o retroinnovative, che significa la tradizione reinventata nelle nuove condizioni del presente), si adottano le "novità" (le novelties della letteratura), ovvero soluzioni inaspettate che sorgono da basso, dall'esperienza di campo, a dispetto delle forme istituzionalizzate di ricerca, del mainstream orientato dagli interessi delle multinazionali, della consulenza commerciale.


Ritorno all'azienda a dimensione di famiglia (dopo seicento anni)?

Cosa significa in termini economici un nuovo stile produttivo neocontadino e agroecologico? Che, oltre a recuperare autonomia,  si ottimizza e rende efficiente l'utilizzo delle specifiche risorse aziendali e locali (ogni azienda ha risorse specifiche, vuoi umane, vuoi legate alla storia pregressa, alla pedologia, alle razze locali, mediato da conoscenze tradizionali contestuali, rivalutate e validate dall'osservazione e da un continuo confronto sui risultati di campo. Vuol dire che, se si abbandonano i "protocolli", i manuali, le saccenterie accademiche e commerciali, che non tengono conto (non è nel loro interesse) di specificità locali atte a far risparmiare l'agricoltore, si può operare un fine tuning, magari empirico, ma forse più efficace della precision farming (che comunque si basa sul riduzionismo dei parametri). Un modo per ridurre i costi ma anche per migliorare le risorse e la qualità dei prodotti (e quindi il loro prezzo). Il tutto in modo economico, usando al meglio e stimolando la risorsa umana, quella dell'imprenditore, quella famigliare ma anche quella esterna - i collaboratori salariati - vista oggi, spesso, tristemente come un male necessario (in attesa di sostituzione di un robot umano con uno artificiale) ma che può anche consistere in una risorsa per la crescita dell'azienda. E qui una conclusione veramente scandalosa: tutto ci dice che l'azienda agroecologica, resiliente ecc. del prossimo futuro, non solo ridurrà la manodopera (possibilmente famigliare) ma la aumenterà (almeno per unità di superficie, capi allevati ecc.). Aziende esistenti che si fanno più piccole, ma più efficienti, profittevoli e resilienti (e meno stressate) e nuove aziende di chi crede nel ritorno alla terra non come speculazione, moda ma per la convinzione, la convinzione che l'agroecologia, e non l'ambientalismo da salotto, può fare molto per la società.


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