Allo shock dei prezzi dell'energia,
dei fertilizzanti, si è aggiunto quello di una siccità che non ha
paragoni. Le prospettive dei raccolti sono disastrose, specie per il
mais che ha ricevuto poca acqua e non potrà più essere irrigato se
l'emergenza prosegue. Le aziende che già si trovavano in condizioni
difficile rischiano la chiusura con l'abbattimento delle bovine; molti
decideranno di anticipare una chiusura che era già in vista (specie
dove non c'è un ricambio generazionale o le difficoltà appaiono
insormontabili). In pianura si produrrà molto meno fieno e non sarà
possibile venderlo. Le aziende di montagna non sapranno dove reperire
le scorte per l'inverno. Nel contesto di una congiuntura terribile, che
vede i prezzi del latte e della carne in crescita ma sempre meno dei
beni intermedi, si deve ammettere che sono in corso cambiamenti
strutturali irreversibili. I limiti di un sistema che viene da tempo
criticato per gli impatti ambientali e per la compressione del reddito
agricolo a seguito dell'allargarsi della forbice tra prezzi dei beni
venduti e di qualli acquistati, emergono in modo drammatico. Eppure
sarebbe sbagliato pensare che non esistono soluzioni. Quello che non si
dice è che le soluzioni ecologicamente vantaggiose sono anche quelle
che fanno rivivere le campagne e l'azienda famigliare. Sostenerle, da
parte della politica, implica coraggio perché si va contro agli
interessi delle multinazionali e al main stream (burocrazia, apparati
di consulenza comemrciale, interessi accademici e industriali). Intanto
è importante che se ne parli.
E' ora di chiarire cosa si intende per agroecologia, di uscire
dall'ambiguità. L'agroecologia non ha nulla a che vedere con
l'ambientalismo da salotto (altra faccia della medaglia
dell'industrialismo agricolo e del cibo artificiale) ed è molto di più
dell'agricoltura biologica (che per certi versi, a partire dalla dipendenza da input esterni e dalla dipendenza delle filiere, può essere uguale
all'agricoltura convenzionale) per non parlare della generica
"sostenibilità". Non è solo un insieme di tecniche (tradizionali o
innovative che siano) ma un nuovo quadro di pratiche, al tempo stesso
tecniche e sociali che presuppone nuove relazioni tra azienda e
mercato, tra azienda e azienda, tra azienda e consumatore. In un quadro
di approvvigionamento di risorse esterne sconvolto (energia,
fertilizzanti, alimenti per il bestiame) si ribaltano i rapporti di
valore: il sempre più elevato peso dell'input dall'esterno dell'azienda
di mezzi tecnici, credito, energia, competenze specialistiche,
tecnologia, che ha consentito di espandere la produzione per unità di
lavoro sulla base delle spinte apparentemente irresistibili della
specializzazione e delle economie di scala (riducendo la quota di
valore aggiunto sulla produzione lorda e trascinando alla lunga al
ribasso il reddito aziendale) diventa un vicolo cieco. A dispetto
dell'ortodossia scientista e del pregiudizio progressista, che prevede
solo traiettorie di sviluppo lineari e unidirezionali, la storia
racconta qualcosa di ben diverso, ovvero di cammini (apparentemente)
all'indietro, che in realtà non portano al punto di partenza ma a
condizioni che per certi aspetti sono simili al passato. Oggi non è
assurdo pensare a un ritorno di aziende famigliari largamente basate
sui reimpieghi aziendali, sulla circolarità (entro i canceli
dell'azienda ed entro l'ambito territoriale locale) dei processio
biologici quale condizione per raggiungere un equilibrio, una
resilienza maggiore rispetto alle fluttuazioni dei prezzi di mercato?
Chi ride di fronte alla prospettiva che ci possa essere una tendenza
alla riduzione delle dimensioni aziendali consideri che la storia
agraria è stata contrassegnata da un ciclo di alternanza tra azienda
contadine e grande azienda. La pianura lombarda è emblematica a questo
riguardo: dall'economia agricola di villaggio (epoca pre-romana) si è
passati a un'economia rurale inserita nel mercato ma basata su piccole
aziende proprietarie (centuriazione), poi con l'età imperiale,
l'economia contadina, schiacciata dalle tasse e dall'insicurezza
economica è stata fagocitata dai grandi latifondi coltivati dagli
schiavi. Una struttura che è continuata con le curtes altomedievali che però
si frammentarono presto in unità distaccate, coltivate da servi o
comunque da coltivatori in condizione di forte dipendenza personale
(obbligati a prestare gratuitamente giornale di lavoro sulle terre del
signore). A questa situazione subentrò il rapporto di massaricio, con
il quale i mansi, i poderi in grado di essere coltivati da una
famiglia, venivano dati in affitto (in natura) a liberi contadini.
Le comunità rurali, anche in pianura, potevano disporre di diritti
collettivi su boschi e pascoli sui quali potevano allevare
animali da lavoro e da carne, l'economia contadina era rifiorita e potè
anche conseguire in molti casi la proprietà della terra. Con l'età
comunale (XII-XIII secolo) inizia un nuovo ciclo di compressione della
piccola proprietà e dell'azienda contadina. I diritti collettivi
vengono usurpati, i contadini oppressi dalle tasse si caricano di
debiti e, in corrispondenza di siccità e altre calamità naturali sono
costretti a vendere le loro terre ai grandi proprietari cittadini.
Alla fine del medioevo le grandi proprietà di dividono in grandi
aziende che vengono gestite da affittuari ai cui ordini lavorano
contadini ridotti al rango di braccianti. Nasce la grande cascina
lombarda che ha mantenuto la sua struttura quasi sino ad oggi
(nonostante molte, non più centro aziendale per l'accorpamento delle
proprietà) siano divenute ruderi o semplici ricoveri di attrezzature
perdendo la funzione abitativa.
Oggi vi sono dei segnali
che indicano come possa avviarsi un nuovo ciclo di ritorno all'azienda famigliare,
di neocontadinizzazione. La capacità delle piccole
aziende zootecniche di ridurre le perdite emerge da studi danesi, ovvero da
una realtà nella quale i processi di intensificazione zootecnica sono
molto avanzati (più dell'Olanda). Non a caso in Danimarca è sorto anche il primo impianto
per produrre "latte", ovvero pseudo latte, facendo produrre a lieviti geneticamente modificati proteine simili
a qualle del latte.
Figura 1 -
Analisi su 1600 aziende di vacche da latte danesi riferita al 2016 (in
ascissa il numero di vacche, in ordinata il reddito operativo/perdita
in migliaia di corone danesi = 0,13 euro) Nel diagramma in verde i risultati
operativi del terzo
migliore di aziende, in grigio la media, in azzurro i risultati
(perdite) del terzo peggiore di aziende riferiti a un'unità lavorativa a tempo
pieno. Fonte: SEGES 2017, da:
J.D. Van der Ploeg et al. (2019) The
economic potential of agroecology: Empirical evidence from
Europe. Journal of Rural Studies, 71.
pp. 46-61.
Le politiche di eliminazione delle piccole aziende non hanno basi economiche e tanto meno ecocologiche e sociali
Un confronto tra aziende di bovine da latte LI (Low
input) e HI (High input) su scala europea, eseguito tra il periodo 2004-2012,
ha messo in evidenza come le prime siano in grado di remunerare meglio
i fattori aziendali.
Tabella 1 -
Profittibilità delle aziende zootecniche da latte europee: confronto
aziende LOW INPUT (1 ha/vacca, utilizzo del pascolo prevalente, produzione foraggera 8 t di sostanza secca
di erba/ha) e
HIGH INPUT (o,35 ha /vacca, utilizzo prevalente di insilato, produzione
foraggera 10 t di sostanza secca di erba/ha, 14 t di mais/ha)
fonte: Bijttebier, J., Lauwers,
L., & Van Meensel, J. (2018). Low input dairy farming:
potentially competitive?. In 166th
EAAE seminar on Sustainability in the Agri-Food Sector.
E' facile osservare come la maggiore produzione
delle aziende più intensive comporti un livello più elevato di input
(consumi intermedi) che consistono in soia, mangimi concentrati,
integratori, concimi chimici, gasolio. Il valore aggiunto aziendale
nelle aziende Low input rappresenta il 47% della produzione lorda, un
valore che scende al 33% nelle aziende intensive. Il reddito famigliare
delle aziende intensive è leggermente più elevato ma, in una
prospettiva di lungo termine, ovvero legata alle scelte strategiche e
di continuità dell'azienda, non può non essere ignorata la
remunerazione dei fattori aziendali: il lavoro dei componenti della
famiglia, la remunerazione della terra, la remunerazione del capitale
investito. Le scelte nel passaggio generazionale non possono tenere
conto delle alternative: se vendere o affittare l'azienda, impiegare le
proprie capacità lavorative fuori dall'azienda consentono migliori
opportunità patrimoniali e di reddito perché insistere a vedere
sottoremunerati i fattori aziendali? Non serve poi essere economisti
per capire che se i prezzi dei prodotti agricoli (il latte per stare ai
nostri esempi) salgono meno dei prezzi dei consumi intermedi, le
aziende intensive vedranno eroso il reddito aziendale più di quelle a
bassi input, capaci di valorizzare i reimpieghi. Basta una banale
operazione sui dati della tabella precedente per dimostrarlo. Per
pareggiare i redditi aziendali con un aumento del 10% dei prezzi dei
prodotti venduti (vedi ultimo aumento prezzo del latte alla stalla) -
lasciando tutti gli altri valori uguali - basta un aumento del
20% dei costi variabili per portare alla pari, a 20 mila euro, il reddito
dei due tipi di aziende. Ma sappiamo che i costi sono saliti anche di
più. Pensare che gli aumenti dei cereali, dell'energia, dei
fertilizzanti possano rientrare è irrealistico. A sostenere la domanda
di energia e cibo sono sistemi economici che si sono fatti più
competitivi nei confronti dell'occidente.
E allora dov'è la superiorità dei sistemi intensivi? Bisogna avere il
coraggio di dirlo: nella profittabilità per le multinazionali, per
l'industria (mangimistica, meccanica), per l'industria agroalimentare e
la grande distribuzione che possono operare su prodotti agricoli di
base a prezzi vili, per le società di consulenza e assistenza (tecnica,
amministrativa), per chi fa ricerca di base e applicata con i
finanziamentidelle multinazionali.
La forza dei sistemi basati su una minore intensività risiede
nell'autonomia delle aziende che consente di mettersi al riparo dagli
scossoni dei mercati globalizzati destabilizzati dalla
deglobalizzazione conflittuale. Le conoscenze tradizionali o
rielaborate a livello di azienda e di gruppi di aziende locali,
consentono di adattare le pratiche alle specificità delle risorse
locali e di utilizzarle in modo più efficiente in senso biologico ed
economico. Questo aspetto è largamente sottovalutato dalla ricerca
applicata e dalla consulenza (di tipo prevalentemente commerciale e
finalizzata a perseguire i propri obiettivi). Le pratiche che possono
essere etichettate come agroecologiche si basano anche su una
sperimentazione a livello pratico, di azienda o di gruppi di aziende, e
sono in continua evoluzione seguendo percorsi graduali. Una differenza
evidente rispetto a un regime come quello dell'agricoltura biologica
che prevede regole stabilite e un breve percorso di conversione. Sei di
qui o sei di là.
Il discorso sull'agroecologia riguarda però solo pratiche aziendali
virtuose? Diciamo subito di no. E cercheremo di spiegarlo nel corso
dell'articolo. La forza di uno schema agroecologico consiste nella
rottura di quell'incapsulamento nelle filiere agroindustriali che hanno
subito i nostri agricoltori. Se, per qualche azienda, le "filiere
corte" hanno consentito di rompere il rapporto esclusivo e obbligato
con l'industria trasformatrice e la GDO, molti minori progressi sono
stati realizzati nel ripristino di schemi di collaborazione orizzontale
tra aziende, dello stesso settore o di altri settori agricoli. Lo
scambio di servizi e prodotti intermedi tra aziende rappresenta un
altro mezzo per sottrarsi dalla dipendenza del mercato e dai suoi
movimenti speculativi. Mettere in comune attività, risorse,
attrezzature tra piccole aziende non rappresenta un percorso facile ma
appare come una delle vie più promettenti per abbattere i costi e
sviluppare autonomia. Vi sono attrezzature costose che non si usano
tutti i giorni, ma che d'altra parte con sono così specializzate e
costose come quelle dei contoterzisti, perché non imparare a metterle
in comune?
Gli aspetti sociali e culturali, che l'ortodossia tecnicista ignora
(negli interessi, ovviamente, dei sistemi economici a monte e a valle
dell'azienda) non solo appaiono importanti nel facilitare le relazioni
orizzontali tra agricoltori professionali (e quelle con i consumatori) ma
anche con altri soggetti quali i "coltivatori amatoriali", con i quali
possono essere instaurati scambi al di fuori del mercato. Pensiamo
all'importanza, in montagna, delle relazioni con i tanti piccoli
proprietari di parcelle che sono suscettibili di produrre foraggio, un
bene sempre più scarso e prezioso per gli allevatori. La politica
corporativa delle organizzazioni professionali, recepita anche
dall'Europa e dalle regioni, ha penalizzato - sotto troppi riguardi - i
proprietari non coltivatori e i coltivatori amatoriali favorendo
l'abbandono delle superfici e contraendo la potenzialità foraggera
locale (basti pensare all'esclusioni da contributi, dagli indennizzi
per i danni della fauna selvatica ecc.). Una soluzione, sul piano
istituzionale, che ha consentito di affrontare il problema delle terre
abbandonate dai piccoli proprietari è rappresentata dalle Associazioni
fondiarie, per le quali esistono leggi approvate in diverse regioni. E'
evidente come, garantendo al tempo stesso i proprietari e gli
imprenditori agricoli, queste Associazioni consentano di riportare a
coltura ampie superfici di territori montani e collinari. Il
tutto, come è evidente, va a vantaggio di una prospettiva agroecologica
perché consente di ridurre l'importazione di foraggi e alimenti
concentrati dall'esterno. Condizione indispensabile di recupero di superfici è anche un
ripensamento normativo che rinuova gli assurdi, anacronistici,
autolesionisti limiti al recupero di quelle "conquistate" dalle
boscaglie e dagli arbusteti. E' ora di finirla con le limitazioni a
piccole superfici degli interventi con provedure semplificate, con le assurde "compensazioni£ (piantare altri alberi altrove o pagare fior di soldi), frutto
di una mentalità ambientalista da salotto. Andrebbe premiato chi
recupera terreno coltivato, non oppresso da adempimenti e costretto a
sborsare per pratiche e compensazioni.
Lo scopo del recupero di superfici abbandonate, sulla base del coinvolgimento dei tanti
piccoli proprietari, potrebbe essere raggiunto anche da Associazioni
(banche) del fieno basate su una serie di elementi: l'accordo di
proprietari e allevatori con una o più aziende che si assumono il
servizio di fienagione su una base di piccolo contoterzismo o della formazione di una
cooperativa, la raccolta collettiva presso strutture di essicazione (fienili
solari), meglio se in forma sfusa per ridurre le perdite di qualità e
la necessità di macchinari e manipolazioni). Un servizio di
questo tipo risulta indispensabile dove le aziende famigliari -
nonostante la mafia dei pascoli - riescono ancora ad assicurarsi la
conduzione degli alpeggi. La dislocazione dei terreni in disponibilità
(affitti, comodati, accordi informali) a varie quote e in vari comuni
rende spesso improbo per l'allevatore, che deve seguire la mandria in
alpeggio, poter dedicarsi anche alla fienagione. Un tempo gli animali
venivano affidati "a guardia" a caricatori d'alpe professionali o a
pastori salariati pagati da associazioni di allevatori; non è quindi
vero che l'invidualismo rappresenti una caratteristica atavica. La
cooperazione era la norma. E' stata resa più difficile dalla
frammentazione, dalla differenziazione degli interessi, dalla
progressiva espansione dell'economica di mercato e dei processi di
mercificazione estesi a ogni livello, dalla promozione di culture di
matrice urbana individualistiche e utilitaristiche, dalla perdita di
collanti comuni (senso di appartenenza, tradizioni, valori comuni). Le
soluzioni agroecologiche proposte, che potevano anni fa apparire quali
puri esercizi teorici, oggi,di fronte a una crisi di prezzi che non è
congiunturale e alla quale si aggiungono gli effetti di una siccità senza
precedenti, appaiono quali soluzioni indispensabili di fronte alla
prospettiva di chiudere molte stalle di montagna per l'impossibilità di
rifornirsi di fieno.
Quando si sostiene che l'agroecologia è rappresentata da pratiche
sociali oltre che tecniche (o socio-tecniche, se si vuole),
dall'attenzione ad aspetti oltre che sociali anche culturali,
identitari, antropologici, intendiamo dire che questi piani, il "lavoro
culturale" è fondamentale anche per l'economia aziendale (chi lo nega
lo fa per difendere gli interessi industriali, degli apparati
burocratici, corporativi, di certo accademismo). Gli aspetti
demografici, valoriali, identitari, etici condizionano la
vitalità dell'azienda famigliare, il ricambio, il numero di unità
lavorative, i rapporti all'interno dell'azienda. L'identità
dell'azienda è stata giocata tutta negli ultimi anni (e si capisce bene
perché), per favorire l'incapsulamento, l'incorporazione, la
subordinazione dentro gli schemi economici (ma anche ideologici) della
cultura urbana industrial-scientifico-finanziaria). Ma abbracciare i
valori del business, di una cultura imprenditoriale disincarnata (dalle attività concrete manifatturere o agricole) porta
a ragionare secondo criteri finanziari e... a vendere l'azienda o a dirottare i
rampolli che studiano dalle facoltà agrarie a quelle giuridiche
ed economiche, a farli studiare all'estero, pronti poi - di fronte a buone offerte -
ad abbandonare l'azienda. Che con la manodopera extra-aziendale non si
vada da nessuna parte è ormai palese. Finito il serbatoio indiano, con
gli indiani che se ne vanno in Canada, chi manderà avanti le aziende? I
robot? I droni? le trattrici a guida automatica? In parte, ma a che
costi? E a prezzo di quale ulteriore dipendenza da conoscenze esperte, tecnologie costose? Cosa resterà dell'agricoltore se si procede in questa direzione? Ecco allora che la cultura
rurale, la cultura della famiglia, l'orgoglio per le tradizioni
produttive delle generazioni passate possono contribuire a creare un
nuovo stile produttivo contadino (e agroecologico) come base di una
solida base motivazionale, come collante di gruppo sociale (e premessa
di quelle condizioni di fiducia reciproca che ... valgono un capitale
(capitale sociale, per l'appunto, non meno importante e prezioso di
quello oggettivato nelle attrezzature e nelle trattrici da 300 cv). Di
stile contadino che rinasce, di economically farming, in Olanda se ne
parla da trent'anni, grazie, ma non solo a Jan Duwe Van der Ploeg, il
sociologo agrario di Wageningen (il cervello della cultura scientifica
agronomica e rurale europea) che ha teorizzato il "ritorno dei
contadini" e una nuova teoria contadina che riprende, nella realtà
attuale, le intuizioni di Alexander Chayanov, l'autore di The Teory of Peasant Economy,
conosciuto anche come "il Marx dei contadini" (e inghiottito dal Gulag).
Economia contadina,
stili produttivi agroecologici, rinascita della campagna
L'ortodossia legata alle banche, alle
multinazionali ha indotto per decenni a ritenere che l'unico modo per
difendere il reddito agricolo consistesse nell'aumentare la Produzione
lorda per unità di lavoro, ovvero nel perseguire a ogni costo le
economie di scala, la velocizzazione delle operazioni. Di qui l'aumento
dell'importanza del capitale, dei mezzi tecnici, l'aumento della
potenza dei macchinari, della velocità delle macchine operatrici.
Guidata dalle economie di scala, l'economia agricola ha portato alla
concentrazione delle aziende, alla rarefazione della forza lavoro
agricola, alla scomparsa della società rurale, alla scomparsa della
campagna sostituita da lande di monocoltura, dove la risorsa biologica
viene depauperata (zero biodiversità, drastica riduzione dei
processi biologici del terreno, riduzione del terreno fertile a
un substrato meccanico per la pratica di una sorta di coltura
idroponica di pieno campo con massiccio uso di concimi chimici e
pesticidi). Qui ci accorgiamo che il depauperamento è al tempo stesso
sociale, culturale ed ecologico. La diminuzione delle aziende e la
contrazione di chi lavora in agricoltura ha comportato la perdita di
funzione abitativa delle cascine divenute ruderi o rimesse di
macchinari e magazzini o, in aree "appetibili" la trasformazione degli
edifici rurali in villette. In ogni caso il volto della campagna, della
dimensione rurale si è perso, sia nelle aree rurbane pregiate
(gentrificate) che in quelle dell'abbandono o della periferizzazione
metropolitana. Si sono perse identità sociali e territoriali,
espressioni culturali. Si osserva un parallelismo tra
impoverimento sociale e culturale della campagna e perdita di fertilità
del terreno: perdita di culture e risorse specifiche di un contesto
significa adottare tecniche standardizzate, puntare su un più elevato
apporto di input tecnici dall'esterno dell'azienda. Del resto,
meno il terreno è fertile, meno si applicano le soluzioni
agroecologiche del passata, più
la monocoltura facilita la
presenza e la virulenza delle avversità biotiche, più le multinazionali
hanno la possibilità di smerciare i loro
prodotti. L'agricoltore se ne accorge ma è in un vicolo cieco e chi lo
consiglia, il gatto e la volpe, lo spronano a proseguire. E'
l'immagine del criceto che corre sulla ruota, corre semprte più forte
ma è sempre allo stesso punto. Il reddito rimane lo stesso perché sono
i segmenti a monte e a valle delle filiere industriali che si mangiano
con la forbice tra prezzi dei beni acquistati e di quelli ceduti
dall'agricoltore l'aumento di produttività, le economie di scala
conseguiti dall'azienda agricola (a prezzo di investimenti).
Oggi si ricreano delle fasce di
vegetazione spontanea: una rinascita della campagna anche in termini
estetici
L'agricoltura vera
è una forma di coproduzione che rispetta le risorse naturali e le fa
"lavorare" a vantaggio dell'uomo (gratuitamente)
Eliminati i filari, i boschetti, le siepi, diserbata
con il glifosate la vegetazione delle ripe, eliminati i fossi,
livellati al laser enormi campi di decine ettari in nome della
velocità, dell'aumento della produttività del lavoro non ci si è
accorti (o si è fatto finta di niente) che si distruggeva quel capitale
naturale che ha fornito per secoli servizi non solo ambientali ma, al
tempo stesso, economici. La biodiversità, la fertilità e la vitalità
del suolo (capitali costruiti dalle generazioni di contadini e
agricoltori) sono state compromesse non solo dall'applicazione di
pesticidi (che comportano effetti collaterali sul vivente che vanno bel
al di là dei loro "target" come dimostra il caso degli interferenti
endocrini) ma anche dall'eccessiva applicazione di fertilizzanti
chimici, dalle lavorazioni eccessivamente profonde, dall'azione
eccessivamente energica (potenza e velocità) degli organi che
lavorano il terreno (tale da distruggere lo stato di aggregazione delle
particelle minerali e organiche tra loro, già compromessa dalla
riduzione della sostanza organica "collante"), dal peso dei
mastodontici macchinari con la deleteria azione di compressione che
aggrava le condizioni strutturali del terreno (aggregazione, spazi per
la circolazione dell'aria e dell'acqua) rendendolo un substrato
asfittico, sempre più difficile da lavorare (è un circolo vizioso),
sempre meno capace di trattenere l'acqua e di cederla gradualmente alle
piane (capacità "spugna"), sempre più ostile alla diffusione delle
radici e in grado favorire l'assorbimento dei nutrienti.
L'alternanza delle colture sullo stesso campo,
l'alternanza dei campi con vare colture in atto nella stessa stagione,
la presenza di fasce e bordi di vegetazione spontanea, diminuisce
drasticamente la diffusione delle malattie delle piante legate ad
agenti biotici (insetti, funghi, batteri, virus) attraverso vari
meccanismi: effetto "parafulmine", ospitalità dei predatori dei
parassiti, effetto "barriera" (il parassita specifico non può
diffondersi nello spazio perché non trova la pianta ospite in superfici
contigue), impedimento della sopravvivenza, da un anno all'altro del
parassita, per effetto delle diverse condizioni e dell'impossibilità di
nutrimento determinate dal subentrare sullo stesso terreno di un'altra
coltura. Tutto ciò significa risparmio di trattamenti (vuoi con
pesticidi di sintesi, vuoi nelle forme consentite dall'agricoltura
biologica).
Funghi, batteri, microfauna (insetti, collemboli,
millepiedi, crostacei, ragni) "lavorano" incessantemente e
sinergicamente in modo gratuito. Del resto basta zappare un orto,
smuovere la terra di un vaso per veder guizzare vari tipi di piccoli
artropodi. Il loro lavoro è sia meccanico che biochimico. Basti pensare
al ruolo dei lombrichi, così numerosi nel terreno di un prato stabile,
spariti nelle lande di terreno quasi sterile e desertificato (con
percentuali infime di sostanza organica) della monocoltura. I lombrichi
che sono un indicatore della salute della terra, sminuzzano il terreno
ingerendone le particelle quando scavano le loro gallerie e lo
rimescolano con le loro deiezioni che contrubiscono all'aggregazione
del terreno. Favoriscono la circolazione dell'acqua e dell'aria e lo
sviluppo delle radici, mantengono lo stato di aggregazione dei
glomeruli di terriccio (insieme di particelle organiche e minerali).
Come altri componenti della microfauna, nutrendosi dei detriti
(necromassa vegetale) alla superficie del terreno ne favoriscono la
frantumazione favorendo l'azione dei microrganismi. L'azione meccanica
all'interno della massa del terreno da parte della microfauna è
importante per favorire la penetrazione dell'aria che consente di
operare le reazioni ossidative da parte della componente aerobia (che
opera in presenza di ossigeno) del microbiota. Le reazioni
biogeochimiche che coinvolgono i macroelementi che entrano a far parte
delle molecole organiche (Carbonio, Azoto, Zolfo, Fosforo) richiedono
la combinazione di processi chimici ossidativi e riduttivi, quindi la
presenza di microrganismi che operano sia in assenza che in presenza di
ossigeno (e di acqua, come sempre esige la vita). L'azione degli
organismi viventi del suolo è basata sia sulla degradazione che sulla
sintesi nel contesto di un grande riciclo di materia. L'energia per
tutto ciò è fornita, indirettamente, dal sole, direttamente dalle tante
reazioni chimiche trasformative. Solo per fornire un'idea dell'utilità
del ruolo dei microrganismi (funghi e batteri) basti pensare che alcuni
batteri (rizobi), capaci di vivere in simbiosi con le radici delle
piante (dalle quali ottengono l'energia necessaria) sono in grado di
trasformare l'azoto atmosferico (N2) in ammoniaca (NH3) assorbita come
sale ammonico dalle piante o trasformata in nitrato. E' la stessa
reazione che l'industria chimica ottiene ad elevate temperature e
pressioni (quindi utilizzando grandi quantità di energia elettrica).
Solo che nel terreno avviene gratis. Non tutte le piante sono in grado
di ospitare nelle radici i rizobi; lo sono le leguminose. Erba medica,
soia, trifogli, sulla, ginestrino, veccia, piselli, ceci, lupini hanno
la proprietà di lasciare nel terreno più azoto di quanto non consumino
e, inserite in una rotazione, consentono un notevole risparmio di
concimi azotati. Le leguminose che hannoa disposizione direttamente
azoto nelle radici sono anche foraggi molto ricchi di proteine e
il loro utilizzo può ridurre gli acquisti di farina di soia e di nuclei
proteici per l'alimentazione del bestiame.
I funghi, con i loro filamenti
(ife) hanno non solo un ruolo primario nella degradazione della
necromassa (vegetale e
animale) che si accumula negli strati superficiali del terreno, ma
intervengono nella nutrizione delle piante rendendo disponibile un
elemento indispensabile come il fosforo che può essere abbondante nel
terreno ma in forme insolubili (sali con ferro, alluminio e calcio).
E' grazie alla presenza di
associazioni delle ife fungine con le radici delle piante che queste
ultime possono assorbire il fosforo. L'azione di trasformazione del
fosforo in forma assibilabile dalle piante è operata anche da batteri
che, a causa delle pratiche agronomiche moderne, si sono rarefatti e
che ora l'industria propone di aggiungere al terreno, un caso
emblematico di come si depauperi una risorsa naturalmente disponibile
in un bene da acquistare sul mercato (ovviamente brevettato). Va tenuto
presente che le riserve di fosforo, in forma di sedimenti contenti
fosfato (fosforiti), potrebbero esaurirsi (quando è però controverso,
come nel caso del petroli, si tratta comunque di una risorsa non
rinnovabile). Anche nel ciclo dello zolfo intervengono microrganismi
estremamente utili che rendono disponibile lo zolfo per le piante
(solfato SO4--) a partire dalla forma minerale e che provvedono a
mineralizzare le molecole organiche (come gli aminoacidi cistina e
cisteina) a solfato. Questo processo, però, è possibile solo in
condizioni aerobiche (in presenza di aria e quindi di ossigeno). In
condizioni anaerobiche la degradazione produce H2S (acido solfifrico)
tossico per le piante e devono intervenire altri batteri che lo
ossidano a solfato. L'azione dei batteri e dei funghi è essenziale
anche per la mineralizzazione delle sostanze azotate (proteine, acidi
nucleici) ad ammoniaca (NH3) che alcuni batteri del suolo ossidano a
nitrito (NO2-) e nitrato (NO3-)utilizzato dalle piante. La presenza di
aria (la buona struttura del terreno) è fondamentale per garantire
questi processi ossidativi che si svolgono quando la temperatura sale
in primavera e le piante sono in grado di assorbire i nitrati che,
altrimenti, facilmente solubili, sono dilavati e inquinano le acque
superficiali e profonde. Quando la sostanza organica si riduce ( a meno
dell' 1%), la struttura del terreno si degrada, perdendo porosità,
capacità di trattenere e far circolare l'acqua, di garantire la
presenza di aria, le catene dei cicli biologici si squilibrano e il
"lavoro biologico" gratuito del sistema terreno si riduce. Deve essere
compensato con più concimi, più lavorazioni, più irrigazioni. Il suolo
depauperato di sostanza organica, maltrattato, compresso, diventa - con
la siccità - un blocco di cemento. E quest'anno ci accorgiamo di quanto
sia peggiorata la qualità dei terreni.
Pur compromettendo la
fertilità a lungo termine, pur dissipando un capitale naturale (di
humus, di biodiversità) accumulato in decenni e secoli, il sistema
poteva reggere sino a che il costo dell'energia (e quindi dei
fertilizzanti) era basso. Si parla a ogni piè sospinto si "circolarità"
ma si sono rotti i cicli per sostituirli con processi lineari
dissipativi (ma suscettibili di generare profitto finanziario).
Più terre
coltivate in modo meno intensivo: i dogmi produttivisti devono andare
in soffitta
Agroecologia è l'opposto della
tendenza a premiare da una parte l'agricoltura intensiva e a favorire,
dall'altra il rewilding, la forestazione di pianura, il set-aside. Il
fatto che il grosso del sostegno della PAC sia andato alle aziende
agricole europee più grosse e più intensive la dice lunga sulla
coerenza del mantra della sostenibilità. Se, in montagna, in assenza di
recupero di superfici da pascolo e da sfalcio, ci sarà un crollo del
patrimonio zootecnico (pilastro della vita economica locale) anche in
pianura si devono ricercare soluzioni. E queste, stante l'aumento
consistente e strutturale dei costi dei mezzi tecnici, non potranno che
essere cercate in sistemi meno intensivi che recuperino terreno
coltivato ponendo un fine alla schizofrenia dei boschi in pianura (un
conto sono i boschetti e i boschi ripariali un conto le "foreste"
vagheggiate dagli ambientalisti e dall'Ersaf poi abbandonate
all'incuria per i costi elevatissimi delle operazioni di pulizia
selvicolturale), delle logistiche, delle autostrade inutili.
Abbiamo trasformato la pianura lombarda
nell' Iowa, e adesso?
Sinora non è stato possibile proporre, al di fuori di situazioni
particolari, un riorientamento degli indirizzi colturali e zootecnici
perché gli addetti ai lavori erano imprigionati nel dogma della
struttura fissa dei costi e dei prezzi. Dato per scontato che il prezzo
dei mezzi tecnici e dei prodotti venduti sul mercato rappresentassero
variabili indipendenti, si è operato, come già ricordato, solo sul piano dell'aumento della produttività per
unità lavorativa, ottenuto con l'economia di scala (aziende più grandi,
più animali allevati), con l'aumento della dotazione di capitale per
unità lavorativa (macchine più grandi, costose, potenti) con l'aumento
delle rese unitarie (kg per vacca, t per ha). Ci hanno messo tanto a
convincere gli agricoli. Ma ce l'hanno fatta. Ed ora è difficile
ragionare con un nuovo scenario (anche se i prezzi di gasolio. mangimi,
urea sono molto "educativi" a riguardo). Pensare di ridurre i costi,
aumentare i prezzi era considerato utopistico. Eppure qualche forma di
diversificazione dal main stream è già in atto da anni. Il risultato è
che il rapporto del Valore Aggiunto/Produzione lorda può aumentare e
questo, come già anticipato, consente di ammortizzare i rincari dei
beni intermedi consumati dall'azienda e di difendere il reddito. Il
peso del Valore Aggiunto può aumentare a condizione che aumentino i
reimpieghi, si riducano i costi, si spuntino prezzi migliori. Di solito
l'aumento di peso del Valore Aggiunto è il risultato dell'adozione di
uno stile produttivo diverso che comporta miglioramenti da tutti o
quasi tutti questi punti di vista (faremo subito degli esempi a
proposito).
Le aziende zootecniche si prestano bene a mettere in evidenza cosa
succede riducendo la specializzazione e l'intensificazione produttiva.
Dalla loro hanno il vantaggio di poter sfruttare diverse
complementarietà che consentono di ridurre i costi (per esempio l'uso
delle stesse trattrici per alcune operazioni in campo e in stalla)
oltre che poter disporre di importanti reimpieghi (concime, foraggio,
paglia quando si usava il letame). In barba alla criminalizzazione
ideologica dell'allevamento animale (che non fa distinzione tra
l'azienda famigliare con i pascoli e i prati e gli animali mantenuti in
condizioni di benessere ottimale e i feed lots con migliaia di bovini
da carne e i lagoni di deiezioni), l'azienda a indirizzo misto ,
policolturale, con disponibilità di concime organico (e magari di
energia animali per lavori leggeri) è quella candidata alla conformarsi
in modo più facile e naturale all'agroecologia. L'esperienza
delle aziende che, imboccata una traiettoria
"proto-agroecologica", hanno sostituito sistemi a elevata
specializzazione, alti input, alte produzioni unitarie con sistemi meno
"spinti" indica la possibilità di ridurre i costi per spese
veterinarie, mangimi, concimi chimici, rimonta, acquisto di seme di
tori a fronte di diminuzioni di produzione (per vacca, per addetto, per
ettaro) che sono, almeno in parte, compensate dall'aumento del prezzo
del latte, in parte legato ai premi per la qualità, in parte alla
possibilità di differenziare il prodotto finale (latticini) sulla base
della razza (il parmigiano delle vacche rosse) o del sistema di
alimentazione (il grana padano dei prati stabili, il latte-fieno).
Animali e colture: un sistema unico
che solo il riduzionismo tecnicista separa arbitrariamente
L'adozione di una risorsa genetica animale meno specializzata, con
obiettivi di produzione unitaria più bassi (ma più elevati in termini
di fertilità, vendita di carne, minore morbilità, durata in stalla)
implica, a cascata, modifiche nel sistema colturale in senso
agroecologico. Oltre all'ampliamento della quota di erbai di medica,
prato stabile (in parte pascolato almeno dagli asciutti), un indirizzo
zootecnico meno spinto, dal momento che consente di ridurre il
fabbisogno di proteina digeribile, non solo riduce il fabbisogno di
soia e di nuclei proteici rispetto al razionamento per alte produzioni
a base di silomais, povero di proteina, ma consente di non anticipare
lo sfalcio (come si consiglia per ottenere un'elevata quota proteica),
e di massimizzare le Unità foraggere latte (energia) per ettaro (oltre
che favorire la disseminazione e conservare e repcuperare la
biodiversità che, oggi, anche nei prati stabili, in forza delle elevate
applocazioni di azoto e dello sfalcio precoce è andata riducendosi). Di
qui una cascata di conseguenze agroecologiche positive: il contenuto di
azoto dei liquami/letame si abbasserà e il rapporto C/N si alzerà,
riducendo le perdite di azoto nelle varie fasi (in atmosfera e nelle
acque) e favorendo i processi di umificazione.
Più prati stabili ed erbai di
leguminose, meno trinciato (e soia)
Considerato che il mais richiede inevitabili trattamenti erbicidi
(seminato ad aprile sarebbe soffocato dalle infestanti se non
intensamente spruzzato tanto che, regolarmente, ogni anno nel Po, e
negli affluenti i valori di pesticidi superano i limiti di legge),
l'uso di urea per la "partenza della coltura" (con applicazione di
unità di azoto ulteriori rispetto alle già tantissime provenienti dai
liquami), lavorazioni di aratura e preparazione del letto di semina,
che va abbinato nella razione alla soia, che lascia spesso il terreno
scoperto per in autunno e in inverno, non è azzardato sostenere che la
minor produzione di sistemi foraggeri , basati con più ampio spazio per
gli erbai di leguminose e sul prato stabile (produzione di t di
sostanza secca silomais = 18, medica = 14, prato stabile = 10) possono,
in presenza di prezzi costantemente alti di gasolio e urea, essere
facilmente compensati se c'è un sistema di premialità (PSR) che abbia
il coraggio di tenere conto della differenza sostanziale di
esternalità (impatti ambientali) dei due sistemi foraggeri. Da un
punto di vista agroambientale appare decisivo il contributo del prato
stabile alla
fissazione della CO2 e al mantenimento e implementazione della
fertilità a lungo termine (legato alla presenza di sostanza organica).
Qui trascuriamo pure i valori paesaggistici, estetici, ricreativi (ma
non dimentichiamoli perché l'immagine di un prodotto, per un marketing
territoriale efficace, è legata molto alle immagini paesaggistiche,
vedi i prati stabili del Mantovano che si valorizzano attraverso il
grana padano dei prati stabili ma, in modo congiunto, anche con la
candidatura Unesco dei prati in quanto paesaggio). Inutile aggiungere
che, per il prato, stabile si utilizzano solo i concimi organici, che
il reticolo immenso di sottili radici delle foraggere è in grado di
intercettare in modo efficiente i nitrati, che nel suolo si mantiene
un'elevata biodiversità, che gli insetti impollinatori non corrono
rischi di essere uccisi dai prodotti chimici e dalle sementi conciate,
che, per definizione, il terreno è indisturbato e può assumere la
struttura glomerulare ottimale.
Oggi si rivalutano i sistemi di
alimentazione "a verde". Sino a pochi anni fa gli antesignani che
avevano adottato questa "retroinnovazione" erano considerati degli
stavaganti
Uno stile produttivo, fatto di risorse
umane, di creatività, relazioni, stimoli motivazionali, valori da
condividere
Il conto colturale non può
comunque essere disgiunto dal conto economico della stalla. E'
l'insieme di un nuovo "stile produttivo" esteso a tutta l'azienda che
può portare miglioramenti.
Meno teso alle rese elevate a tutti i costi a ridurre i tempi delle
operazioni, lo stile agroecologico può permettersi macchinari e
tecnologie meno up to date,
meno sofisticati, meno costosi, meno dipendenti da servizi costosi di
assistenza. Macchinari che il bravo agricoltore è (era) capace di
riparare da solo. Ed ecco che si può allora anche dare spazio
alla macchina usata, al modello più spartano, ecco che si può prestare senza
eccessivi patemi d'animo la macchina a un collega, innescando quelle
relazioni di reciprocità che costruiscono in modo cumulativo la
fiduciam e che, anche se gli economisti agrari (a differenza dei
ruralisti) non amano sottolinearlo, rappresentano un capitale aziendale
e un modo di ridurre i costi. Uno stile aziendale "neocontadino" e
agroecologico è uno stile più rilassato che facilita i rapporti umani
dentro la famiglia, con i dipendenti, con i colleghi, con i consumatori
(e con gli animali), che consente di dare spazio ad attività che per lo
"stile iperproduttivistico" appaiono perdite di tempo. Così ci si
informa di più, si coltivano relazioni e interessi, ci si scambia idee
ed esperienze tra la cerchia dei colleghi e fuori. E si elaborano
soluzioni innovative (o retroinnovative, che significa la tradizione
reinventata nelle nuove condizioni del presente), si adottano le
"novità" (le novelties della
letteratura), ovvero soluzioni inaspettate che sorgono da basso,
dall'esperienza di campo, a dispetto delle forme istituzionalizzate di
ricerca, del mainstream orientato dagli interessi delle multinazionali,
della consulenza commerciale.
Ritorno all'azienda a dimensione di
famiglia (dopo seicento anni)?
Cosa significa in termini economici un nuovo stile produttivo
neocontadino e agroecologico? Che, oltre a recuperare autonomia,
si ottimizza e rende efficiente l'utilizzo delle specifiche risorse
aziendali e locali (ogni azienda ha risorse specifiche, vuoi umane,
vuoi legate alla storia pregressa, alla pedologia, alle razze locali,
mediato da conoscenze tradizionali contestuali, rivalutate e validate
dall'osservazione e da un continuo confronto sui risultati di campo.
Vuol dire che, se si abbandonano i "protocolli", i manuali, le
saccenterie accademiche e commerciali, che non tengono conto (non è nel
loro interesse) di specificità locali atte a far risparmiare
l'agricoltore, si può operare un fine
tuning, magari empirico, ma forse più efficace della precision farming (che comunque si
basa sul riduzionismo dei parametri). Un modo per ridurre i costi ma
anche per migliorare le risorse e la qualità dei prodotti (e quindi il
loro prezzo). Il tutto in modo economico, usando al meglio e stimolando
la risorsa umana, quella dell'imprenditore, quella famigliare ma anche
quella esterna - i collaboratori salariati - vista oggi, spesso,
tristemente come un male necessario (in attesa di sostituzione di un
robot umano con uno artificiale) ma che può anche consistere in una
risorsa per la crescita dell'azienda. E qui una conclusione veramente
scandalosa: tutto ci dice che l'azienda agroecologica, resiliente ecc.
del prossimo futuro, non solo ridurrà la manodopera (possibilmente
famigliare) ma la aumenterà (almeno per unità di superficie, capi
allevati ecc.). Aziende esistenti che si fanno più piccole, ma più
efficienti, profittevoli e resilienti (e meno stressate) e nuove
aziende di chi crede nel ritorno alla terra non come speculazione, moda
ma per la convinzione, la convinzione che l'agroecologia, e non
l'ambientalismo da salotto, può fare molto per la società.