Le "ricette" ambientaliste vanno nel senso opposto a quello di un'ecologia che pone
al centro delle sue preoccupazioni e delle sue strategie quella sottile, ma cruciale "epidermide" del
pianeta che è il suolo. La rigenerazione del suolo agrario (40% delle superfici emerse) è
una chiave di volta, attraverso strategie di distacco dal paradigma agroindustriale, per la salute
della terra, delle acque, dell'aria. La "rinaturalizzazione", la forestazione dei pascoli rappresentano
errori ecologici che si spiegano solo con l'interesse del sistema industriale a sottrarre completamente
la produzione di cibo all'agricoltura, a produrre cibi artificiali.
Come per molto altri aspetti, la pandemia ha portato all'attenzione del pubblico delle realtà
che, nell'era pre-Covid, apparivano fantascientifiche o comunque futuribili. Nel clima vagamente
apocalittico, con la gara a terrorizzare la popolazione per prepararla ad accettare ogni imposizione
del sistema, è stata rilanciata insistentemente la prospettive di un drastico cambiamento dei
consumi alimentari. Le motivazioni per ridimensionare, sino ad abolire, i consumi di carne e di prodotti
animali sono indicate nella loro insostenibilità, nel contributo all'effetto serra e quindi al
riscaldamento climatico. Pare lecito, però, avanzare legittimi sospetti sulla strumentalità
con la quale l'argomento del riscaldamento climatico viene brandito per imporre nuovi scenari economici,
di produzione e di consumo (il great reset). Scenari che coinvolgono pesantemente anche l'agricoltura.
A parte l'evocazione di scenari catastrofisti, volti a far leva sulla paura e senza possibilità di
confutazione, quello che induce a ritenere strumentali le campagne ambientaliste è la palese
sottovalutazione di altri problemi ambientali altrettanto se non più e la voluta confusione
tra i problemi delle emissioni di gas serra, quelli dell'inquinamento e del consumo di energia.
L'agricoltura viene poi messa sul banco degli imputati quando è chiaro che è la sua sussunzione al sistema mondiale di produzione
alimentare e di altre commodities che la espone ai problemi ambientali.
Il riscaldamento climatico rappresenta solo uno dei fattori che incidono sul degrado ambientale
e sulla capacità dell'agricoltura di produrre alimenti per la popolazione.
Problemi altrettanto
gravi del riscaldamento climatico, sono quelli dell'estinzione di specie animali e vegetali e
di perdita di biodiversità agricola, dell'eutrofizzazione delle acque interne e costiere,
dell'inquinamento delle riserve di acqua dolce, dell'accumulo nel terreno di metalli pesanti e di
sostanze organiche tossiche persistenti. Un altro gravissimo problema riguarda l'erosione del suolo.
Stimata il 36 miliardi di tonnellate nel 2012. (fonte).
Un aspetto molto interessante del rapporto tra agricoltura, cambiamento climatico e altre criticità
ambientali è che, nella maggior parte dei casi, l'intervento sui sistemi agricoli (trasformandoli
da agroindustriali ad agroecologici) tende a promuovere una mitigazione complessiva dei diversi problemi.
L'agricoltura (compreso l'allevamento), se esercitati in modo ecologico, sono la medicina di
molti problemi ambientali.
L'ambientalismo tende a mettere sotto accusa l'agricoltura e l'allevamento in quanto tali, senza
considerare che - in forme agroecologiche - essi sono in grado di porre rimedio a molti problemi ambientali.
Le soluzioni che propone, non solo impediscono all'agricoltura di svolvere un ruolo chiave in una vera transizione
ecologica (cosa ben diversa da quella per cui spingono gli interessi finanziari e i verdi,) ma la espongono
ad ulteriori minacce: la sottrazione di terreni per la produzione alimentare per la produzione insostenibile
di agrienergia, la forestazione dei terreni agricoli o dei terreni agricoli abbandonati che potrebbero essere
rimessi a coltura per produrre con metodi agroecologici, il plauso per il cibo artificiale e la produzione
(con grande consumo di energia e materie non rinnovabili) di cibo senza terra.
L'agricoltura può fornire un contributo decisivo alla mitigazione dei problemi ambientali innanzitutto
conservando e incrementando la fertilità naturale del suolo, tornando a quella centralità della
terra, della sostanza organica, dell'humus che l'agricoltura industriale e le fabbriche del cibo senza terra
hanno messo e stanno mettendo, in forme nuove, in discussione. Un suolo ricco di sostanza organica, di humus
(la componente stabile della sostanza organica, circa il 60%), sottoposto a lavorazioni moderate, ha la
capacità di ridurre l'erosione, di conservare meglio l'acqua, di evitare la perdita per dilavamento
di sostanze nutritive (causa di eutrofizzazione delle acque) e l'insolubilizzazione dei micronutrienti, di
ridurre la temperatura alla superficie del suolo, di inattivare per adsorbimento le sostanze tossiche e
depurare l'acqua. L'humus non è importante solo per la nutrizione delle piante (mettendo a disposizione
in modo graduale gli elementi nutritivi) ma ha anche azione di tipo ormonico, stimolante la crescita, e
favorisce il metabolismo secondario della pianta, ovvero la produzione di composti in grado di difendere
la pianta dalle avversità.
Un pascolo semi-naturale o un prato permanente (ecco perchè la demonizzazione dell'allevamento
è un grave errore), massimizzano la biodiversità, la fertilità naturale del suolo (humus della
migliore qualità). In un pascolo e in un prato permanente l'enorme biomassa ipogea supera di decine
di volte (anche centinaia) la biomassa che si trova sopra il suolo (piante e animali). Osservando
un prato un profano, colpito dall'imponenza nel soprassuolo forestale, non ha la ben che minima contezza
di questa realtà. La biomassa di un terreno a prato è data dal denso intrico delle sottili radici
(la cui massa è superiore alla parte ipogea delle piante erbacee) ma anche dall'enorme massa di batteri,
funghi, micro e meso fauna, alghe. La struttura glomerulare del terreno di un prato proprietà colloidali
dell'humus (che favoriscono l'aggregazione di componenti organiche e minerali), l'azione aggregante delle
radici delle piante erbace, quella dei lombrichi favoriscono condizioni ottimali di aereazione, conservazione
dell'acqua, stabilità all'erosione da acqua e vento, resistenza alla compattazione.
Un pascolo semi-naturale e i prati permanenti per di più non richiedono né pesticidi
né concimazione chimica (essendo sufficiente, per il mantenimento della fertilità, la
decomposizione delle radici morte e degli altri organismi viventi del suolo e l'apporto delle deiezioni
del bestiame che utilizza il foraggio.
In questi sistemi le emissioni di metano dei ruminanti sono largamente compensate nel quadro di un
bilancio complessivo dei gas serra. Anzi, riconvertire a prati permanenti quelli che sono stati,
spesso in tempi recenti, trasformati in arativi (e monocoltura) consentirebbe di immagazzinare
enormi quantità di CO2. Nel suolo vi sono 2500 milardi di tonellate, di carbonio, molto di più di
quello nell'atmosfera (800 miliardi di tonellate) e nella biomassa animale e vegetale (560 miliardi
di tonnellate)(fonte). I suoli agricoli non solo rappresentano 5 milardi di ha, oltre il 40% della superficie
terrestre, ma di questi suoli 2/3 sono prati e pascoli che, in condizioni favorevoli (umidità e temperatura)
possono accumulare grandi quantità di carbonio organico (60% della sostanza organica del suolo).
Un'aspetto chiave per comprendere il ruolo dei sistemi agricoli nel ridurre le concentrazioni di
CO2 atmosferiche èla grande stabilità di alcune frazioni dell'humus, che possono avere
un turn-over secolare, che va certo al di là dei cicli forestali.
La forestazione dei pascoli è un tremendo errore
Gli orientamenti ambientalisti, supportati da alcune evidenze scientifiche, tendono a puntare sulla
forestazione di queste superfici sulla base della convinzione che i suoli forestali rappresentino un
efficace sistema per immagazzinare la CO2. Il ripristino delle condizioni naturali di terreni già
utilizzati dall'agricoltura, secondo alcuni studi potrebbe sottrarre dall'atmosfera 5,5
miliardi di tonnellate di CO2 all'anno (nel 2020, anno di pandemia e temporanea diminuzione
delle emissioni le tonellate di equivalenti di CO2 emesse sono state 36 miliardi).
(fonte).
Basterebbe però prendere in esame come, in climi temperati, gli orizzonti del suolo più ricchi di humus siano
molto più profondi nel caso dei pascoli che delle foreste per capire che la salvifica idelogia dell'albero
non abbia basi ecologiche. Una doccia fredda sugli orientamenti "rinaturalizzanti" (che ben si combinano con l'obiettivo di estendere le aree protette del pianeta al 30% entro il 2030 e, siccessivamente al 50%) è peroò
arrivata da un lavoro, pubblicato da <em>Nature<em> lo scorso marzo che ha preso in esame
100 diversi studi sperimentali nei quali le piante erbacee, gli alberi e i suoli sono stati esposti a
concentrazioni di CO2 più elevate di quelle odierne.
Il risultato è stato che il suolo
forestale non aumenta l'accumulo di carbonio mentre le praterie lo aumentano dell'8%. Di
per sé questi risultati hanno indotto uno degli autori a dichiarare al Guardian: "
Quello che ho trovato molto preoccupante in quel dibattito [sulla "soil restoration"]
è che le persone suggerivano di piantare alberi nelle praterie naturali, nella savana e
nella tundra. Penso che sarebbe un terribile errore perché, come implicano i nostri
risultati, esiste un potenziale molto ampio per aumentare lo stoccaggio di carbonio nel suolo
nelle praterie"(fonte).
Questo risultato può essere ottenuto in vari modi. Dove si praticano forme di pastoralismo
migliorando i sistemi di pascolo, spesso non adeguati alla finalità di conservazione del suolo
e della sua fertilità a causa di varie forme di costrizione (tra cui gli ostacoli alla
transumanza) subite dai popoli pastoralisti. Nei paesi ad agricoltura "avanzata"
le perdite di carbonio nel suolo possono essere altrattanto gravi che in aree aride.
Sugli arativi le lavorazioni profonde e ripetute, il peso delle macchine agricole, la
velocità degi organi discissori, l'assenza di rotazioni con l'inclusione
di prati temporanei ed erbai poliennali, l'uso e l'abuso dei concimi chimici
(si finanzia più facilmente - ovviamente nell'interesse dell'industria
- l'acquisto di macchinari sempre più potenti e a grande capacità
operativa piuttosto che l'esecuzione di analisi del terreno e di piani di concimazione
basati sui reali fabbisogni colturali) ha compromesso la struttura del suolo e la sua
composizione in sostanza organica (due fattori strettamente interdipendenti se si
innesca un circolo vizioso). Così si è persa la metà o i due
terzi nei casi peggiori della dotazione di sostanza organica dei suoli.
Da questo punto di vista lo spazio per i miglioramenti (lo stoccaggio di CO2 nel suolo è
uno degli aspetti) è è amplissimo. Basti pensare come l'utilizzo di fasce di prato
naturale interposte tra gli arativi può
apportare miglioramenti più che proporzionali alle superfici investite in termini di
biodiversità, erosione del suolo, capacità di ritenzione degli elementi nutritivi (
fonte)
Fronteggiare l'ambientalismo, che punta a sostenere
le politiche di rewilding (con l'ovvio corollario - per chi non lo avesse ancora capito-
di incoraggiare i business del cibo artificiale), richiede una svolta ecologica dell'agricoltura,
il suo sottrarsi ad una subalterità al sistema industriale che ne ha compromesso
il ruolo di mantenimento della salute della terra e di produzione di cibo sano.
Soffocata dall'industria che le procura i mezzi tecnici,
l'industria agroalimentare e la grande distribuzione, l'agricoltura vede;
annullate le capacità di scelta autonoma. A meno che recuperi autonomia (reimpieghi
aziendali, filiere corte dei prodotti, metodi di coltivazione e allevamento lontani dal
paradigma industriale). In assenza di un recupero di autonomia l'industria è
pronta, dopo averla resa un piccolo segmento delle filiere agroalimentari a fare a meno
dell'agricoltura, a produrre cibo senza la terra. Un tema che varrà la pena riprendere.