Conoscere
gli alpeggi: storia
L’ organizzazione dell’alpeggio nella
storia
di
Michele Corti
Sommario
Introduzione
Una realtà marginale?
L’alpeggio: un tempo (variabile) e … un luogo
Usi linguistici
L’alpeggio quale insediamento umano
L’antica origine degli alpeggi
e le forme di proprietà
Primordi
Dall’età antica al medioevo
La feudalizzazione
La formazione della moderna proprietà
comunale
Alpeggio
nobiliare e alpeggio contadino
Forme intermedie
La forme di conduzione degli alpeggi
Modelli di gestione dell’alpeggio tra
passato e presente
Diritti e
doveri
I sistemi
di gestione imprenditoriale basati sull’affitto
I sistemi
di gestione cooperativa degli alpeggi
Gli
“alpeggi a villaggio”: una gestione famigliare e femminile dell’alpeggio
Organizzazione degli uomini e dello spazio
La gerarchia dell’alpeggio
L’alpeggio: una realtà strutturata
Uomini e bestie in movimento
La monticazione
La
trasumanza bovina storica
Migrazioni
intra-alpine
La gestione dell’alpeggio oggi: verso una realtà famigliare aperta
Introduzione
Una realtà marginale?
Dietro l’immagine pacifica e un po’ bucolica degli alpeggi vi è una
realtà a volte molto diversa, che merita di essere approfondita. Con una certa
sorpresa scopriremo che gli alpeggi sono tutt’altro che una realtà “fuori dalla
storia”.
La storia degli alpeggi è marcata da processi storici di lungo periodo
(la “ruralizzazione” dello spazio alpino nella preistoria, lo sviluppo e il
declino delle strutture della società rurale) ma è altrettanto veroche esso è
stato protagonista di avvenimenti riconducibili a ben definiti “passaggi”
storici: la formazione dei comuni rurali (nel XIII secolo), il trasferimento
delle proprietà collettive dagli “antichi originari” al moderno comune politico
(all’inizio del XIX secolo).
Il loro possesso degli alpeggi ha interessato personaggi tra i più
potenti delle rispettive epoche (i vescovi e i grandi monasteri tra VIII e X
secolo, i grandi feudatari dei secoli successivi). Molto spesso la loro è stata
una storia tutt’altro che pacifica: comunità e signori feudali non hanno
esitato a far scorrere il sangue per accaparrarsi i diritti sugli alpeggi. Le
razzie di bestiame sugli alpeggi non sono solo un ricordo di epoche remote ma
sono state praticate sino alle soglie dell’età moderna.
Tanto interesse e tanti conflitti (legali per lo più) non fanno che
sottolineare l’importanza dell’alpeggio che oltre a costituire un elemento
chiave per l’economia di sussistenza delle comunità alpine ha prodotto nel corso
della storia anche molte rendite a beneficio di ricchi proprietari e intermediari
e molti profitti per appaltatori e imprenditori.
Ma l’alpeggio ha significati che vanno al di là dell’economia. In epoca
proto-storica i gruppi che componevano le antiche i gruppi tribali utilizzavano
in comune i pascoli alpini e qui celebravano, in forma sacrale, le ragioni
della loro unità. In epoche più vicine a noi gli alpeggi hanno rappresentato un
patrimonio comune alle diverse “terre” che costituivano le comunità di valle e
poi delle squadre o vicìnie in cui erano divisi i comuni.
Il grande valore simbolico degli alpeggi deriva da questo loro
costituire un elemento di appartenenza comune, rafforzato dalle numerose lotte
sostenute per difenderli dalle mire di comuni vicini e dagli immensi
investimenti di fatica e di denaro destinati alla loro bonifica e miglioramento.
L’alpeggio non è però solo una risorsa simbolica e una preziosa testimonianza,
ma rappresenta anche un patrimonio prezioso da destinare anche a nuove funzioni
economiche, sociali e culturali. Elemento chiave di una fruizione “dolce” della
montagna, l’alpeggio può rappresentare per le comunità locali anche un motivo
di coesione e di riferimento valoriale e identitario.
L’alpeggio: un tempo (variabile)
L’alpeggio consiste nel trasferimento,
per l’intero periodo estivo, del bestiame e di personale su determinate aree di
pascolo dotate di ricoveri per uomini e animali, nonché di locali per la lavorazione
del latte e la conservazione del latticini. L’alpeggio coincide
solitamente con i tre mesi di giugno, luglio ed agosto (per una durata
“classica” di 80-90 giorni). A volte può ridursi a soli due mesi, come a
Livigno, in altri casi, come nelle condizioni delle Prealpi, può estendersi a
quattro mesi. La durata dell’alpeggio è però più espressione del sistemi di
gestione che di differenze di condizioni ambientali. Spesso una parte del bestiame
di proprietà del “caricatore” ( l’affittuario-imprenditore) o dei pastori si tratteneva
ancora per parecchi giorni dopo lo “scarico” delle bestie dei piccoli
proprietari (stáa indrée). In alcuni
casi si praticava il “mezzo alpeggio” (mezza paga); in bassa Valcamonica i
proprietari delle bovine a volte le facevano scendere al 25 luglio (S. Giacomo)
a pascolare i maggenghi di “mezza montagna” (maggengo = prato-pascoli di
proprietà privata con piccole stalle e fienili).
e … un luogo
Per estensione si definisce “alpeggio” (sinonimi: alpe o
malga) anche un luogo. Vediamo alcune definizioni: “[...] il significato di
Alpe in ciascun paese delle Alpi è quel
luogo in cui nella stagione estiva si raccolgono le bestie bovine, ed altre, le
si mungono, si fabbricano i formaggi” (Documento del 1835 dei Deputati -
sorta di giunta comunale - di Casasco, Co); “[...] la massima parte dei comuni
possiede dei pascoli estesi sui monti con stalle, qualche casolajo, ed una
fontana nel mezzo. Questi luoghi che si
chiamano alpi, vengono affittati dalle comuni, o dai particolari possessori
ad uno o più alpieri per uno o molti anni” (Melchiorre Gioia, 1804).
Alla definizione di alpeggio è sempre stata associata una
certa ambiguità. Il già citato documento di Casasco è, a tal proposito,
emblematico. In esso l’alpe è identificata con i fabbricati, ma … anche con
l’insieme di fabbricati e di pascoli: “[…] tali luoghi si compongono di una
corte detta barco, di casine dette casere, ed anche di altri edifici come
sostre, stalle, caselli, nevere. […] L’insieme
della corte o barco degli edifici e dei pascoli […] costituiscono uno
stabilimento che pur chiamansi alpe”
A volte è prevalsa una definizione che mette l’accento sui pascoli: “Piu su trovansi gli alpi, pianori rivestiti
di folte erbe sustanziose e fragranti, che l’inverno restan coperte di neve”
(C. Cantù, 1858).
Usi linguistici
La denominazione dell’alpeggio varia anche nell’ambito delle stesse Alpi lombarde. Nella
parte orientale, in sintonia con quanto accade in Trentino, gli alpeggi sono
indicati come “malghe”. Questa
denominazione interessa la Valcamonica e le valli Bresciane, le bergamasche val
di Scalve e val Borlezza e, in parte, anche l’alta Valtellina. Nel resto della Lombardia gli alpeggi sono,
invece, definiti “alpi” (al femminile). In Canton Ticino e nelle limitrofe
valli comasche del Lario e del Ceresio l’“alpe” è di genere maschile (plurale
“gli alpi”).
Il termine “malga” indicava
anticamente la mandria (o gregge) di animali da latte; tale uso è rimasto vivo
in gran parte dell’area occidentale e nelle valli bergamasche. A completare il
quadro degli usi linguistici locali va segnalato che, nelle valli bergamasche
(ma, spesso, anche in Valtellina), i toponimi che più frequentemente indicano
il centro dell’alpeggio non sono “Alpe di …” e “Malga di …” ma “Casera di …” e
“Baita di …” (spesso al plurale). Le denominazioni utilizzate nelle parlate
locali per definire l’alpeggio sono aalp
(area lariana, Valchiavenna, parte della Valtellina); altrove prevale la voce muunt (con le varianti moont, mut, muntagna).
L’alpeggio quale insediamento umano
L’alpeggio rappresenta un’azienda
agricola “stagionale” ma anche un vero e proprio insediamento umano, sia pure
temporaneo. Come altri insediamenti rurali può assumere forma isolata
(analogamente alle cascine della pianura) o aggregata (“a villaggio”).
Un alpeggio è una realtà
organica e autosufficiente, in grado di risolvere i problemi di approvvigionamento
idrico ed energetico. Oltre ai fabbricati vi sono delle fontane o laghetti
artificiali per l’abbeverata del bestiame e vi era sempre la disponibilità di
aree boscate dove poter tagliare la (non poca) legna necessaria per la
lavorazione del latte.
Alcuni alpeggi si trasformarono nel
tempo in abitati permanenti (es. Madesimo in val S. Giacomo, Gerola alta in
Valgerola). Nel XVIII secolo in seguito alla recrudescenza della “piccola era
glaciale” (tra XVII e XIX secolo) alcuni abitati permanenti “retrocedettero” ad
alpeggicome nel caso di S. Sisto e Mercadèl (entrambi a quota 1.800 m)
in comune di Campodolcino (val S. Giacomo). Più frequente il passaggio da
maggenghi ad alpeggi (e viceversa). In anni
recenti la crisi dei maggenghi ha spinto a “recuperare” i maggenghi limitrofi
agli alpeggi quali “stazioni basse” di questi ultimi.
L’antica origine degli alpeggi
Primordi
Prima del 4.000 a.C. l’uomo neolitico utilizzava i pascoli in modo
saltuario. In seguito all’aumento dell’importanza dell’allevamento iniziarono a
salire ogni anno su determinati pascoli le mandrie e le greggi delle tribù.
Esse erano affidate ad appositi pastori consentendo agli altri membri del
villaggio di dedicarsi a valle ai lavori agricoli. Era nato l’alpeggio.
Il raduno delle mandrie/greggi favoriva, però, la diffusione di
malattie e la concupiscenza da parte delle altre tribù. La storia di Ötzi, morto 3.300 anni fa, è una delle
tante di razzie d’alpeggio e ci fa capire come fare il pastore significò per
molto tempo essere pronti a difendere in armi il bestiame dai razziatori e dai
predatori (ed essere anche guerrieri).
Tra la fine dell’ età del rame e l’età del bronzo antico (2.200-1.600
a.C.) si accentuano i disboscamenti e migliorano le tecniche casearie ma il
peggioramento climatico rallentò questi sviluppi. Nell’età del ferro (iniziata
verso il 900 a.C. e proseguita sino alla romanizzazione), la disponibilità di
più efficaci strumenti di taglio e il miglioramento climatico portano a un
nuovo sviluppo dell’alpeggio che assunse caratteristiche molto simili a quelle
attuali. Appaiono costruzioni in pietra a secco e si perfezionano le tecniche
casearie ormai vicine a quelle attuali.
Le ricerche di Francesco Fedele hanno consentito di documentare la
presenza di alpeggi in val S.Giacomo (So) già verso il 3.000 a.c..
La vicende della proprietà degli alpeggi dall’età
antica al medioevo
Attraverso i millenni gli alpeggi hanno conservato la loro funzione. Sono,
però, cambiati i rapporti sociali alla base del loro sfruttamento.
In epoca romana gli alpeggi sono stati di proprietà imperiale o di
grandi latifondisti. Nell’alto medioevo hanno fatto parte del demanio regio
longobardo. Quest’ultimo era organizzato in grandi proprietà con al centro una curtis. Sulle terre della curtis i contadini erano tenuti a
prestazioni di lavoro in cambio del diritto di utilizzare pascoli e boschi. Di
fatto, come in età romana, le comunità rurali continuarono a gestire gli
alpeggi in modo autonomo.
Attraverso le donazioni alla Chiesa (iniziate in età longobarda e
divenute più frequenti in quella carolingia) le grandi proprietà passarono in
mano ai vescovi e ai potenti monasteri. Divennero proprietari di alpeggi non
solo i vescovi di Como, Bergamo, Brescia, ma anche quelli al di Lodi e di Pavia.
Possedevano alpeggi anche i grandi monasteri (S. Ambrogio a Milano, S. Abbondio
a Como, S. Giulia e SS, Faustino e Giovita a Brescia). In un’epoca di forte
riduzione degli scambi l’approvvigionamento di derrate pregiate come l’olio d’oliva
dei laghi o i formaggi egli alpeggi era possibile solo grazie al possesso di numerose
terre distribuite tra la pianura e le Alpi. I titolari ecclesiastici dei
diritti di proprietà o di sfruttamento degli alpeggi raramente li utilizzavano
con loro bestiame e loro personale. Molto più spesso la gestione era affidata a
concessionari. Questi ultimi erano personaggi potenti che dovevano anche
assicurare una difesa “militare” degli alpeggi. Ancora all’inizio del XVIII
secolo il comune di San Fedele (in val d’Intelvi) affitta l’alpe comunale a
tale Brentano Monticelli della nobile famiglia di Mezzegra (sul Lago di Como). Ancora
nel ‘900, gli affittuari degli alpeggi della bassa Valtellina erano spesso notai
o altri esponenti della borghesia locale.
Tra il X-XI secolo la proprietà degli alpeggi si trasferì dalle mani di
monasteri e vescovi a quelle di potenti famiglie di vassalli e amministratori
di beni ecclesiastici (es. i Cattanei nelle valli bergamasche e i Vicedomini in
Valtellina). In alcuni casi la proprietà ecclesiastica si mantenne a lungo. L’Abbazia
dell’Acquafredda (Lago di Como) mantenne sino al XVI la proprietà di diversi
alpeggi in val Lesina e val del Bitto (bassa Valtellina) dopo essere
subentrata, nel XIII secolo, al vescovo di Lodi. Le proprietà ecclesiastiche,
che non erano state acquisite da proprietari laici, passarono gradualmente alle
chiese locali; esse subirono vaste espropriazioni a vantaggio di privati al
tempo della Repubblica Cisalpina e per opera del Regno d’Italia post-unitario
(1866).
La feudalizzazione
Alle grandi famiglie subentrarono nella proprietà degli alpeggi personaggi
della nobiltà locale. Il passaggio di
mano avvenne attraverso le vendite, ma soprattutto le investiture “a livello”
(una forma di affitto perpetuo che prevedeva il riscatto). La nobiltà locale
mantenne la proprietà degli alpeggi sino al XIII secolo, quando si affermarono
i comuni rurali, ma, in alcuni casi, anche più a lungo. La piccola nobiltà
locale – con l’eccezione di alcune alte valli - incise sulla gestione degli
alpeggi in modo più profondo che i proprietari che si erano succeduti
dall’antichità. Essa usava gli alpeggi per sé e per la propria clientela, ma vi
mandava anche a pascolare bestiame forestiero e, cosa fortemente invisa alle
comunità contadine, non si faceva scrupolo di cederne il possesso a forestieri.
Nel XIII secolo, grazie al “riassorbimento” del ceto nobiliare locale
nell’ambito di un’unica comunità territoriale, sorsero i comuni rurali. Essi,
vuoi per via “politica” che attraverso gli acquisti, riuscirono ad assumere il
possesso della maggior parte degli alpeggi che, da allora, furono goduti senza
distinzioni dalle famiglie “originarie”. Per reazione alle tendenze
disgregatrici i comuni non solo vietarono la presenza di bestiame forestiero sugli
alpeggi e la cessione dei diritti di pascolo ma limitarono anche i diritti di
successione delle donne sposate. La gelosa difesa dei propri alpeggi dai
“forestieri” resterà nelle regole dei comuni sino al ‘900.
La formazione della moderna proprietà
comunale
Una circostanza apparentemente strana è costituita dalla frequenza con
la quale i comuni, in quanto proprietari fondiari, posseggono alpeggi nel
territorio di altri comuni amministrativi.
La ragione va cercata nel passaggio di proprietà dalle comunità di
valle ai comuni più piccoli costituiti in seguito alla loro divisione. Le
“spartizioni” degli alpeggi dovettero tenere conto delle esigenze delle
comunità con numerosa popolazione e numeroso bestiame, ma scarsamente dotate di
pascoli. Ad esse vennero assegnati alpeggi siti anche a notevole distanza. Un
caso emblematico è quello della val di Mello alla testata della val Masino. Essa
assunse tale nome in quanto, nelle divisioni dei beni del vecchio comune di
Traona, venne assegnata ai “terrieri” di Mello, località di mezza costa del
versante retico della bassa Valtellina.
La divisione in comuni più piccoli non comportò sempre la spartizione
degli alpeggi. “Diritti di compascuo” o “promiscuità d’uso” sopravvissero a
lungo divenendo causa di liti. Ancora nel XIX secolo, in alta val Brembana,
valeva il “diritto di compascuo” e i “terrieri” potevano utilizzare
gratuitamente i pascoli degli altri comuni della vecchia comunità di valle. In
Valsassina, fino al XVIII secolo, i boschi e i pascoli della Squadra del Conseil vennero goduti in
consorzio dai comuni di Barzio, Cremeno, Cassina, Moggio e Concenedo. Nella
comunità di Lecco, i conceliba (antichi
beni comuni) furono divisi tra il borgo e i comuni limitrofi solo alla fine del
XIX secolo!
I processi di divisione delle antiche proprietà collettive assegnarono
spesso la titolarietà dei diritti d’alpeggio ad unità minori rappresentate da gruppi di famiglie “originarie” di determinate
borgate o frazioni (vicìnie). Nel
sistema della vicínia il diritto
d’alpeggio è legato alla residenza e si perde trasferendola altrove. Le vicìnie e le ulteriori suddivisioni
della vicìnia, (malghe a Ponte Valtellina, colondelli
altrove) utilizzavano di frequente gli alpeggi con un sistema a rotazione. Era
un sistema per non scontentare nessuno ma anche per mantenere dei legami tra
piccole comunità.
La vicìnie in Lombardia
decaddero in larga misura in forza dal Decreto n. 225 del 25.11.1806. Sopravvissero
qua è la nelle valli bergamasce e in Valcamonica. In Canton Ticino le vicínie (patriziati) restano ancora oggi proprietarie dei beni
silvo-pastorali e, in primo luogo, degli alpi.
Le vicende storiche
illustrate spiegano perché gli alpeggi di proprietà comunale rappresentano il
55% del totale (con oltre il 60% delle superfici). La proprietà comunale
prevale quasi ovunque ma con significative eccezioni. Nella bassa Valtellina la
proprietà privata ha una notevole importanza; qui la nobiltà mantenne più a
lungo il possesso degli alpeggi, cedendoli poi gradualmente ad elementi della
borghesia. Ancor oggi i conti Caccia Dominioni di
Morbegno sono proprietari di alpeggi nelle valli del Bitto. Qui l’alpeggio ha
sempre rappresentato, oltre che un’importante realtà economica, anche un
elemento di prestigio tanto che alcuni facoltosi imprenditori hanno acquistato
alpeggi anche in anni recenti.
Altrove, all’opposto, prevalgono
forme di proprietà privata “sociale”. E’ la situazione tipica di tutta la Valchiavenna
ma anche di alcune zone della Valtellina e delle province di Bergamo e Brescia.
Queste proprietà sono divise in quote che danno diritto a caricare un’unità di
bestiame grosso. Le quote (“vaccate”, “erbate”) possono essere vendute,
affittate e trasmesse in eredità come un qualsiasi titolo di proprietà.
Gli alpeggi condominiali
a volte rappresentano una sopravvivenza delle vicínie, in altri casi sono semplicemente il risultato delle
successioni ereditarie. In Valchiavenna le comproprietà traggono origine
dall’assegnazione di diritti di uso perpetuo ed ereditario (“diritto d’erba”) su
determinati alpeggi. Nel ‘900 questi condomìni hanno assunto la veste giuridica
del Consorzio. Il numero dei soci è molto elevato; nel 1907 si contavano 220
comproprietari all’Alpe Andossi (360 “vaccate”) e 150 all’Alpe Borghetto (195 “vaccate”).
In diversi alpeggi più piccoli il numero dei soci era spesso superiore a quello
delle quote. L’Alpe Corte Terza, in comune di Gordona, nel 1972, era utilizzata
da 150 ditte individuali, un numero enorme se si considera che un’indagine di
qualche anno dopo censiva 83 Uba (unità bovino adulto). Oggi, i titolari di
quote sono spesso interessati solo alle abitazioni, trasformate in seconde case,
mentre i pascoli sono utilizzati dai pochi comproprietari che allevano ancora
il o da un affittuario.
Le comproprietà
bergamasche erano molto più diffuse in passato. Qui, però, a differenza della
Valchiavenna, dove ogni comproprietario saliva in alpe, i titolari davano in
affitto le loro quote. Il loro minor coinvolgimento spiega perchè le hanno
gradualmente cedute e la proprietà si è concentrata in capo a uno o pochi
proprietari.
Forme
intermedie
Oltre alla
situazioni “tipiche” di proprietà, rappresentate dalla proprietà comunale, da
quella privata e da quella “sociale”, vanno registrate delle forme “ibride”.
Nel tempo
alcuni “particolari” edificarono delle baite e si ritagliarono delle proprietà
private ai margini inferiori del pascolo comunale. Si tratta di una situazione
presente sia in zone prealpine, con pascoli a quote piuttosto basse, che all’interno del
massiccio alpino, dove le baite private sono collocate a 1.800-2.000 m.
Il diritto di pascolo è così
legato al possesso (o alla conduzione in affitto) delle baite private adiacenti
ai pascoli comunali. E’ quindi cosa diversa dall’ “uso civico” (a favore della
generalità degli abitanti). A volte il pascolo esercitato dai proprietari di
queste baite si sovrapponeva con la conduzione degli alpeggi comunali. Quesa
“promiscuità” si registrava in alta Valcamonica. Anche nel Lario Intelvese gli
affittuari degli alpi comunali dovevano ammettere sul pascolo il bestiame
proveniente dai sottostanti muunt e
“cassinaggi”. Nel passato le forme di utilizzo promiscuo dello stesso bene erano
normali e non era raro che le comunità mantenessero persino quote di diritti su
alpeggi di proprietà privata.
La situazione attuale si
è in larga misura semplificata; nonostante ciò le forme di proprietà degli
alpeggi sono ancor oggi numerose e sopravvivono forme di proprietà “mista” (Tabella
1).
Tabella. 1 – Distribuzione degli alpeggi per forma di proprietà e provincia al
censimento degli alpeggi
|
Bergamo
|
Brescia
|
Como
|
Lecco
|
Sondrio
|
Regione
|
|
34
|
16
|
10
|
15
|
101
|
176
|
|
4
|
8
|
1
|
-
|
5
|
18
|
|
3
|
4
|
-
|
-
|
4
|
11
|
Comunanza o proprietà indivisa
|
10
|
9
|
-
|
-
|
3
|
32
|
|
-
|
-
|
1
|
-
|
13
|
14
|
|
0
|
2
|
-
|
-
|
2
|
4
|
Società per azioni o di altro tipo
|
3
|
1
|
-
|
-
|
2
|
6
|
|
2
|
2
|
-
|
-
|
-
|
4
|
|
4
|
-
|
-
|
-
|
7
|
11
|
|
-
|
-
|
-
|
-
|
1
|
1
|
|
1
|
10
|
3
|
2
|
11
|
27
|
|
1
|
-
|
-
|
-
|
-
|
1
|
|
1
|
1
|
2
|
-
|
-
|
4
|
|
101
|
166
|
42
|
42
|
124
|
475
|
|
27
|
18
|
3
|
6
|
26
|
80
|
La forme di conduzione degli alpeggi
Modelli di gestione dell’alpeggio tra
passato e presente
Oggi, nel 70% dei casi, gli alpeggi sono concessi in affitto a uno o
pochi “caricatori”. Le tantissime piccole “aziende” di sussistenza con pochi
capi di bestiame sono scomparse e, al loro posto, sono rimaste poche aziende
professionali con decine di capi bovini. Queste ultime, con il loro bestiame o,
al massimo, con quello affidato loro da pochi altri allevatori, riescono a
“caricare” facilmente un alpeggio. Molti alpeggi che, in passato, erano
utilizzati dalle “società d’alpeggio” o direttamente dai tanti piccoli
proprietari (mediante “uso civico” o il versamento di una tassa di pascolo) sono
stati affittati ai pochi allevatori del posto o, in mancanza, a quelli di altre
località.
Le forme di gestione degli alpeggi erano – a differenza di oggi - molto
differenziate ma potevano essere ricondotte a due modelli: quello dell’alpeggio
gestito come un’unità produttiva unica e quello dello sfruttamento “dissociato”.
Va subito detto il
sistema della gestione unitaria è il più antico. Gli statuti comunali della
montagna bresciana e della Valtellina illustrano un sistema di “far malga” che
equivale ad una gestione cooperativa del pascolo e della lavorazione del latte.
Alcuni incaricati, eletti dall’assemblea dei capifamiglia, assumevano i pastori
e tutti i proprietari di bestiame erano tenuti a condurlo sull’alpe comunale (dove
si formava una sola malga) e a
partecipare, proporzionalmente al bestiame caricato, alle spese della gestione.
Si tratta di sistemi che sono sopravvissuti sino a pochi anni fa.
Lo statuto di Cimmo (val
Trompia), del 1373, prevede delle disposizioni articolate circa la gestione
dell’alpeggio. I proprietari delle pecore da latte (le mucche e le capre
restavano “a casa”) dovevano nominare tre officiales:
il casaro (casarius), che riceveva un
salario, e tre “anziani”. Ad essi era assegnato il compito di riscuotere la
“tassa”, costruire le cascine e curarne la manutenzione, assumere i pastori,
procurare sale e pane e occuparsi del trasporto dei prodotti. Essi erano
responsabili anche per la custodia delle pecore e del formaggio.
Diritti e
doveri
Il diritto all’alpeggio
era garantito attraverso norme che escludevano i “forestieri” e il bestiame
“forestiero”. Dove vi erano pascoli in eccedenza ai fabbisogni della comunità alcuni
alpeggi venivano però affittati ai “forestieri”. Lo statuto di Teglio, per
esempio, prevedeva che “qualora le alpi avranno malghe o diritti di malga in
eccedenza, tali alpi siano cedute in nome del comune di Teglio al miglior
offerente, con ricavato che andrà al comune di Teglio”. Il diritto d’alpeggio
era bilanciato da precisi doveri. In diversi casi, gli statuti dissuadono con
pene pecuniarie i proprietari del bestiame a portare le bestie altrove (si
sarebbero sottratti al dovere di contribuire al mantenimento degli alpeggi). L’alpeggio
era obbligatorio in quanto le bestie rimaste “a casa”, o nei maggenghi, avrebbero
potuto sconfinare nei prati, negli orti, nei campi seminati o utilizzare quei
pascoli che dovevano restare a beneficio di tutti in autunno. Erano previste deroghe
solo a determinate condizioni. Lo statuto di Bianzone (Valtellina) esonera
dall’alpeggio gli animali da lavoro ma concede:
“chi
avrà para uno de vacche, o manze da lavoro non possa tenere altre vacche da
latte, ne capre, eccetto una capra da latte in caso di lattare fìgliolini per
necessità, della quale sia data informazione al Decano, e suoi ai quali
s’habbia licenza (autorizzazione) e quali conosciuta sian tenuti a darla “.
Nessuno,
senza particolari motivi poteva scaricare il proprio bestiame prima del termine
dell’alpeggio. L’apertura dell’alpeggio doveva essere rispettata
scrupolosamente. Se ciascun contadino-allevatore avesse fatto a gara per
‘anticipare’ gli altri avrebbe potuto compromettere la produzione del pascolo. Gli
statuti pertanto stabiliscono date precise di carico e scarico degli alpeggi
coincidenti con feste religiose o con apposita deliberazione. A Tirano il
“Tempo dell’estate
quando si monta nelle Alpi (...) sarà a quel Tempo giudicherà espediente il
Decano ò gli Uomini del Consiglio, però che detto termine non passi la Festa di
S.to Gio. Battista” mentre “non era possibile descendere dalle Alpi sé non
doppo la Festa di S. Lorenzo de
ciascun anno, e più presto ancora secondo verrà disposto nel Consiglio del dedeci
considerata la qualità de Tempi”.
Il diritto di mandare
all’alpe comunale il proprio bestiame era bilanciato da ben precisi doveri che
riguardavano la prestazione di giornate di lavoro ma anche limitazioni all’utilizzo
dei beni privati “complementari”. La conduzione di cascine limitrofe ai pascoli
d’alpe dava diritto, come già osservato, di “spingere” al pascolo un numero di
capi proporzionale alla produzione foraggera dei fondi. Questi prati privati
erano però sottoposti a servitù a favore della “mandra comunale” che poteva
pascolarvi nei tempi consuetudinari (diritto di traso).
Tra le antiche norme che
regolavano l’alpeggio vale la pena segnalare anche l’obbligo della noda. Si trattava di quei segni
particolari di riconoscimento degli animali dei diversi gruppi famigliare (tramandati
di padre in figlio) che gli allevatori applicavano al bestiame al fine diprevenire
l’abigeato.
I sistemi
di gestione imprenditoriale
I sistemi basati
sull’affitto e su una gestione imprenditoriale vedevano in passato quali
protagonisti i mandriani transumanti o ricchi personaggi locale. Il
proprietario dell’alpe (privato o comune che fosse) puntava in questo caso a riscuotere
canoni di affitto elevati e non poneva vincoli “sociali” alla gestione. Molti
comuni hanno per secoli ricavato la maggior parte delle proprie entrate
dall’affitto degli alpeggi. Avveniva così in val Taleggio, ma anche nei comuni
vicini della valle Imagna e della Valsassina dove, a
partire dal XVI secolo, gli alpeggi precedentemente utilizzati direttamente
dagli abitanti, vennero affittati ai “bergamini”. Nel XIX secolo il
comune di Breno, in Valcamonica, affittava a “malghesi” 20 alpeggi su 25, quello
di Bagolino affittava gli oltre 20 “monti” ai “malghesi” riservando solo il
Monte di Vaja (attuale Malga Vaia) ai piccoli proprietari del comune.
“L’affittuario dovrà
mantenere nel Comune di Mezzegra un buon Toro da tenersi dal 15 Maggio al 30
Settembre sull’Alpe e dal 1° Ottobre al 15 Maggio a Casa, e ciò sotto la pena
della multa di £ 40 e della rifusione di tutti i danni derivanti ai proprietari
delle bovine per la sua mancanza. Detto Toro dovrà tenersi nella località dove
abita l’affittuario, e se sarà un forestiere, in una delle Frazioni del Comune,
ma mai in cascinali sparsi e lontani dall’abitato. […] Per il mantenimento di
detto Toro l’affittuario non avrà diritto a compenso, ma potrà esigere centesimi
40 per ogni monta fuori dei mesi di Giugno, Luglio, Agosto e Settembre, nei
quali trovandosi all’Alpe il servizio sarà gratuito.”
Il corrispettivo dell’utilizzo del latte prodotto dalle bestie dei “comunisti”
era stabilito dal comune e basato sulla “misura” del latte prodotto dalle
bestie di ciascuno di essi. Il
capitolato dell’Alpe di Lenno del 1813 precisava che:
“Il conduttore dell’alpe sarà obbligato
a pagare ai rispettivi particolari dai quali riceve le bestie lirette nove once
12 butirro, e libbre di once 30 nove formaggio all’anno per ogni boccale di
latte di cui viene tassata ciascuna vacca; ben inteso che la predetta mercanzia
debba essere di buona qualità mercantile”.
Un ulteriore obbligo consisteva nel portare sulla piazza del paese ogni
settimana una data quantità di burro da vendere al prezzo stabilito dalla
Giunta comunale:
“Il conduttore dell’alpe prima di
estrarre butirro dalla comunità dovrà provvedere dell’occorrente tutti i comunisti nel quantitativo che loro
abbisogna […] al quale effetto dovrà in ogni giovedì di ogni settimana nei mesi
di giugno, luglio portare sulla piazza di Lenno lirette duecento di butirro di
perfetta qualità mercantile. […] Prima della vendita del butirro da farsi sulla
piazza di Lenno come sopra dovrà premettersi il suono della campana maggiore
per un buon quarto d’ora e dovrà pesarsi alla presenza della municipalità o da
persona dalla medesima delegata. La quantità di butirro di sopra espressa dovrà
il conduttore venderla ai comunisti predetti al prezzo di soldi dieci di Milano
per ogni liretta di once 12” .
Oltre a questi obblighi gli affittuari dovevano accettare sul pascolo
un certo numero di bestie dei “comunisti” che risiedevano nei maggenghi
limitrofi. Ad Ossuccio:
“Ciascun comunista ha diritto di mandare
una vacca e due allievi al vago pascolo nell’alpe, anche nel trimestre di
alpeggio, ritirandoli ogni sera nella stalla propria: paga allora al comune L.
6 per vacca e L. 1 per allievo. Per le bestie che i comunisti mandano nell’alpe
in più delle tre indicate, pagano all’affittuario L. 12 per vacca e L: 6 per
allievo, pel trimestre di alpeggio. Se il pascolo si estende a maggio e
settembre, le tasse raddoppiano”.
I sistemi
di gestione cooperativa degli alpeggi
Questi sistemi traggono
origine dal sistema di “far malga insieme” che abbiamo rinvenuto negli antichi
statuti dei comuni. Erano frequenti sia in Valtellina che in Valcamonica, dove
sono sopravvissuti sino a pochi anni fa. Stefano Jacini (noto uomo politico ed
esperto di agricoltura) alla metà del XIX secolo osservava come:
“[…] e quei comunisti che possiedono in
prossimità del pascolo cascine e prati conducono essi stessi, ognuno per conto
proprio, di giorno , il loro bestiame al pascolo, ritirandolo la sera nelle
cascine. Ma gli altri comunisti
consegnano il loro bestiame a guardiani nominati da loro stessi in apposita
assemblea. e pagati a spese comuni. Il bestiame è così riunito in mandra, il
latte lavorato in comune da un casaro stipendiato, i prodotti divisi in
proporzione del latte fornito dalle vacche di ciascun utente. […] Tutti i
comunisti pagano indistintamente al comune una tassa di erbatico di L. 3 per
ogni paga bovina, L. 1,5 per ogni mezza paga ovina, L. 25 per ogni capo equino”.
Gli “alpeggi a villaggio”: una gestione
famigliare e femminile dell’alpeggio
Le baite costituivano insediamenti più frequentemente accentrati,
collocati alle quote inferiore dell’alpe ma non mancano esempi di “villaggio
sparso”, costituito da baite isolate o da piccoli nuclei disseminati sui
pascoli (val S. Giacomo).
Le alpi-villaggio sono presenti in tutta la Valchiavenna, nella media e
alta Valtellina (val Malenco, val Grosina, val di Rezzalo), in alta
Valcamonica, in val Marcia e val Varrone (Lc). Casi sporadici si registrano in
Tremezzina (Alpe di Tremezzo), Valgerola (val Vedrano), Val Veddasca (Alpe di
Monterecchio) e Valmasino.
In diversi casi la gestione dell’alpe presentava aspetti parzialmente cooperativi
che prevedevano l’uso comune di ricoveri per glii animali e/o per la
lavorazione del latte. La lavorazione del latte era realizzata in forma comune,
mediante sistema turnario o anche mediante l’assunzione di un casaro. La
lavorazione in comune del latte in alpeggio, praticata anche in Valcamonica, ha
aperto la strada alla realizzazione (a fine XIX secolo) delle latterie sociali
o turnarie nei villaggi. A Premana (Lc) le alpi comunali erano utilizzate
mediante uso civico; qui, oltre alla latteria comunale, erano presenti anche
dei dormitori per le ragazze e le donne nubili.
“Sul Varrone un parroco, che le madri di
allora benedicevano, aveva voluto che il Comune costruisse in ogni alpeggio un
fabbricato destinato alle ragazze, perché nessuno scandalo accadesse: lo
chiamavano casina di lecc. Quando le fanciulle vi si ritiravano era tutto un
trillar di risa e il capo alpe aveva il suo daffare a impedire, come
obbligavano le clausole dei list [regolamenti
d’alpeggio n.d.a.], che i giovanotti vi si avvicinassero” (Pensa, 1977).
Nelle alpi a villaggio la socialità era intensa e vedeva spesso le
donne protagoniste, rovesciando il modello di società maschile proprio
dell’alpe a gestione unitaria (dove, anzi, la donna era tabù). Le operazioni di
caseificio erano spesso gestite dalle donne che potevano avvalersi dell’aiuto
di pastori per la conduzione della mandria.
Organizzazione degli uomini e dello spazio
La gerarchia dell’alpeggio
Negli alpeggi più grandi, organizzati al fine del profitto d’impresa,
vi erano molte figure e molti ruoli. Vengono di seguito descritte sulla scia di
osservazioni relative alla val Tartano, ma applicabili alle valli limitrofe (Bianchini,1985).
Caricatore (cargamuunt). E’l’imprenditore
che affitta l’alpeggio e vi conduce capi di sua proprietà ed altri presi a custodia.
Egli si assume gli oneri e i rischi
della gestione.
Soci (sòci). Coloro che dividevano con il caricatore
i rischi dell’impresa; di regola lavoravano come gli altri pastori.
Capo-alpe (cap/regidúr). Ruolo
rivestito dal caricatore, da uno dei
soci, dal casaro o anche da uno dei pastori esperti; al capo compete il piano
di pascolamento (dàa l’erba) e la
gestione del personale. Solitamente esegue anche le operazioni manuali.
Casaro (casèr). La figura del
casaro coincideva con quella del direttore tecnico e del responsabile amministrativo.
A volte partecipava anch’egli alla mungitura e allo spostamento della mandria.
Aiuto-casaro (cassinèr). Era un salariato che eseguiva le stesse
operazioni degli altri pastori, ma che doveva anche fare da garzone al casaro
(taglio della legna, trasporti, preparazione dei pasti).
Pastori (pastúr). Personale
che esegue tutte le operazioni di mungitura, governo della mandria,
manutenzioni, trasporti. Ai più anziani sono risparmiati i lavori più faticosi.
Pastorelli (cascìi/famèj). Hanno
l’incarico di spostare il bestiame e di eseguire le incombenze più leggere;
possono anche partecipare alla mungitura.
Capraio (caurèr/cavrée). Giovane
o anziano che fosse il capraio aveva (e ha tutt’ora) particolare dimestichezza
con le capre; riesce a richiamarle con vocalizzazioni, fischi, somministrazione
di sale.
Pecoraio (pegurée). Figura
scomparsa. Si occupava della custodia del gregge evitando che esso invadesse i
pascoli destinati alle vacche da latte; spesso utilizzava come ricovero un baitél posto a quote elevate. E’ una
figura oggi scomparsa perché i pastori si devono occupare anche della cura
delle manze.
Proprietari del bestiame (lacèr/casàlin).
Piccoli allevatori che affidano ad altri il loro bestiame e restano a valle per
eseguire il taglio del fieno e altri lavori agricoli. Essi salivano in alpe per
consegnare le bestie a inizio alpeggio e per prenderle in consegna alla fine.
Salivano anche per la pìsa. La pìsa (o “misura”) rappresentava un
avvenimento chiave dell’alpeggio; avveniva spesso al 28° giorno di alpeggio,
ma, a volte, era eseguita più volte nel corso della stagione. Non mancavano le
occasioni per contestazioni e liti.
L’alpeggio: una realtà strutturata
Gli alpeggi a gestione unitaria possono essere costituiti da diverse
stazioni, ciascuna dotata di fabbricati per la lavorazione del latte. Sono denominate mudate, corti o cambi. Spesso gli alpeggi sono suddivisi
in 2-3 stazioni, ma ve ne possono essere anche 5 o più (sino a una decina nelle
valli dell’alto Lario Occidentale). La stazione di “cima” è utilizzata una sola
volta, le altre per la “salita” e la “discesa” (quest’ultima, di norma, più
breve). Il centro dell’alpeggio, dove sorge la casera per la maturazione del
formaggio, spesso coincide con il “piede” (o “fondo”) dell’alpe. In funzione
delle possibilità di accesso la casera può però sorgere in corrispondenza della
“cima” o alla stazione di “mezzo”. Il
dislivello tra le stazioni è di norma di 100-150 m, ma può arrivare anche
a 700 m.
Quando l’alpe si articola in due stazioni è frequente distinguerle in
casera/baita/malga “bassa” e “alta”. Se sono tre di solito vi è quella di
“cima”, di “fondo”, e di “mezzo”. Non tutti gli alpeggi sono dotati di casera
e, a volte, si dovevano avvalere di casere comuni.
Del tutto particolare risulta la suddivisione in stazioni nelle alpi
delle valli del Bitto. Qui si trovano disseminati sui pascoli sino a una
ventina di caléc’. Il calec’ può essere considerato una
“stazione d’alpeggio” con la differenza che ogni anno si utilizzano solo alcuni
calec’. Il caléc’ consiste in una costruzione molto primitiva formata da bassi
muretti a secco; è una “capanna casearia” e, al tempo stesso, un rustico
ricovero per il personale. Quando la malga
(la mandria) raggiunge una determinata zona di pascolo, con al centro il suo
bravo caléc’, si provvede a dotarlo
di una copertura provvisoria. A tal fine si utilizzavano in passato tavole di
legno o coperte di lana; oggi, si utilizzano i più leggeri teloni impermeabili
sostenuti da pertiche di legno. Nel calec’
si trasferiscono la caldéra e gli
altri attrezzi del caseifico. Qui si resta per alcuni giorni, fintanto che la malga ha “mangiato” l’erba e si lavora il
latte delle vacche e delle capre munte sul posto. I caléc’ sono tutt’ora utilizzati. Va aggiunto che dove si usa il calec’ vi sono anche casere
particolarmente ben strutturate. Questo sistema si sfruttamento dell’alpeggio
si configura quindi come tutt’altro che “primitivo”.
Uomini e bestie in movimento
La monticazione
L’alpeggio implica sempre la “monticazione”. Essa rappresenta uno
spostamento in verticale; cui si associa una componente “orizzontale” più o
meno importante. In alcuni casi gli spostamenti per l’alpeggio implicano il
trasferimento da una valle all’altra e persino lo spostamento tra la pianura e
le valli. Si tratta di fenomeni con diversi significati socio-economici (e
culturali) rispetto alla semplice “monticazione”.
La “monticazione” non avveniva quasi mai mediante trasferimento diretto
dal villaggio all’alpeggio. Tale circostanza si verificava solo dove la
distanza tra il villaggio e l’alpeggio era molto ridotta come in alcune zone
prealpine o all’interno del massiccio alpino. Quasi ovunque, però, esisteva una
realtà intermedia tra il villaggio e l’alpeggio: i maggenghi. Sui maggenghi ci
si trasferiva con il loro bestiame in primavera (e in autunno) per produrre
fieno da utilizzare in larga misura sul posto e, in parte, destinato ad essere
trasportato al villaggio come scorta invernale. Dal maggengo si saliva all’alpeggio
alle date stabilite e si tornava a fine alpeggio (tranne coloro che affidavano
ad altri il proprio bestiame). Oggi i maggenghi, spesso scomodi da raggiungere,
non dotati di stalle di sufficiente capienza e con prati inadatti per la
raccolta meccanizzata del fieno, sono stati quasi ovunque abbandonati e, nella
maggior parte dei casi, si sale direttamente all’alpeggio.
La vita alpestre del passato si basava su continui spostamenti “in
verticale” (come evidenziato dal Pracchi,1942). A volte una famiglia possedeva più
maggenghi e ci si spostava da uno
all’altro per “mangiare” il fieno (e pascolare i ricacci).
Nel periodo tra la fine del maggengo e l’inizio dell’alpeggio spesso i
montanari scendevano con il bestiame al seguito in paese per partecipare alle
feste patronali. Lo stesso avveniva anche al termine dell’alpeggio quando
poteva essere celebrata la festa di fine alpeggio.
L’incessante mobilità verticale di uomini e bestie era spesso integrata
da discese autunnali o primaverili verso la pianura o i fondovalle. Questi
ultimi, a causa delle esondazioni, erano incolti e rappresentavano aree di
pascolo. Oltre ai transumanti, che scendevano in pianura per tutto l’inverno, alcuni
allevatori stanziali delle valli bergamasche e bresciane scendevano in autunno
per pascolare la quartiröla (l’erba
autunnale dei prati). Tornavano a casa prima di Natale. Quando le scorte
invernali di foraggio scarseggiavano gli allevatori potevano scendere in
pianura anche in primavera, prima dell’alpeggio.
Figura 1. a): lo schema classico “di base” dei
trasferimenti stagionali del bestiame su tre livelli altimetrici: villaggio,
maggengo, alpeggio; b): lo schema a due soli livelli (villaggio e alpeggio),
oggi prevalente, ma molto raro in passato.
Figura 2. I
piccoli proprietari di bestiame prima di portare le loro bestie in alpeggio
scendevano a volte di maggenghi in paese con il bestiame al seguito per
partecipare a feste patronali e fare il fieno; lo stesso avveniva al termine
dell’alpeggio e prima del periodo autunnale di soggiorno sui maggenghi.
Figura 3. Spesso lo schema degli spostamenti era molto
più complesso di quello “di base”. Non solo i maggenghi erano più di uno ma
spesso alla migrazione verticale verso l’alto si aggiungeva una migrazione
verso il basso che prevedeva – anche al di fuori della vera transumanza verso
le pianure – dei periodi di permanenza al piano in autunno e in primavera (il
“piano” poteva essere rappresentato o dalla pianura, nel caso delle vallate
prealpine o dal fondovalle).
Transumanza e migrazione alpina
Il concetto di transumanza andrebbe riservato a quegli spostamenti tra
le valli e la pianura che sfruttano con movimenti stagionali la
complementarietà ecologica (ma anche economico-sociale) dei due diversi
ambienti. Gli spostamenti all’interno del massiccio alpino vanno più
propriamente inquadrati nel fenomeno della migrazione intra-alpina; quest’ultima
poteva comportare lunghi percorsi ma aveva un significato diverso della
transumanza (in definitiva era solo un modo di praticare l’alpeggio un po’ più
lontano).
Le zone di destinazione
delle mandrie provenienti “da fuori” sono quelle dove si trovano numerosi ed
estesi pascoli: l’alta Valtellina, la val S .Giacomo, le alte valli orobiche (Brembana,
Seriana, di Scalve, val Tartano, val Gerola), la Valsassina, la media Valcamonica,
l’alta val Caffaro, l’alta Valcamonica. Le valli orobiche e quelle bresciane
erano facilmente raggiungibili dalla pianura ed erano quindi interessate alla
vera e propria transumanza, quelle più addentro nel massiccio alpino (alta Valcamonica,
Bormiense, Val S. Giacomo) erano raggiunte in estate da allevatori che
provenivano dalle basse valli.
I pascoli alpini della val
S.Giacomo sono tutt’ora caricati con bestiame proveniente dalla zona delle
basse valli dell’Adda e della Mera, nel Bormiese salgono ancora allevatori di
Grosio e di comuni limitrofi, in alta e media Valcamonica diversi allevatori
della bassa valle.
La
trasumanza bovina storica
La transumanza tra le
montagne bergamasche e la pianura prende inizio verso il XII secolo. Diversi
contratti dell’inizio del XIII secolo stabiliscono le condizioni alle quali il
vescovo e i feudatari di Lodi e di Codogno concedevano a herbaticum (tassa di pascolo) fondi per il pascolo a malghesi della val Seriana proprietari
di capre e pecore da cui si ricavavano formaggi che dovevano essere corrisposti
come parte dell’herbaticum utilizzando
capanne in legno con il tetto di paglia. Verso la fine del XIV secolo si
affermò la transumanza “moderna”. Quest’ultima si basava su un rapporto
organico tra gli allevatori di vacche da latte transumanti (“bergamini” o
“malghesi”) e i conduttori delle nuove cascine che sorgevano numerose dotate di
stalle e caseifici nonché di scorte di fieno prodotte grazie allo sviluppo dei sistemi
di irrigazione Tale rapporto era basato sull’acquisto del fieno per
l’alimentazione invernale della mandria. Esso dava diritto all’uso di edifici
per la lavorazione del latte, delle stalle e dei locali di abitazione nonché a
determinate quantità di legna e farina.
Da allora in poi la transumanza ovina si
separerà da quella bovina mantenendo il carattere “vagante” e continuando ad
utilizzare le golene, gli incolti aridi, le zone paludose. La transumanza
bovina interesserà tra il XV e il XX secolo vaste aree di pianura comprese tra
il vercellese e la bassa bresciana,svolgendo un ruolo essenziale per il
progresso dell’economia agricola. Dal punto di vista del rapporto tra questo
sistema di allevamento e l’alpeggio va precisato che non tutti i malghesi salivano d’estate in montagna
preferendo spostarsi da una cascina all’altra della pianura. Per secoli, però,
alcune famiglie (in special modo dell’alta val Brembana) hanno continuato ad
esercitare anno dopo anno (tranne che in caso di guerra) la transumanza tra gli
alpeggi orobici e la “Bassa”.
Migrazioni
intra-alpine
In alcuni casi la
migrazione intra-alpina era collegata alla presenza di antichi legami tra determinate
comunità ed alpeggi siti a notevoli distanze. In val S. Giacomo il bestiame
alpeggiato proviene tradizionalmente dal Pian di Spagna (Co), da Colico, dalla
bassa Valchiavenna e da alcuni comuni della bassa Valtellina. L’alpeggio non si
basava sull’affitto ma sul possesso di quote di diritto di pascolo e sullo
sfruttamento diretto famigliare dell’alpeggio.
Gli allevatori delle basse valli della Mera e dell’Adda possedevano
questi diritti in quanto discendenti dei montanari dell’alta val S. Giacomo
che, in passato, scendevano per lo svernamento nelle piane. Ne derivava una
forma di nomadismo messa in evidenza da Melchiorre Gioia (1804):
“In alcune comuni, come nella valle S. Giacomo,
il cui raccolto non basta per due mesi all’anno, quasi tutto il popolo esce dal
paese, e ad imitazione d’Abramo e di Lot cacciando avanti il bestiame, va
errando per le comuni vicine, e gran parte ne viene sul territorio Lombardo”
Con le bonifiche dei Piani di Chiavenna, di Spagna e di Colico si
crearono le condizioni per lo sviluppo e dell’allevamento stanziali e la
migrazione stagionale assunse il carattere dell’alpeggio (sia pure a notevole
distanza e con una sosta obbligata a Chiavenna). Anche altrove i percorsi per
raggiungere gli alpeggi potevano essere altrettanto lunghi. Dalla media
Valtellina alcuni allevatori percorrevano oltre 60 km (che richiedevano due
tappe di sosta).
La gestione dell’alpeggio oggi: verso una
realtà famigliare aperta
Al giorno
d’oggi l’alpeggio conserva una funzione economica, sociale e culturale
rilevante. Nel 2001 erano quasi 3.500 le aziende zootecniche che inviavano
bestiame all’alpeggio mentre erano 1.800 gli addetti impegnati nel lavoro
dell’alpe.
Tabella 2 – Censimento alpeggi Regione Lombardia, 2001
|
Alpi
|
Aziende conferenti
|
|
Uba bovini
|
Uba totali
|
Sup. pascolabile
|
totale
|
|
126
|
632
|
343
|
7.386
|
12.401
|
18.119
|
41.183
|
|
176
|
869
|
401
|
9.860
|
13.431
|
24.812
|
57.501
|
|
51
|
202
|
137
|
2.108
|
2.663.
|
5.243
|
11.339
|
|
45
|
226
|
146
|
1.789
|
2.646
|
2.847
|
10.591
|
|
264
|
1.542
|
777
|
11.677
|
13.614
|
32.43
|
10.1286
|
|
3
|
7
|
5
|
120
|
170
|
40
|
505
|
|
665
|
3.478
|
1.809
|
32.940
|
22.830
|
83.866
|
222.405
|
Uba = Unità bovino adulto
Una delle
trasformazioni più profonde subite dal sistema d’alpeggio è consistita nella semplificazione
della sua organizzazione in “stazioni”.Le norme igienico-sanitarie che hanno
comportato costosi adeguamenti strutturali dei locali adibiti alla lavorazione
del latte che si sono stati concentrati sulle casere principali. Questa
tendenza è stata rafforzata dalla disponibilità di mezzi di trasporto meccanico
e dalla realizzazione di una migliore viabilità interna all’alpeggio.
Molto spesso
piccoli alpeggi contigui sono stati aggregati in una gestione unica con gli alpeggi
più grandi e meglio dotati di fabbricati e infrastrutture.
Vi è, però,
una trasformazione ancora più profonda in atto da diversi anni; essa consiste
nell’ affermazione di un sistema d’alpeggio famigliare. La difficoltà di
reperimento di manodopera, e l’aumento dei relativi costi, hanno indotto
diverse famiglie a gestire l’alpeggio senza ricorrere a personale esterno. E’
una scelta che coinvolge famiglie con una lunga tradizione d’alpeggio ma anche
una forte passione per questa attività che ha contagiato le nuove generazioni.
In questo modo
si unisce il calore dei rapporti umani dei vecchi alpeggi-villaggio con lo
spirito di imprenditorialità dei grandi alpeggi “unitari”. Grazie alle presenza
dell’elemento femminile e giovanile è possibile allargare l’attività
dell’alpeggio in direzione di quei “servizi multifunzionali” così importanti
per garantire la redditività dell’alpeggio e per giustificare gli investimenti
degli enti pubblici.
Al di là di
queste dinamiche crediamo che l’alpeggio possa ritrovare anche una dimensione
sociale, in grado di coinvolgere giovani provenienti dalle città e tante altre
persone disposte a vivere esperienze autentiche di formazione e di lavoro in
montagna. Ci sono buone ragioni per credere che gli alpeggi torneranno ad
essere luoghi molto vitali.
Per
approfondire singoli temi
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