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Capitoli dell'affitto dell'Alpe Comunale di Casasco e Cerano (Co) del 1861

Capitoli dell'affitto dell'Alpe di Lenno con Alpe Calbiga (Co) del 1813

Capitoli stabiliti per l’affitto dell’Alpe Comunale di Mezzegra (Co) per il novennio 1909-1917

Testimonianze

 

Lino Giacomelli (1926-2015)

veterano dell'alpe Boron in alta Valtellina racconta un secolo di vita d'alpeggio

ERSAF (PDF 14M)

 

 

 

 

 

 

 Conoscere gli alpeggi: storia

 

L’ organizzazione dell’alpeggio nella storia

 

di Michele Corti

 

Sommario

 

 

L’antica origine degli alpeggi e le forme di proprietà

 

Primordi

Dall’età antica al medioevo

La feudalizzazione

La formazione della moderna proprietà comunale

Alpeggio nobiliare e alpeggio contadino

Forme intermedie

 

La forme di conduzione degli alpeggi

 

Modelli di gestione dell’alpeggio tra passato e presente

Diritti e doveri

I sistemi di gestione imprenditoriale basati sull’affitto

L’alpeggio come “servizio di pubblico appalto”

I sistemi di gestione cooperativa degli alpeggi

Gli “alpeggi a villaggio”: una gestione famigliare e femminile dell’alpeggio

 

Organizzazione degli uomini e dello spazio

 

La gerarchia dell’alpeggio

L’alpeggio: una realtà strutturata

 

Uomini e bestie in movimento

 

La monticazione

La trasumanza bovina storica

Migrazioni intra-alpine

 

La gestione dell’alpeggio oggi: verso una realtà famigliare aperta



L’antica origine degli alpeggi

Primordi

Prima del 4.000 a.C. l’uomo neolitico utilizzava i pascoli in modo saltuario. In seguito all’aumento dell’importanza dell’allevamento iniziarono a salire ogni anno su determinati pascoli le mandrie e le greggi delle tribù. Esse erano affidate ad appositi pastori consentendo agli altri membri del villaggio di dedicarsi a valle ai lavori agricoli. Era nato l’alpeggio.

Il raduno delle mandrie/greggi favoriva, però, la diffusione di malattie e la concupiscenza da parte delle altre tribù. La storia di Ötzi, morto 3.300 anni fa, è una delle tante di razzie d’alpeggio e ci fa capire come fare il pastore significò per molto tempo essere pronti a difendere in armi il bestiame dai razziatori e dai predatori (ed essere anche guerrieri).

Tra la fine dell’ età del rame e l’età del bronzo antico (2.200-1.600 a.C.) si accentuano i disboscamenti e migliorano le tecniche casearie ma il peggioramento climatico rallentò questi sviluppi. Nell’età del ferro (iniziata verso il 900 a.C. e proseguita sino alla romanizzazione), la disponibilità di più efficaci strumenti di taglio e il miglioramento climatico portano a un nuovo sviluppo dell’alpeggio che assunse caratteristiche molto simili a quelle attuali. Appaiono costruzioni in pietra a secco e si perfezionano le tecniche casearie ormai vicine a quelle attuali.

Le ricerche di Francesco Fedele hanno consentito di documentare la presenza di alpeggi in val S.Giacomo (So) già verso il 3.000 a.c..

La vicende della proprietà degli alpeggi dall’età antica al medioevo

Attraverso i millenni gli alpeggi hanno conservato la loro funzione. Sono, però, cambiati i rapporti sociali alla base del loro sfruttamento.

In epoca romana gli alpeggi sono stati di proprietà imperiale o di grandi latifondisti. Nell’alto medioevo hanno fatto parte del demanio regio longobardo. Quest’ultimo era organizzato in grandi proprietà con al centro una curtis. Sulle terre della curtis i contadini erano tenuti a prestazioni di lavoro in cambio del diritto di utilizzare pascoli e boschi. Di fatto, come in età romana, le comunità rurali continuarono a gestire gli alpeggi in modo autonomo.

Attraverso le donazioni alla Chiesa (iniziate in età longobarda e divenute più frequenti in quella carolingia) le grandi proprietà passarono in mano ai vescovi e ai potenti monasteri. Divennero proprietari di alpeggi non solo i vescovi di Como, Bergamo, Brescia, ma anche quelli al di Lodi e di Pavia. Possedevano alpeggi anche i grandi monasteri (S. Ambrogio a Milano, S. Abbondio a Como, S. Giulia e SS, Faustino e Giovita a Brescia). In un’epoca di forte riduzione degli scambi l’approvvigionamento di derrate pregiate come l’olio d’oliva dei laghi o i formaggi egli alpeggi era possibile solo grazie al possesso di numerose terre distribuite tra la pianura e le Alpi. I titolari ecclesiastici dei diritti di proprietà o di sfruttamento degli alpeggi raramente li utilizzavano con loro bestiame e loro personale. Molto più spesso la gestione era affidata a concessionari. Questi ultimi erano personaggi potenti che dovevano anche assicurare una difesa “militare” degli alpeggi. Ancora all’inizio del XVIII secolo il comune di San Fedele (in val d’Intelvi) affitta l’alpe comunale a tale Brentano Monticelli della nobile famiglia di Mezzegra (sul Lago di Como). Ancora nel ‘900, gli affittuari degli alpeggi della bassa Valtellina erano spesso notai o altri esponenti della borghesia locale.

Tra il X-XI secolo la proprietà degli alpeggi si trasferì dalle mani di monasteri e vescovi a quelle di potenti famiglie di vassalli e amministratori di beni ecclesiastici (es. i Cattanei nelle valli bergamasche e i Vicedomini in Valtellina). In alcuni casi la proprietà ecclesiastica si mantenne a lungo. L’Abbazia dell’Acquafredda (Lago di Como) mantenne sino al XVI la proprietà di diversi alpeggi in val Lesina e val del Bitto (bassa Valtellina) dopo essere subentrata, nel XIII secolo, al vescovo di Lodi. Le proprietà ecclesiastiche, che non erano state acquisite da proprietari laici, passarono gradualmente alle chiese locali; esse subirono vaste espropriazioni a vantaggio di privati al tempo della Repubblica Cisalpina e per opera del Regno d’Italia post-unitario (1866).

La feudalizzazione

Alle grandi famiglie subentrarono nella proprietà degli alpeggi personaggi della nobiltà locale.  Il passaggio di mano avvenne attraverso le vendite, ma soprattutto le investiture “a livello” (una forma di affitto perpetuo che prevedeva il riscatto). La nobiltà locale mantenne la proprietà degli alpeggi sino al XIII secolo, quando si affermarono i comuni rurali, ma, in alcuni casi, anche più a lungo. La piccola nobiltà locale – con l’eccezione di alcune alte valli - incise sulla gestione degli alpeggi in modo più profondo che i proprietari che si erano succeduti dall’antichità. Essa usava gli alpeggi per sé e per la propria clientela, ma vi mandava anche a pascolare bestiame forestiero e, cosa fortemente invisa alle comunità contadine, non si faceva scrupolo di cederne il possesso a forestieri. Nel XIII secolo, grazie al “riassorbimento” del ceto nobiliare locale nell’ambito di un’unica comunità territoriale, sorsero i comuni rurali. Essi, vuoi per via “politica” che attraverso gli acquisti, riuscirono ad assumere il possesso della maggior parte degli alpeggi che, da allora, furono goduti senza distinzioni dalle famiglie “originarie”. Per reazione alle tendenze disgregatrici i comuni non solo vietarono la presenza di bestiame forestiero sugli alpeggi e la cessione dei diritti di pascolo ma limitarono anche i diritti di successione delle donne sposate. La gelosa difesa dei propri alpeggi dai “forestieri” resterà nelle regole dei comuni sino al ‘900.

La formazione della moderna proprietà comunale

Una circostanza apparentemente strana è costituita dalla frequenza con la quale i comuni, in quanto proprietari fondiari, posseggono alpeggi nel territorio di altri comuni amministrativi.

La ragione va cercata nel passaggio di proprietà dalle comunità di valle ai comuni più piccoli costituiti in seguito alla loro divisione. Le “spartizioni” degli alpeggi dovettero tenere conto delle esigenze delle comunità con numerosa popolazione e numeroso bestiame, ma scarsamente dotate di pascoli. Ad esse vennero assegnati alpeggi siti anche a notevole distanza. Un caso emblematico è quello della val di Mello alla testata della val Masino. Essa assunse tale nome in quanto, nelle divisioni dei beni del vecchio comune di Traona, venne assegnata ai “terrieri” di Mello, località di mezza costa del versante retico della bassa Valtellina.

La divisione in comuni più piccoli non comportò sempre la spartizione degli alpeggi. “Diritti di compascuo” o “promiscuità d’uso” sopravvissero a lungo divenendo causa di liti. Ancora nel XIX secolo, in alta val Brembana, valeva il “diritto di compascuo” e i “terrieri” potevano utilizzare gratuitamente i pascoli degli altri comuni della vecchia comunità di valle. In Valsassina, fino al XVIII secolo, i boschi e i pascoli della Squadra del Conseil vennero goduti in consorzio dai comuni di Barzio, Cremeno, Cassina, Moggio e Concenedo. Nella comunità di Lecco, i conceliba (antichi beni comuni) furono divisi tra il borgo e i comuni limitrofi solo alla fine del XIX secolo! 

I processi di divisione delle antiche proprietà collettive assegnarono spesso la titolarietà dei diritti d’alpeggio ad unità minori rappresentate da gruppi di famiglie “originarie” di determinate borgate o frazioni (vicìnie). Nel sistema della vicínia il diritto d’alpeggio è legato alla residenza e si perde trasferendola altrove. Le vicìnie e le ulteriori suddivisioni della vicìnia, (malghe a Ponte Valtellina, colondelli altrove) utilizzavano di frequente gli alpeggi con un sistema a rotazione. Era un sistema per non scontentare nessuno ma anche per mantenere dei legami tra piccole comunità.

La vicìnie in Lombardia decaddero in larga misura in forza dal Decreto n. 225 del 25.11.1806. Sopravvissero qua è la nelle valli bergamasce e in Valcamonica. In Canton Ticino le vicínie (patriziati) restano ancora oggi proprietarie dei beni silvo-pastorali e, in primo luogo, degli alpi.

Alpeggio nobiliare e alpeggio contadino

Le vicende storiche illustrate spiegano perché gli alpeggi di proprietà comunale rappresentano il 55% del totale (con oltre il 60% delle superfici). La proprietà comunale prevale quasi ovunque ma con significative eccezioni. Nella bassa Valtellina la proprietà privata ha una notevole importanza; qui la nobiltà mantenne più a lungo il possesso degli alpeggi, cedendoli poi gradualmente ad elementi della borghesia. Ancor oggi i conti Caccia Dominioni di Morbegno sono proprietari di alpeggi nelle valli del Bitto. Qui l’alpeggio ha sempre rappresentato, oltre che un’importante realtà economica, anche un elemento di prestigio tanto che alcuni facoltosi imprenditori hanno acquistato alpeggi anche in anni recenti.

Altrove, all’opposto, prevalgono forme di proprietà privata “sociale”. E’ la situazione tipica di tutta la Valchiavenna ma anche di alcune zone della Valtellina e delle province di Bergamo e Brescia. Queste proprietà sono divise in quote che danno diritto a caricare un’unità di bestiame grosso. Le quote (“vaccate”, “erbate”) possono essere vendute, affittate e trasmesse in eredità come un qualsiasi titolo di proprietà.

Gli alpeggi condominiali a volte rappresentano una sopravvivenza delle vicínie, in altri casi sono semplicemente il risultato delle successioni ereditarie. In Valchiavenna le comproprietà traggono origine dall’assegnazione di diritti di uso perpetuo ed ereditario (“diritto d’erba”) su determinati alpeggi. Nel ‘900 questi condomìni hanno assunto la veste giuridica del Consorzio. Il numero dei soci è molto elevato; nel 1907 si contavano 220 comproprietari all’Alpe Andossi (360 “vaccate”) e 150 all’Alpe Borghetto (195 “vaccate”). In diversi alpeggi più piccoli il numero dei soci era spesso superiore a quello delle quote. L’Alpe Corte Terza, in comune di Gordona, nel 1972, era utilizzata da 150 ditte individuali, un numero enorme se si considera che un’indagine di qualche anno dopo censiva 83 Uba (unità bovino adulto). Oggi, i titolari di quote sono spesso interessati solo alle abitazioni, trasformate in seconde case, mentre i pascoli sono utilizzati dai pochi comproprietari che allevano ancora il o da un affittuario.

Le comproprietà bergamasche erano molto più diffuse in passato. Qui, però, a differenza della Valchiavenna, dove ogni comproprietario saliva in alpe, i titolari davano in affitto le loro quote. Il loro minor coinvolgimento spiega perchè le hanno gradualmente cedute e la proprietà si è concentrata in capo a uno o pochi proprietari.

Forme intermedie

Oltre alla situazioni “tipiche” di proprietà, rappresentate dalla proprietà comunale, da quella privata e da quella “sociale”, vanno registrate delle forme “ibride”.

Nel tempo alcuni “particolari” edificarono delle baite e si ritagliarono delle proprietà private ai margini inferiori del pascolo comunale. Si tratta di una situazione presente sia in zone prealpine, con pascoli a quote piuttosto basse, che all’interno del massiccio alpino, dove le baite private sono collocate a 1.800-2.000 m.

Il diritto di pascolo è così legato al possesso (o alla conduzione in affitto) delle baite private adiacenti ai pascoli comunali. E’ quindi cosa diversa dall’ “uso civico” (a favore della generalità degli abitanti). A volte il pascolo esercitato dai proprietari di queste baite si sovrapponeva con la conduzione degli alpeggi comunali. Quesa “promiscuità” si registrava in alta Valcamonica. Anche nel Lario Intelvese gli affittuari degli alpi comunali dovevano ammettere sul pascolo il bestiame proveniente dai sottostanti muunt e “cassinaggi”. Nel passato le forme di utilizzo promiscuo dello stesso bene erano normali e non era raro che le comunità mantenessero persino quote di diritti su alpeggi di proprietà privata.

La situazione attuale si è in larga misura semplificata; nonostante ciò le forme di proprietà degli alpeggi sono ancor oggi numerose e sopravvivono forme di proprietà “mista” (Tabella 1).

Tabella. 1 – Distribuzione degli alpeggi  per forma di proprietà e provincia al censimento degli alpeggi

 

Bergamo
Brescia
Como
Lecco
Sondrio
Regione

Persona singola

34
16
10
15
101
176

Comproprietari parenti

4
8
1
-
5
18

Società di fatto

3
4
-
-
4
11

Comunanza o proprietà indivisa

10
9
-
-
3
32

Consorzi

-
-
1
-
13
14

Cooperativa o simile

0
2
-
-
2
4

Società per azioni o di altro tipo

3
1
-
-
2
6

Ente morale, ass., osp.

2
2
-
-
-
4

Ente ecclesiastico

4
-
-
-
7
11

Demanio statale

-
-
-
-
1
1

Demanio regionale

1
10
3
2
11
27

Provincia

1
-
-
-
-
1

Comunità Montana

1
1
2
-
-
4

Comune

101
166
42
42
124
475

Proprietà mista

27
18
3
6
26
80

La forme di conduzione degli alpeggi

Modelli di gestione dell’alpeggio tra passato e presente

Oggi, nel 70% dei casi, gli alpeggi sono concessi in affitto a uno o pochi “caricatori”. Le tantissime piccole “aziende” di sussistenza con pochi capi di bestiame sono scomparse e, al loro posto, sono rimaste poche aziende professionali con decine di capi bovini. Queste ultime, con il loro bestiame o, al massimo, con quello affidato loro da pochi altri allevatori, riescono a “caricare” facilmente un alpeggio. Molti alpeggi che, in passato, erano utilizzati dalle “società d’alpeggio” o direttamente dai tanti piccoli proprietari (mediante “uso civico” o il versamento di una tassa di pascolo) sono stati affittati ai pochi allevatori del posto o, in mancanza, a quelli di altre località.

Le forme di gestione degli alpeggi erano – a differenza di oggi - molto differenziate ma potevano essere ricondotte a due modelli: quello dell’alpeggio gestito come un’unità produttiva unica e quello dello sfruttamento “dissociato”.

Va subito detto il sistema della gestione unitaria è il più antico. Gli statuti comunali della montagna bresciana e della Valtellina illustrano un sistema di “far malga” che equivale ad una gestione cooperativa del pascolo e della lavorazione del latte. Alcuni incaricati, eletti dall’assemblea dei capifamiglia, assumevano i pastori e tutti i proprietari di bestiame erano tenuti a condurlo sull’alpe comunale (dove si formava una sola malga) e a partecipare, proporzionalmente al bestiame caricato, alle spese della gestione. Si tratta di sistemi che sono sopravvissuti sino a pochi anni fa.

Lo statuto di Cimmo (val Trompia), del 1373, prevede delle disposizioni articolate circa la gestione dell’alpeggio. I proprietari delle pecore da latte (le mucche e le capre restavano “a casa”) dovevano nominare tre officiales: il casaro (casarius), che riceveva un salario, e tre “anziani”. Ad essi era assegnato il compito di riscuotere la “tassa”, costruire le cascine e curarne la manutenzione, assumere i pastori, procurare sale e pane e occuparsi del trasporto dei prodotti. Essi erano responsabili anche per la custodia delle pecore e del formaggio.

Diritti e doveri

Il diritto all’alpeggio era garantito attraverso norme che escludevano i “forestieri” e il bestiame “forestiero”. Dove vi erano pascoli in eccedenza ai fabbisogni della comunità alcuni alpeggi venivano però affittati ai “forestieri”. Lo statuto di Teglio, per esempio, prevedeva che “qualora le alpi avranno malghe o diritti di malga in eccedenza, tali alpi siano cedute in nome del comune di Teglio al miglior offerente, con ricavato che andrà al comune di Teglio”. Il diritto d’alpeggio era bilanciato da precisi doveri. In diversi casi, gli statuti dissuadono con pene pecuniarie i proprietari del bestiame a portare le bestie altrove (si sarebbero sottratti al dovere di contribuire al mantenimento degli alpeggi). L’alpeggio era obbligatorio in quanto le bestie rimaste “a casa”, o nei maggenghi, avrebbero potuto sconfinare nei prati, negli orti, nei campi seminati o utilizzare quei pascoli che dovevano restare a beneficio di tutti in autunno. Erano previste deroghe solo a determinate condizioni. Lo statuto di Bianzone (Valtellina) esonera dall’alpeggio gli animali da lavoro ma concede:

“chi avrà para uno de vacche, o manze da lavoro non possa tenere altre vacche da latte, ne capre, eccetto una capra da latte in caso di lattare fìgliolini per necessità, della quale sia data informazione al Decano, e suoi ai quali s’habbia licenza (autorizzazione) e quali conosciuta sian tenuti a darla “.

Nessuno, senza particolari motivi poteva scaricare il proprio bestiame prima del termine dell’alpeggio. L’apertura dell’alpeggio doveva essere rispettata scrupolosamente. Se ciascun contadino-allevatore avesse fatto a gara per ‘anticipare’ gli altri avrebbe potuto compromettere la produzione del pascolo. Gli statuti pertanto stabiliscono date precise di carico e scarico degli alpeggi coincidenti con feste religiose o con apposita deliberazione. A Tirano il

“Tempo dell’estate quando si monta nelle Alpi (...) sarà a quel Tempo giudicherà espediente il Decano ò gli Uomini del Consiglio, però che detto termine non passi la Festa di S.to Gio. Battista” mentre “non era possibile descendere dalle Alpi sé non doppo la Festa di S. Lorenzo de ciascun anno, e più presto ancora secondo verrà disposto nel Consiglio del dedeci considerata la qualità de Tempi”.

Il diritto di mandare all’alpe comunale il proprio bestiame era bilanciato da ben precisi doveri che riguardavano la prestazione di giornate di lavoro ma anche limitazioni all’utilizzo dei beni privati “complementari”. La conduzione di cascine limitrofe ai pascoli d’alpe dava diritto, come già osservato, di “spingere” al pascolo un numero di capi proporzionale alla produzione foraggera dei fondi. Questi prati privati erano però sottoposti a servitù a favore della “mandra comunale” che poteva pascolarvi nei tempi consuetudinari (diritto di traso).

Tra le antiche norme che regolavano l’alpeggio vale la pena segnalare anche l’obbligo della noda. Si trattava di quei segni particolari di riconoscimento degli animali dei diversi gruppi famigliare (tramandati di padre in figlio) che gli allevatori applicavano al bestiame al fine diprevenire l’abigeato.

I sistemi di gestione imprenditoriale

I sistemi basati sull’affitto e su una gestione imprenditoriale vedevano in passato quali protagonisti i mandriani transumanti o ricchi personaggi locale. Il proprietario dell’alpe (privato o comune che fosse) puntava in questo caso a riscuotere canoni di affitto elevati e non poneva vincoli “sociali” alla gestione. Molti comuni hanno per secoli ricavato la maggior parte delle proprie entrate dall’affitto degli alpeggi. Avveniva così in val Taleggio, ma anche nei comuni vicini della valle Imagna e della Valsassina dove, a partire dal XVI secolo, gli alpeggi precedentemente utilizzati direttamente dagli abitanti, vennero affittati ai “bergamini”. Nel XIX secolo il comune di Breno, in Valcamonica, affittava a “malghesi” 20 alpeggi su 25, quello di Bagolino affittava gli oltre 20 “monti” ai “malghesi” riservando solo il Monte di Vaja (attuale Malga Vaia) ai piccoli proprietari del comune.

Ci si chiede come potevano questi “bergamini” avere abbastanza bestiame per caricare un’intera alpe. I più grossi possedevano sino a 50 vacche, ma la maggior parte ne aveva solo 20-30. Essi, in realtà assumevano in forma associata la locazione praticando in alcuni casi una gestione separata basata sulla suddivisione fisica dell’alpe in “partite”. Tale sistema dell’affitto è tipico delle valli bergamasche. Ne fanno riferimento alcuni documenti taleggini del XVIII secolo ed è descritto con precisione negli atti preparatori del catasto Lombardo-Veneto:

“Tali pascoli in Alpi si affittano e si usano solamente a Partite. La Partita è quella quantità di pascolo sufficiente alla formazione di una forma di formaggio al giorno non meno ordinariamente. Queste partite di ciascuno dei comproprietarj si affittano ad un tanto per Paga, e non diversamente. La Paga è quella ordinaria quantità di pascolo che basta ad una ordinaria pastura di una Vacca da latte per giorni dai 60 ai 90 circa a norma delle stagioni, ed infortunj molesti.”

In Valtellina l’attività imprenditoriale d’alpeggio era concentrata nelle valli del Bitto e limitrofe. La Commissione d’Inchiesta sui pascolo alpini della Valtellina nel 1902 notava che “i caseifici di speculazione di Val del Bitto, ecc. danno tipi di formaggi pregevoli che trovano facile smercio”.

L’alpeggio come “servizio di pubblico appalto”

E’ forma di gestione che è sopravvissuta sino al ’900. Il sistema di godimento del Monte Alto, descritto nello Statuto del 1488 del comune di Costa Volpino (Bg), preveva l’aggiudicazione mediante “incanto” (asta) dell’appalto dell’alpe. L’aggiudicatario doveva impegnarsi a caricare tutto il bestiame dei proprietari del comune che ne avessero fatto richiesta in cambio di una “mercede” fissata dallo statuto. Troviamo regole simili nella Tremezzina (Co) ancora nel XX secolo. Innanzitutto l’appaltatore era obbligato ad effettuare per tempo la “ricerca” del bestiame dei residenti come illustra il capitolato dell’affitto dell’Alpe di Mezzegra del 1908:“Entro il mese di gennaio d’ogni anno, sarà l’Affittuario obbligato a recarsi col Cursore Comunale nelle case dei proprietari di bovine del Comune ad accaparrare le bestie per l’Alpe,”.Un servizio molto importante era costituito dalla monta taurina a favore dei “comunisti”. La monta in alpeggio era gratuita ma l’affittuario doveva impegnarsi anche a garantire la monta a prezzo politico per il resto dell’anno:

“L’affittuario dovrà mantenere nel Comune di Mezzegra un buon Toro da tenersi dal 15 Maggio al 30 Settembre sull’Alpe e dal 1° Ottobre al 15 Maggio a Casa, e ciò sotto la pena della multa di £ 40 e della rifusione di tutti i danni derivanti ai proprietari delle bovine per la sua mancanza. Detto Toro dovrà tenersi nella località dove abita l’affittuario, e se sarà un forestiere, in una delle Frazioni del Comune, ma mai in cascinali sparsi e lontani dall’abitato. […] Per il mantenimento di detto Toro l’affittuario non avrà diritto a compenso, ma potrà esigere centesimi 40 per ogni monta fuori dei mesi di Giugno, Luglio, Agosto e Settembre, nei quali trovandosi all’Alpe il servizio sarà gratuito.”

Il corrispettivo dell’utilizzo del latte prodotto dalle bestie dei “comunisti” era stabilito dal comune e basato sulla “misura” del latte prodotto dalle bestie di ciascuno di essi.  Il capitolato dell’Alpe di Lenno del 1813 precisava che:

“Il conduttore dell’alpe sarà obbligato a pagare ai rispettivi particolari dai quali riceve le bestie lirette nove once 12 butirro, e libbre di once 30 nove formaggio all’anno per ogni boccale di latte di cui viene tassata ciascuna vacca; ben inteso che la predetta mercanzia debba essere di buona qualità mercantile”.

Un ulteriore obbligo consisteva nel portare sulla piazza del paese ogni settimana una data quantità di burro da vendere al prezzo stabilito dalla Giunta comunale:

“Il conduttore dell’alpe prima di estrarre butirro dalla comunità dovrà provvedere dell’occorrente  tutti i comunisti nel quantitativo che loro abbisogna […] al quale effetto dovrà in ogni giovedì di ogni settimana nei mesi di giugno, luglio portare sulla piazza di Lenno lirette duecento di butirro di perfetta qualità mercantile. […] Prima della vendita del butirro da farsi sulla piazza di Lenno come sopra dovrà premettersi il suono della campana maggiore per un buon quarto d’ora e dovrà pesarsi alla presenza della municipalità o da persona dalla medesima delegata. La quantità di butirro di sopra espressa dovrà il conduttore venderla ai comunisti predetti al prezzo di soldi dieci di Milano per ogni liretta di once 12” .

Oltre a questi obblighi gli affittuari dovevano accettare sul pascolo un certo numero di bestie dei “comunisti” che risiedevano nei maggenghi limitrofi. Ad Ossuccio:

“Ciascun comunista ha diritto di mandare una vacca e due allievi al vago pascolo nell’alpe, anche nel trimestre di alpeggio, ritirandoli ogni sera nella stalla propria: paga allora al comune L. 6 per vacca e L. 1 per allievo. Per le bestie che i comunisti mandano nell’alpe in più delle tre indicate, pagano all’affittuario L. 12 per vacca e L: 6 per allievo, pel trimestre di alpeggio. Se il pascolo si estende a maggio e settembre, le tasse raddoppiano”.

I sistemi di gestione cooperativa degli alpeggi

Questi sistemi traggono origine dal sistema di “far malga insieme” che abbiamo rinvenuto negli antichi statuti dei comuni. Erano frequenti sia in Valtellina che in Valcamonica, dove sono sopravvissuti sino a pochi anni fa. Stefano Jacini (noto uomo politico ed esperto di agricoltura) alla metà del XIX secolo osservava come:

“Lo spirito d’associazione non è sconoscito nelle montagne [...] Nel distretto di Bormio ogni comunità dà il proprio bestiame ad appositi mandriani; due probe persone, detti capi d’alpe, pesano ogni mattina e sera il latte che si munge da ogni vacca e si stabilisce la quota di utile dei singoli possessori, dedotte le spese.”

Alla fine del XIX secolo, sempre in alta Valtellina, l’Alpe Vallecetta era goduta dai “comunisti” di Piatta mediante l’assunzione di un pastore e di un casaro. A Grosotto, sempre agli inizi del XX secolo, l’ Associazione dei “comunisti” nominava un casaro, un sottocasaro e 10 pastori (di cui 2 per le pecore) per la gestione dell’Alpe Piana.  Spostandoci in bassa Valtellina troviamo gestioni degli alpeggi in forma cooperativa in val Lesina. L’Alpe Mezzana, per esempio, richiedeva il lavoro di 14 salariati tra uomini e pastorelli. Troviamo sistemi analoghi anche nel Sebino bergamasco (Società agraria di Lombardia, 1907). L’esempio degli alpeggi Piano della Palù e del già citato  Monte Alto rappresenta anche un’ulteriore conferma della diffusione di sistemi “misti”:

“[…] e quei comunisti che possiedono in prossimità del pascolo cascine e prati conducono essi stessi, ognuno per conto proprio, di giorno , il loro bestiame al pascolo, ritirandolo la sera nelle cascine. Ma gli altri comunisti consegnano il loro bestiame a guardiani nominati da loro stessi in apposita assemblea. e pagati a spese comuni. Il bestiame è così riunito in mandra, il latte lavorato in comune da un casaro stipendiato, i prodotti divisi in proporzione del latte fornito dalle vacche di ciascun utente. […] Tutti i comunisti pagano indistintamente al comune una tassa di erbatico di L. 3 per ogni paga bovina, L. 1,5 per ogni mezza paga ovina, L. 25 per ogni capo equino”.

Il Toniolo (1913), descrive per l’alta Valcamonica sistema di sfruttamento diretti degli alpeggi comunal,  senza ricorso all’assunzione di personale. Ciascuna famiglia era tenuta ad inviare un proprio membro a lavorare in alpe. Per l’alloggio e la lavorazione del latte veniva usato un fabbricato comune. L’Agostini, alla fine degli anni ’40, osserva un sistema di gestione “ternaria” in uso nel comune di Edolo. Qui i proprietari del bestiame salivano a turno in alpe e vi restano per 3-4 settimane.  L’ “alpeggio turnario” era praticato anche in qualche località della Valtellina dove, ancora nel XX secolo, i proprietari del bestiame salivano a turno all’alpe per una settimana. Nella bassa Valcamonica le Società d’alpeggio praticavano un sistema “misto”. Venivano incaricati un casaro e dei pastori ma, ogni volta che un singolo proprietario di bestiame maturava un credito di latte equivalente alla lavorazione giornaliera (e i relativi “frutti”), era tenuto a salire in alpe e ad assistere il casaro in tutte le mansioni accessorie. Sceso a valle doveva avvisare il “collega” cui spettava la “casada” del giorno successivo.

Gli “alpeggi a villaggio”: una gestione famigliare e femminile dell’alpeggio

Rimangono da esaminare le forme di gestione “dissociata”, quelle in cui un numero più o meno grande di famiglie  salivano sull’alpe per esercitare in modo indipendente le una dalle altre, la gestione del pascolo e la lavorazione del latte. La trasformazione del latte avveniva in una baita con un solo vano, utilizzato anche per la preparazione dei cibi e il riposo.

Queste gestioni “dissociate” erano attuate negli alpeggi posseduti in condominio da parecchie famiglie, ma anche dove sorgevano gruppi di baite di proprietà privata al limite al pascolo comunale e dove il comune assegnava in “uso civico” a ciascuna famiglia, insieme al diritto di pascolo, anche l’utilizzo di una baita. Il passaggio dagli usi civici alla forma dell’affittanza dell’alpeggio (imposta dalla legge comunale del 1866) non sovvertì questo sistema. In val Malenco si formarono Società per l’affitto degli alpeggi: “la Società dei comunisti prende in affitto l’alpe per 9 anni ed è pagata dai singoli utenti in ragione delle mucche caricate, delle case abitate ecc.(...) si uniscono 2-3 famiglie a lavorare il latte” (Nangeroni, 1930). Anche in alta Valcamonica l’applicazione dell’affitto non cambiò la forma di gestione. I piccoli proprietari di bestiame facevano domanda ai diretor dei pascui, scelti dai consigli comunali, che provvedevano ad assegnare le alpi e a fissare i canoni d’affitto (Toniolo, 1913).

Le baite costituivano insediamenti più frequentemente accentrati, collocati alle quote inferiore dell’alpe ma non mancano esempi di “villaggio sparso”, costituito da baite isolate o da piccoli nuclei disseminati sui pascoli (val S. Giacomo).

Le alpi-villaggio sono presenti in tutta la Valchiavenna, nella media e alta Valtellina (val Malenco, val Grosina, val di Rezzalo), in alta Valcamonica, in val Marcia e val Varrone (Lc). Casi sporadici si registrano in Tremezzina (Alpe di Tremezzo), Valgerola (val Vedrano), Val Veddasca (Alpe di Monterecchio) e Valmasino.

In diversi casi la gestione dell’alpe presentava aspetti parzialmente cooperativi che prevedevano l’uso comune di ricoveri per glii animali e/o per la lavorazione del latte. La lavorazione del latte era realizzata in forma comune, mediante sistema turnario o anche mediante l’assunzione di un casaro. La lavorazione in comune del latte in alpeggio, praticata anche in Valcamonica, ha aperto la strada alla realizzazione (a fine XIX secolo) delle latterie sociali o turnarie nei villaggi. A Premana (Lc) le alpi comunali erano utilizzate mediante uso civico; qui, oltre alla latteria comunale, erano presenti anche dei dormitori per le ragazze e le donne nubili.

“Sul Varrone un parroco, che le madri di allora benedicevano, aveva voluto che il Comune costruisse in ogni alpeggio un fabbricato destinato alle ragazze, perché nessuno scandalo accadesse: lo chiamavano casina di lecc. Quando le fanciulle vi si ritiravano era tutto un trillar di risa e il capo alpe aveva il suo daffare a impedire, come obbligavano le clausole dei list [regolamenti d’alpeggio n.d.a.], che i giovanotti vi si avvicinassero” (Pensa, 1977).

Nelle alpi a villaggio la socialità era intensa e vedeva spesso le donne protagoniste, rovesciando il modello di società maschile proprio dell’alpe a gestione unitaria (dove, anzi, la donna era tabù). Le operazioni di caseificio erano spesso gestite dalle donne che potevano avvalersi dell’aiuto di pastori per la conduzione della mandria.

 

Organizzazione degli uomini e dello spazio

La gerarchia dell’alpeggio

Negli alpeggi più grandi, organizzati al fine del profitto d’impresa, vi erano molte figure e molti ruoli. Vengono di seguito descritte sulla scia di osservazioni relative alla val Tartano, ma applicabili alle valli limitrofe (Bianchini,1985).

Caricatore (cargamuunt). E’l’imprenditore che affitta l’alpeggio e vi conduce capi di sua proprietà ed altri presi a custodia. Egli si assume gli oneri e i  rischi della gestione.

Soci (sòci). Coloro che dividevano con il caricatore i rischi dell’impresa; di regola lavoravano come gli altri pastori.

Capo-alpe (cap/regidúr). Ruolo  rivestito dal caricatore, da uno dei soci, dal casaro o anche da uno dei pastori esperti; al capo compete il piano di pascolamento (dàa l’erba) e la gestione del personale. Solitamente esegue anche le operazioni manuali.

Casaro (casèr). La figura del casaro coincideva con quella del direttore tecnico e del responsabile amministrativo. A volte partecipava anch’egli alla mungitura e allo spostamento della mandria.

Aiuto-casaro (cassinèr). Era un salariato che eseguiva le stesse operazioni degli altri pastori, ma che doveva anche fare da garzone al casaro (taglio della legna, trasporti, preparazione dei pasti).

Pastori (pastúr). Personale che esegue tutte le operazioni di mungitura, governo della mandria, manutenzioni, trasporti. Ai più anziani sono risparmiati i lavori più faticosi.

Pastorelli (cascìi/famèj). Hanno l’incarico di spostare il bestiame e di eseguire le incombenze più leggere; possono anche partecipare alla mungitura.

Capraio (caurèr/cavrée). Giovane o anziano che fosse il capraio aveva (e ha tutt’ora) particolare dimestichezza con le capre; riesce a richiamarle con vocalizzazioni, fischi, somministrazione di sale.

Pecoraio (pegurée). Figura scomparsa. Si occupava della custodia del gregge evitando che esso invadesse i pascoli destinati alle vacche da latte; spesso utilizzava come ricovero un baitél posto a quote elevate. E’ una figura oggi scomparsa perché i pastori si devono occupare anche della cura delle manze.

Proprietari del bestiame (lacèr/casàlin). Piccoli allevatori che affidano ad altri il loro bestiame e restano a valle per eseguire il taglio del fieno e altri lavori agricoli. Essi salivano in alpe per consegnare le bestie a inizio alpeggio e per prenderle in consegna alla fine. Salivano anche per la pìsa. La pìsa (o “misura”) rappresentava un avvenimento chiave dell’alpeggio; avveniva spesso al 28° giorno di alpeggio, ma, a volte, era eseguita più volte nel corso della stagione. Non mancavano le occasioni per contestazioni e liti.

 

L’alpeggio: una realtà strutturata

Gli alpeggi a gestione unitaria possono essere costituiti da diverse stazioni, ciascuna dotata di fabbricati per la lavorazione del latte.  Sono denominate mudate, corti o cambi. Spesso gli alpeggi sono suddivisi in 2-3 stazioni, ma ve ne possono essere anche 5 o più (sino a una decina nelle valli dell’alto Lario Occidentale). La stazione di “cima” è utilizzata una sola volta, le altre per la “salita” e la “discesa” (quest’ultima, di norma, più breve). Il centro dell’alpeggio, dove sorge la casera per la maturazione del formaggio, spesso coincide con il “piede” (o “fondo”) dell’alpe. In funzione delle possibilità di accesso la casera può però sorgere in corrispondenza della “cima” o alla stazione di “mezzo”.  Il dislivello tra le stazioni è di norma di 100-150 m, ma può arrivare anche a 700 m. Quando l’alpe si articola in due stazioni è frequente distinguerle in casera/baita/malga “bassa” e “alta”. Se sono tre di solito vi è quella di “cima”, di “fondo”, e di “mezzo”. Non tutti gli alpeggi sono dotati di casera e, a volte, si dovevano avvalere di casere comuni.

Del tutto particolare risulta la suddivisione in stazioni nelle alpi delle valli del Bitto. Qui si trovano disseminati sui pascoli sino a una ventina di caléc’. Il calec’ può essere considerato una “stazione d’alpeggio” con la differenza che ogni anno si utilizzano solo alcuni calec’. Il caléc’ consiste in una costruzione molto primitiva formata da bassi muretti a secco; è una “capanna casearia” e, al tempo stesso, un rustico ricovero per il personale. Quando la malga (la mandria) raggiunge una determinata zona di pascolo, con al centro il suo bravo caléc’, si provvede a dotarlo di una copertura provvisoria. A tal fine si utilizzavano in passato tavole di legno o coperte di lana; oggi, si utilizzano i più leggeri teloni impermeabili sostenuti da pertiche di legno. Nel calec’ si trasferiscono la caldéra e gli altri attrezzi del caseifico. Qui si resta per alcuni giorni, fintanto che la malga ha “mangiato” l’erba e si lavora il latte delle vacche e delle capre munte sul posto. I caléc’ sono tutt’ora utilizzati. Va aggiunto che dove si usa il calec’ vi sono anche casere particolarmente ben strutturate. Questo sistema si sfruttamento dell’alpeggio si configura quindi come tutt’altro che “primitivo”.

Uomini e bestie in movimento

La monticazione

L’alpeggio implica sempre la “monticazione”. Essa rappresenta uno spostamento in verticale; cui si associa una componente “orizzontale” più o meno importante. In alcuni casi gli spostamenti per l’alpeggio implicano il trasferimento da una valle all’altra e persino lo spostamento tra la pianura e le valli. Si tratta di fenomeni con diversi significati socio-economici (e culturali) rispetto alla semplice “monticazione”.

La “monticazione” non avveniva quasi mai mediante trasferimento diretto dal villaggio all’alpeggio. Tale circostanza si verificava solo dove la distanza tra il villaggio e l’alpeggio era molto ridotta come in alcune zone prealpine o all’interno del massiccio alpino. Quasi ovunque, però, esisteva una realtà intermedia tra il villaggio e l’alpeggio: i maggenghi. Sui maggenghi ci si trasferiva con il loro bestiame in primavera (e in autunno) per produrre fieno da utilizzare in larga misura sul posto e, in parte, destinato ad essere trasportato al villaggio come scorta invernale. Dal maggengo si saliva all’alpeggio alle date stabilite e si tornava a fine alpeggio (tranne coloro che affidavano ad altri il proprio bestiame). Oggi i maggenghi, spesso scomodi da raggiungere, non dotati di stalle di sufficiente capienza e con prati inadatti per la raccolta meccanizzata del fieno, sono stati quasi ovunque abbandonati e, nella maggior parte dei casi, si sale direttamente all’alpeggio.

La vita alpestre del passato si basava su continui spostamenti “in verticale” (come evidenziato dal Pracchi,1942). A volte una famiglia possedeva più maggenghi  e ci si spostava da uno all’altro per “mangiare” il fieno (e pascolare i ricacci).

Nel periodo tra la fine del maggengo e l’inizio dell’alpeggio spesso i montanari scendevano con il bestiame al seguito in paese per partecipare alle feste patronali. Lo stesso avveniva anche al termine dell’alpeggio quando poteva essere celebrata la festa di fine alpeggio.

L’incessante mobilità verticale di uomini e bestie era spesso integrata da discese autunnali o primaverili verso la pianura o i fondovalle. Questi ultimi, a causa delle esondazioni, erano incolti e rappresentavano aree di pascolo. Oltre ai transumanti, che scendevano in pianura per tutto l’inverno, alcuni allevatori stanziali delle valli bergamasche e bresciane scendevano in autunno per pascolare la quartiröla (l’erba autunnale dei prati). Tornavano a casa prima di Natale. Quando le scorte invernali di foraggio scarseggiavano gli allevatori potevano scendere in pianura anche in primavera, prima dell’alpeggio.

Figura 1. a): lo schema classico “di base” dei trasferimenti stagionali del bestiame su tre livelli altimetrici: villaggio, maggengo, alpeggio; b): lo schema a due soli livelli (villaggio e alpeggio), oggi prevalente, ma molto raro in passato.

Figura 2.  I piccoli proprietari di bestiame prima di portare le loro bestie in alpeggio scendevano a volte di maggenghi in paese con il bestiame al seguito per partecipare a feste patronali e fare il fieno; lo stesso avveniva al termine dell’alpeggio e prima del periodo autunnale di soggiorno sui maggenghi.

Figura 3. Spesso lo schema degli spostamenti era molto più complesso di quello “di base”. Non solo i maggenghi erano più di uno ma spesso alla migrazione verticale verso l’alto si aggiungeva una migrazione verso il basso che prevedeva – anche al di fuori della vera transumanza verso le pianure – dei periodi di permanenza al piano in autunno e in primavera (il “piano” poteva essere rappresentato o dalla pianura, nel caso delle vallate prealpine o dal fondovalle).

 

Transumanza e migrazione alpina

Il concetto di transumanza andrebbe riservato a quegli spostamenti tra le valli e la pianura che sfruttano con movimenti stagionali la complementarietà ecologica (ma anche economico-sociale) dei due diversi ambienti. Gli spostamenti all’interno del massiccio alpino vanno più propriamente inquadrati nel fenomeno della migrazione intra-alpina; quest’ultima poteva comportare lunghi percorsi ma aveva un significato diverso della transumanza (in definitiva era solo un modo di praticare l’alpeggio un po’ più lontano).

Le zone di destinazione delle mandrie provenienti “da fuori” sono quelle dove si trovano numerosi ed estesi pascoli: l’alta Valtellina, la val S .Giacomo, le alte valli orobiche (Brembana, Seriana, di Scalve, val Tartano, val Gerola), la Valsassina, la media Valcamonica, l’alta val Caffaro, l’alta Valcamonica. Le valli orobiche e quelle bresciane erano facilmente raggiungibili dalla pianura ed erano quindi interessate alla vera e propria transumanza, quelle più addentro nel massiccio alpino (alta Valcamonica, Bormiense, Val S. Giacomo) erano raggiunte in estate da allevatori che provenivano dalle basse valli.

I pascoli alpini della val S.Giacomo sono tutt’ora caricati con bestiame proveniente dalla zona delle basse valli dell’Adda e della Mera, nel Bormiese salgono ancora allevatori di Grosio e di comuni limitrofi, in alta e media Valcamonica diversi allevatori della bassa valle.

La trasumanza bovina storica

La transumanza tra le montagne bergamasche e la pianura prende inizio verso il XII secolo. Diversi contratti dell’inizio del XIII secolo stabiliscono le condizioni alle quali il vescovo e i feudatari di Lodi e di Codogno concedevano a herbaticum (tassa di pascolo) fondi per il pascolo a malghesi della val Seriana proprietari di capre e pecore da cui si ricavavano formaggi che dovevano essere corrisposti come parte dell’herbaticum utilizzando capanne in legno con il tetto di paglia. Verso la fine del XIV secolo si affermò la transumanza “moderna”. Quest’ultima si basava su un rapporto organico tra gli allevatori di vacche da latte transumanti (“bergamini” o “malghesi”) e i conduttori delle nuove cascine che sorgevano numerose dotate di stalle e caseifici nonché di scorte di fieno prodotte grazie allo sviluppo dei sistemi di irrigazione Tale rapporto era basato sull’acquisto del fieno per l’alimentazione invernale della mandria. Esso dava diritto all’uso di edifici per la lavorazione del latte, delle stalle e dei locali di abitazione nonché a determinate quantità di legna e farina.

 Da allora in poi la transumanza ovina si separerà da quella bovina mantenendo il carattere “vagante” e continuando ad utilizzare le golene, gli incolti aridi, le zone paludose. La transumanza bovina interesserà tra il XV e il XX secolo vaste aree di pianura comprese tra il vercellese e la bassa bresciana,svolgendo un ruolo essenziale per il progresso dell’economia agricola. Dal punto di vista del rapporto tra questo sistema di allevamento e l’alpeggio va precisato che non tutti i malghesi salivano d’estate in montagna preferendo spostarsi da una cascina all’altra della pianura. Per secoli, però, alcune famiglie (in special modo dell’alta val Brembana) hanno continuato ad esercitare anno dopo anno (tranne che in caso di guerra) la transumanza tra gli alpeggi orobici e la “Bassa”.

Migrazioni intra-alpine

In alcuni casi la migrazione intra-alpina era collegata alla presenza di antichi legami tra determinate comunità ed alpeggi siti a notevoli distanze. In val S. Giacomo il bestiame alpeggiato proviene tradizionalmente dal Pian di Spagna (Co), da Colico, dalla bassa Valchiavenna e da alcuni comuni della bassa Valtellina. L’alpeggio non si basava sull’affitto ma sul possesso di quote di diritto di pascolo e sullo sfruttamento diretto famigliare dell’alpeggio. 

Gli allevatori delle basse valli della Mera e dell’Adda possedevano questi diritti in quanto discendenti dei montanari dell’alta val S. Giacomo che, in passato, scendevano per lo svernamento nelle piane. Ne derivava una forma di nomadismo messa in evidenza da Melchiorre Gioia (1804):

“In alcune comuni, come nella valle S. Giacomo, il cui raccolto non basta per due mesi all’anno, quasi tutto il popolo esce dal paese, e ad imitazione d’Abramo e di Lot cacciando avanti il bestiame, va errando per le comuni vicine, e gran parte ne viene sul territorio Lombardo”

Con le bonifiche dei Piani di Chiavenna, di Spagna e di Colico si crearono le condizioni per lo sviluppo e dell’allevamento stanziali e la migrazione stagionale assunse il carattere dell’alpeggio (sia pure a notevole distanza e con una sosta obbligata a Chiavenna). Anche altrove i percorsi per raggiungere gli alpeggi potevano essere altrettanto lunghi. Dalla media Valtellina alcuni allevatori percorrevano oltre 60 km (che richiedevano due tappe di sosta).

 

La gestione dell’alpeggio oggi: verso una realtà famigliare aperta

Al giorno d’oggi l’alpeggio conserva una funzione economica, sociale e culturale rilevante. Nel 2001 erano quasi 3.500 le aziende zootecniche che inviavano bestiame all’alpeggio mentre erano 1.800 gli addetti impegnati nel lavoro dell’alpe. 

Tabella 2  – Censimento alpeggi Regione Lombardia, 2001

Provincia

Alpi
Aziende conferenti

Addetti

Uba bovini
Uba totali
Sup. pascolabile

Sup.

totale

Bergamo

126
632
343
7.386
12.401
18.119
41.183

Brescia

176
869
401
9.860
13.431
24.812
57.501

Como

51
202
137
2.108
2.663.
5.243
11.339

Lecco

45
226
146
1.789
2.646
2.847
10.591

Sondrio

264
1.542
777
11.677
13.614
32.43
10.1286

Varese

3
7
5
120
170
40
505

Totale

665
3.478
1.809
32.940
22.830
83.866
222.405

Uba = Unità bovino adulto

Una delle trasformazioni più profonde subite dal sistema d’alpeggio è consistita nella semplificazione della sua organizzazione in “stazioni”.Le norme igienico-sanitarie che hanno comportato costosi adeguamenti strutturali dei locali adibiti alla lavorazione del latte che si sono stati concentrati sulle casere principali. Questa tendenza è stata rafforzata dalla disponibilità di mezzi di trasporto meccanico e dalla realizzazione di una migliore viabilità interna all’alpeggio.

Molto spesso piccoli alpeggi contigui sono stati aggregati in una gestione unica con gli alpeggi più grandi e meglio dotati di fabbricati e infrastrutture.

Vi è, però, una trasformazione ancora più profonda in atto da diversi anni; essa consiste nell’ affermazione di un sistema d’alpeggio famigliare. La difficoltà di reperimento di manodopera, e l’aumento dei relativi costi, hanno indotto diverse famiglie a gestire l’alpeggio senza ricorrere a personale esterno. E’ una scelta che coinvolge famiglie con una lunga tradizione d’alpeggio ma anche una forte passione per questa attività che ha contagiato le nuove generazioni.

In questo modo si unisce il calore dei rapporti umani dei vecchi alpeggi-villaggio con lo spirito di imprenditorialità dei grandi alpeggi “unitari”. Grazie alle presenza dell’elemento femminile e giovanile è possibile allargare l’attività dell’alpeggio in direzione di quei “servizi multifunzionali” così importanti per garantire la redditività dell’alpeggio e per giustificare gli investimenti degli enti pubblici.

Al di là di queste dinamiche crediamo che l’alpeggio possa ritrovare anche una dimensione sociale, in grado di coinvolgere giovani provenienti dalle città e tante altre persone disposte a vivere esperienze autentiche di formazione e di lavoro in montagna. Ci sono buone ragioni per credere che gli alpeggi torneranno ad essere luoghi molto vitali.

Per approfondire singoli temi

 

 

 

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