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Cultura rurale viva

Antonio Carminati, 7 Giugno, 2021

Fenomenologia del rastrello

Senza il fieno, senza la coltivazione dei prati che cosa diventa l'allevamento di montagna? Non è un delitto integrare la produzione di fieno aziendale con l'acquisto di fieno dalla pianura. In passato, quando mancava il fieno, si scendeva in pianura con gli animali. Tale pratica era però legata al fatto che gli scarsi terreni agricoli delle valli erano per lo più coltivati a cereali e altre colture alimentari. È confortante che, da qualche tempo, si riprenda a coltivare qualche campo di patate, si recuperino la coltura del grano saraceno, delle segale, dell'orzo. Tali colture non possono però, in assenza della praticoltura, rappresentare un argine efficace all'avanzata del bosco, salutata con stupido compiacimento dalla cultura dominante pseudoambientalista. Fare fieno in montagna è faticoso, anche quando si pùo disporre dell'ausilio della meccanizzazione. La pendenza del terreno ostacola o rende impossibili alcune fasi della raccolta meccanizzata come spiega bene Antonio Carminati, etnografo "sul campo" (letteralmente). E così, come dimostra questo post, la fienagione diventa ancora oggi il rito che riunisce la famiglia, che riunisce le generazioni. Ad ognuno il suo compito. Il valore della pratica della fienagione va al di là del risultato produttivo, diventa un fatto sociale. Manovrando con competenza, non per gioco, un rastrello – un attrezzo apparentemente "minore" nel'economia della fienagione, sul quale si concentra l'attenzione di Carminati in questo post, ci si sente anche riallacciati a una appartenza, a una cultura, a una gente, a una terra. Lo spaesamento della post modernità toglie significato al luogo (arricchendo poco, impoverendo molto). Vale per gli uomini e... i formaggi.


Le mie mani si fanno rastrello
accarezzano la terra
restituendole riconoscenza
e cura come a una madre
ormai malata…

(Mirella Roncelli)


Nonostante la meccanizzazione agricola negli ultimi decenni sia entrata massicciamente nei processi lavorativi connessi alla gestione del prato e del pascolo, del campo e della stalla, anche nelle diverse produzioni zoo-casearie della montagna orobica, alcuni utensili tradizionali non sono mai stati abbandonati del tutto, anzi molti di essi continuano a convivere accanto ai moderni macchinari e ad essere comunemente utilizzati. In questo periodo, in modo particolare, mentre tutta la Valle Imagna vive la sua apoteosi con la fienagione, capita spesso di vedere nel prato contadini affaccendati con il rastrello impugnato tra le mani, come tanti cavalieri armati di lancia, utilizzato insieme al ranghinatore; nei medesimi prati vengono adoperate con energia antiche forche accanto a moderne rotoimballatrici, piccole moto-agricole e grossi trattori con al traino, di volta in volta, le potenti macchine per: segà, spànd, oltà, andenà, terà ensèma e ‘mbalà  [tagliare, spargere, rivoltare, fare e disfare le andane, imballare].

Modalità di lavoro provenienti da lontano hanno caratterizzato  la vita  in montagna delle generazioni nei secoli scorsi e coesistono con le nuove tendenze di modernizzazione del contesto rurale, laddove possibile, per alleviare fatiche, facilitare l’accesso ai fondi e migliorare le condizioni di lavoro complessive dei contadini. In verità, però, ormai da diverse stagioni, nei prati di montagna sono pressoché scomparsi altri strumenti, un tempo di generale impiego, quali sdìrna, seghéss, ranza, prida e martèl per bàt la ranza: [telaio per il trasporto del fieno sulla persona, falcetto, falce fienaia, pietra cote, martello per pareggiare il filo della falce] anche laddove non sopraggiunge ancora una strada trattorale, come nei più distanti o interclusi, sono subentrati nell’uso comune decespugliatori e moto-cariole a ridimensionare la sempre operosa e infaticabile attività dei contadini impegnati nella pulizia di prati e pascoli per la produzione di foraggio..


La fienagione è uno dei fenomeni, specchio dei tempi, che porta alla luce diverse contraddizioni del mondo rurale, soprattutto in relazione a difficoltà strutturali di antica data. Si pongono non solo le questioni strettamente connesse alla diffusione delle macchine agricole, ma, prima ancora, incalzano diverse riflessioni circa la tenuta del sistema agricolo e zoo-caseario della montagna, soprattutto in ordine alla sua sostenibilità complessiva, sia sotto il profilo economico che per quanto concerne la capacità dei vari operatori di fare gruppo e di condividere scelte, relazioni, investimenti, pur nella salvaguardia nelle rispettive organizzazioni aziendali. Al giorno d’oggi ciascuno è portato a fare da sé, ad agire da solo, a sostenere i propri esclusivi investimenti (in molti casi sproporzionati rispetto alla piccola dimensione aziendale), dimenticando che nel passato la montagna è sempre stata per antonomasia il luogo dello stare insieme, del vivere organizzati per contrade e non per case singole, lo spazio dove prevalevano le esigenze collettive rispetto a quelle individuali. Queste considerazioni rischiano di portarci lontano, dimenticando l’argomento principale che ha stimolato questo breve scritto: l’utilizzo ricorrente del rastrello, un attrezzo ancora formidabile per la tenuta dei prati e dei pascoli di montagna. Uno strumento antico, di facile costruzione e comune utilizzo, essenziale nella relazione tra il contadino di montagna e il mondo produttivo locale. Il rastrello è il pettine del prato e non c’è miglior soddisfazione, durante e al termine del lavoro, che osservare davanti il tappeto d’erba, ripulito anche dalle ultime pagliuzze di fieno, mentre riflette, oltre ai bassi raggi di sole che sopraggiungono al tramonto da Seràda [per milanesi, brianzoli, lecchesi, il Resegone], soprattutto il risultato di tanta fatica e ferrea volontà contadina. Mentre si rastrella non si avanza, ma si indietreggia, trascinandosi appresso, un passo dopo l’altro, manovrando a forza di braccia ol rastèl, la massa frusciante di fieno accumulata ai piedi del lavoratore del prato. Il rastrello si lascia allungare anche lassù, in cima al pendio, dove il girello trainato dal trattore non può sopraggiungere, e agisce prolungamento di sgràfe callose e assai determinate.


Mirella manovra con entusiasmo e caparbietà il suo rastrello, percorrendo i versanti scoscesi e radunando l’erba per l’essiccazione in zone pianeggianti raggiungibili dai diversi macchinari agricoli. Leggere folate di brezza di tramontana muovono a bandiera gli steli d’erba nel prato non ancora falciato e accarezzano la fatica serale di quanti, rastrelli in resta, affrontano con energia e risolutezza le ultime incombenze della giornata. La osservo mentre procede silenziosa e nei suoi gesti percepisco un profondo dialogo con il prato che la accoglie, mentre lo cura per restituirgli l’aspetto ordinato e pulito dopo il trambusto della fienagione. In quel lavoro paziente, la donna misura il terreno con i passi, lo solca un po’ per volta, si adegua alle pieghe e alle rughe della cotica, riconosce i sentierini e cerca appoggio sui piccoli falsipiani impressi sul terreno del ripido versante durante il pascolo settembrino delle vacche. Quel pettine dal lungo manico la rinfranca e sostiene soprattutto sui pendii più ripidi, bilanciando la postura. Colgo in questi semplici gesti una naturale sintonia con l’ambiente umano circostante e in lei rivedo l’operoso lavoro di quei pionieri che, già dal VI secolo a.C., avviarono la colonizzazione di questi territori, costruirono i primi insediamenti stabili, ricavarono prati e campi da coltivare, pascoli per l’alpeggio, utilizzando strumenti rudimentali, ma pur sempre efficaci, come il rastrello. Mirella e il rastrello usano il medesimo linguaggio, sono espressione di una concreta intesa ambientale, sintesi compiuta di diversi fattori familiari, economici, tecnologici, culturali e sociali che concorrono a riempire di significati anche uno strumento di lavoro all’apparenza semplice, comune e di poco valore, che però prende vita e determina il successo dell’azione rurale. Non esiste più solo Mirella che ha impugnato il rastrello, ma si pone pure il punto di vista del rastrello che l’ha catturata e coinvolta in un’azione ad elevato contenuto sia bucolico che produttivo. L’attrezzo in sé risulterebbe privo di qualsiasi valore, se non fosse colto e compreso attraverso il desiderio di farlo diventare ciò che è e in funzione di ciò che è in grado di esprimere. Quel semplice rastrello, come pure quello che sto utilizzando io, mentre navigo in questi pensieri, è in grado di raccontarci molto più di quanto pensiamo o riteniamo già di conoscere sul nostro mondo, sul nostro stile di vita e la realtà alla quale apparteniamo.


Ci sono rastrelli di ferro, di legno  di plastica. I primi li utilizza l’orticoltore per livellare il terreno di fresca semina, dopo la zappatura, e radunare gli ultimi residui di pietrisco, mentre gli ultimi, dozzinali e dai multiformi colori azzurro e rosso, verde e marrone, oggi vanno per la maggior durante la fienagione: ottenuti da produzioni seriali, ormai hanno completamente sostituito i loro “antenati” di legno, realizzati invece artigianalmente dai medesimi contadini, allo stesso tempo ideatori, architetti e costruttori dei rispettivi contesti insediativi e produttivi. Durante il periodo invernale, il Tata [capo della famiglia patriarcale] ne costruiva di nuovi e riparava quelli esistenti, ma era in grado di realizzare in piena autonomia anche gabie, sdirne, dèrei, s-cùe [gerle, telaio  per il trasporto del fieno sulla schiena, ceste per trasportare il letame, scope] … : attrezzi costruiti completamente in legno, un materiale di facile reperimento e facilmente lavorabile.


Rastrelli robusti, leggeri, pratici: ol Tata, durante la loro usura, poteva cambiare solo le parti che si deterioravano o rompevano, senza tutte le volte doverli sostituire, come avviene per quelli di plastica. La robustezza e la funzionalità del prodotto dipendevano dalla qualità del legno e dall’abilità del costruttore nel realizzare e comporre le tre parti che lo costituiscono: ol mànech, ol pèchen e i décc [manico, pettine, dento]. Ol mànech è un’asta lunga da 170 a 200 centimetri ed è ottenuta da un pollone di nocciolo con diametro di circa 4 centimetri. Il nocciolo è un legno particolarmente adatto perché lungo e dritto, leggero ed elastico, rinvenibile soprattutto lungo le siepi ai margini delle mulattiere o dei torrentelli montani. In alternativa si potevano utilizzare anche aste di acero o frassino. Tagliato in luna calante, il manico veniva lavorato  e predisposto subito, quando il legno è ancora verde, per lasciarlo poi essiccare söl pòrtech dol fé [sotto il portico del fieno].


Per costruire ol pèchen, invece, ol Tata utilizzava soprattutto legno d’acero montano, ma pure di frassino, fatto essiccare almeno un anno, mentre per i décc non c’era legno migliore del corniolo, duro e resistente. La lunghezza del pettine poteva variare dai quaranta ai sessanta ai centimetri, in relazione al suo utilizzo: ol rastelì, col pettine più corto, particolarmente consigliato per la pulitura di pascoli, da utilizzare quindi su terreni poco uniformi e sconnessi, era chiamato anche rastelì dol patös, mentre ol rastèl più comune e dalle dimensioni ordinarie era quello di uso corrente nei prati, impugnato un po’ da tutti, donne e bambini, ragazzi e anziani. Ma non poteva mancar ol rastelù, col pettine lungo anche un metro, chiamato anche rastèl da tràgna, messo in servizio per raccogliere e trascinare le ultime pagliuzze di fieno rimaste sul terreno. Al centro del pettine dalla robusta ossatura ol Tata realizzava con il gheröl, il foro principale, entro cui incassare il manico, che doveva risultare leggermente inclinato di circa 70 gradi (per far lavorare meglio la dentatura sul terreno), mentre lungo tutto il suo sviluppo lineare realizzava una serie costante di fori, distanti circa 4 centimetri l’uno dall’altro, entro i quali alloggiare ad incastro i décc, lunghi anche oltre dieci centimetri, dalla forma leggermente appuntita e tale da graffiare decisamente il terreno.


È raro trovare oggi nel prato vecchi rastrelli di legno e quelli di un tempo ormai sono stati consumati dall’usura e non più riparati. Nessuno più li sa costruire o ha il tempo per farlo. Se ne può rinvenire qualche raro esemplare dimenticato sui fienili di vecchie stalle abbandonate all'oblio, oppure conservato appeso, come trofeo, sulle parti interne di ambiziose tavernette. Nella simbologia popolare tradizionale il rastrello evoca azioni volte al risparmio e al prudente accumulo, alla lotta per la sopravvivenza e al duro lavoro per strappare alla terra risorse e beni indispensabili al sostentamento della scarna economia familiare. Al giorno d’oggi, invece, anche il rastrello può contribuire al perfezionamento di una dimensione ambientale sostenibile e alla conservazione di un ecosistema culturale e produttivo a misura d’uomo, ricercato e costruito passo dopo passo, mediante  la percezione diretta e consapevole della natura e del mondo circostante. Ol rastèl e l’tìra en cà, ol s-ciòp e l’tìra dal de fò [il rastrello porta in casa, il fucile porta fuori di casa], sostenevano gli anziani, per indicare che solo attraverso la paziente azione quotidiana di conservazione del proprio ambiente di vita e di lavoro è possibile riempire ancora i fienili e tendere al progresso economico  e alla sicurezza sociale. Il prato e il pascolo sono elementi irrinunciabili del paesaggio montano, ma vanno tenuti riconoscibili e ordinati. Il rastrello è lo strumento che riunisce, raccoglie, raduna, attira a sé e contribuisce a dare forma tanto alla piccola quantità di fieno, ammucchiata in modesti brasöi  [cumuli] nel prato, quanto agli imponenti cass de fé [cassero, la campata tra un pilastro e l'altro del fienile] sui fienili. Non a caso il Centro Studi Valle Imagna ha titolato una delle proprie collane editoriali “I Rastrelli” con l’intento di raccogliere sul campo (il prato) e conservare nei propri Archivi (il fienile) i principali fili (steli) della memoria e le testimonianze di vita di contadini e artigiani, pastori e bergamini, soldati ed migranti, carbonai e boscaioli, massaie e filatrici,… linfa vitale per la nostra sopravvivenza culturale, fonti insostituibili di ristoro delle identità e delle appartenenze. Il rastrello si trasforma, cessa di essere solo uno strumento di cultura materiale e assume significati e valori sempre più rari e preziosi. Soprattutto al giorno d’oggi.




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