Il lupo come strumento di oppressione sociale (WolfAlps)
Il “conservazionismo”,
che sulle Alpi fa leva sul lupo, si colloca nel solco di politiche
sociali che,
nei secoli, hanno significato l'esproprio ai danni delle comunità
locali del controllo sulle risorse locali,
oppressione, repressione e ingiustizia sociale. Così come avviene in
Africa e
in Asia, la super-tutela e le politiche di aumento delle popolazioni di
“animali
carismatici” rappresentano ovunque un grimaldello per attuare, se non
l’espulsione tout court delle popolazioni dai loro territori, la
perdita di controllo sulle risorse a vantaggio di poteri esterni.
In
Africa e in Asia, come documentato da inchieste e da parziali ammissioni degli
stessi ambientalisti (vedi qui e qui
gli articoli precedenti), queste politiche,
che comportano deportazioni, marginalizzazione, povertà e sottomissione
di
popolazioni un tempo autosufficienti, in grado di vivere in equilibrio
con il
loro ambiente, sono attuate con il ricorso alla violenza (sino alla
tortura, allo strupro, all'omicidio) da parte di corpi paramilitari
finanziati, addestrati, equipaggiati dalle Ong conservazioniste. I
piccoli
allevatori delle Alpi non sono oggi (ancora) oggetto di violenza aperta
ma di forme
di pressione e controllo che chiamano in causa un'eccessiva disparità
potere e un'assenza tutela di diritti e di interessi legittimi che sono
incompatibili con una società che si proclama democratica.
La tutela (che poi
significa proliferazione) del lupo passa sopra
tutto nel quadro di una sorta di “costituzione ombra” che conta di più delle leggi.
Una politica e delle istituzioni ectoplasmatiche stanno sostanzialmente
a guardare. I pastori, gli allevatori, gli abitanti dei
centri abitati che hanno il lupo sulla soglia hanno scarse possibilità
di far
valere i propri diritti e denunciare quello che subiscono perché
WolfAlps, punta
di diamante del conservazionismo aggressivo, ha posto sotto controllo,
direttamente (con la rete di partenariato) o comunque indirettamente,
ampi settori di
istituzioni pubbliche. Per di più controlla efficacemente i
media. Le notizie “negative” (le predazioni in serie, gli allevatori
costretti
a vendere gli animali, le aggressioni all’uomo, gli animali di
affezione
sbranati) vengono, quando non è possibile soffocarle e negarle,
relegate sistematicamente
nella cronaca locale. L’opinione pubblica è “schermata” da tutte le
informazioni che smascherano il trionfalismo di WolfAlps, che mostrino
come
la convivenza con il lupo si traduca nell’abbandono dei pascoli e della
loro attività da parte di pastori e
allevatori, ovvero nel campo libero per il lupo, come vi siano
gruppi di allevatori e di cittadini che protestano. Come avvenuto, in
modo coordinato in occasione dei recenti Giri ciclistici d'Italia e
della Svizzera.
Quello
che
succede sulle Alpi richiama ormai le vicende africane e del
subcontinente
indiano dove il contadino, il pastore, i cacciatori-raccoglitori sono
cacciato dalle terre ancestrali per volere degli
ambientalisti nordamericani ed europei (no, non è colonialismo!). Ma
se, oltre che lontano nello spazio, guardiamo anche lontano nel tempo
troviamo che queste storie di violenza e oppressione presentano una
continuità, una sistematicità. Sono storie che vengono da lontano, da
quando le tribù amerinde vennero scacciate a fucilate
dalle giacche blu per creare i primi grandi parchi nazionali americani
il cui modello continua ad affascinate gli ambientalisti. Qui in
Europa, in Italia, sulle Alpi possiamo constatare come la politica
lupista si collochi
perfettamente nel solco non solo dell’ambientalismo di importazione
nordamericano ma anche delle politiche che, da almeno due secoli a
questa
parte, utilizzano l’argomento "ambientale" della "tutela dei boschi"
per togliere alle comunità
locali il controllo sulla gestione del loro territorio, per
costringerle alla privatizzazione
dei beni comuni. Processi attuati sia con leggi ad hoc sia mettendo
sotto il controllo
statale i comuni, consegnandoli nelle mani di notabili locali (spesso
grandi proprietari
di boschi) legati a interessi esterni, interessi opposti a quelli dei
contadini-allevatori,
legati, in modo vitale, a forme agropastoraliste di sussistenza. La
storia si ripete quasi uguale oggi.
Il conflitto
tra ovicaprini e bosco era un conflitto sociale mascherato da presunte
legittimazioni ambientaliste. Esattamente come oggi. I ceti dominanti urbani,
i grandi interessi economici di cui essi sono i terminali subalterni, usano la tutela
del bosco e del lupo come pretesti che nascondono la loro volontà di esproprio.
In realtà i poteri urbani e tecnoburocratici non hanno mai cessato di
contrastare il pastoralismo e l’agropastoralismo quali forme di vita che consentivano a
comunità e famiglie di mantenersi indipendenti, di non subire la perdita di
libertà, di non emigrare, di non diventare “manodopera a basso costo”.
Il pastoralismo nelle
montagne europee, specie quello transumante, ha dovuto competere duramente per
l’uso dello spazio con i sistemi agricoli
intensivi, poi ha subito i contraccolpi delle successive fasi
dell’industrializzazione (Collantes, 2006). Oggi
la
minaccia per i sistemi pastorali proviene ancora, in parte, dalla
“coda” delle
politiche industrialistiche. Non è ancora esaurita la spinta
all’applicazione di
norme igieniche che hanno la loro ragione nel contesto di grandi
impianti
industriali. Non è venuto meno il sostegno pubblico (nel miope
automatismo
delle “misure” per lo “sviluppo rurale”) a moduli di allevamento
“padani” che
comportano la concentrazione della produzione di latte in singoli
allevamenti in montagna (ma non di
montagna), dove l’alimentazione è basata quasi esclusivamente su
mangimi e foraggi
importati. La produzione di queste grandi aziende slegate dal
territorio equivale a quella di tante piccole
aziende, così queste ultime sono progressivamente tagliate fuori per i
maggiori costi di raccolta del latte. In barba a tanti proclami, questa politica va avanti. Mirano
allo stesso obiettivo, ovvero la scomparsa delle piccole aziende, che
ancora praticano il pascolo e lo sfalcio delle superfici in pendenza
frenando
così l’avanzata del bosco, anche le politiche “ambientaliste”.
Frutto di malintese forme di “greening”, con esiti perversi di
“super-estensivizzazione” (a carattere speculativo) sono le misure che
hanno
condotto al fenomeno dei “pascoli di carta”, in forza delle modalità di
erogazione dei contributi della Pac per i pascoli. Tali misure privano
dell’accesso
ai pascoli gli allevatori per favorire opache società con sede in altre
regioni
(Mencini, 2021). Frutto di un malinteso e strumentale ambientalismo è
anche un’altra
minaccia per gli allevatori alpini. Si tratta della politica di
reintroduzione dei
grandi predatori, uno strumento hard di "rinaturalizzazione". Essa è
avvenuta per importazione e rilascio in natura di capi di origine
slovena, nel caso dell’orso
(Corti, 2012) mentre, in quello del lupo è stata un'operazione
“fortemente assistita” (non priva di zone d'ombra) con progetti che
hanno già cumulato 30-35 milioni di euro.
Tutte
queste politiche, sia quelle "produttivistiche", che continuano a
spingere per allevamenti intensivi, che quelle ambientaliste – è bene
sottolinearlo – hanno la stessa finalità e sono tra loro complementari.
Lo
speculatore che si accaparra i pascoli, disposto a corrispondere per la
locazione degli alpeggi anche 10 volte tanto gli allevatori locali (si
sono
visti alpeggi ordinari arrivare a basi d’asta di 100 mila euro), non
trae profitto
dai prodotti animali ma dalla rendita parassitaria sui “titoli pac”.
Sfruttando
la possibilità di un carico modesto (0,2 Uba/ha per soli 60 giorni),
invia all’alpe
asinelli malcilenti che, per i parametri della stupidità europea,
valgono
quanto una vacca da latte e che, se predati, fruttano un indennizzo
superiore
(ma solo in questi casi) al valore degli animali. Se il lupo li sbrana
lo speculatore
risparmia anche sul costo del trasporto degli animali a fine pascolo.
Al
massimo porta sui pascoli dei vitelli che consentono di raggiungere il
“carico” (in
Trentino si ricorda il caso di vitelli portati in alpe elicottero e
morti di
stenti). A custodire il bestiame vi è personale straniero, spesso
improvvisato,
mal pagato e mandato allo sbaraglio, senza strutture adeguate di
ricovero e, a
volte, anche senza scorte di cibo (tanto da dover ricorrere al soccorso
di
persone di cuore del posto).
Le
istituzioni conoscono questa realtà, denunciata ormai da
libri e inchieste
giornalistiche e televisive ma … “non possiamo farci niente”.
Analogamente alla
mafia dei pascoli, anche nel caso del lupo i politici allargano le
braccia: “non
possiamo farci niente”. La politica, in quanto meccanismo in grado di
operare scelte efficaci, in tempi adeguati a risolvere i problemi che
emergono nella società, ha perso buona parte del suo ruolo. Un po' per
lo spostamento dei centri decisionali verso sedi sovranazionali (dove arrivano solo le rappresentanze degli interessi più forti)
, un po' per l'intrico burocratico che rende difficile e lento
intervenire sui problemi, un po' per l'abdicazione della politica a
comitati tecnici e a organi composti da rappresentanti di
gruppi organizzati forti (vedi il peso sproporzionato che hanno le
organizzazioni ambientaliste in tanti organismi che formalmente non
sono decisionali da che influenzano). Quanto più la politica perde
terreno, a favore della burocrazia, della tecnocrazia, delle lobby e
quanto meno peso hanno gli interessi dedoli, specie se dispersi come
quelli del mondo rurale, tanto più hanno peso i gruppi organizzati con
alle spalle importanti risorse economiche.
Nel
caso dei grandi predatori l'inappellabile volontà degli dei, cui non ci
si può
opporre e rispetto alla quale i politici allargano le braccia, è
rappresentata dai trattati internazionali (per loro natura di difficile
modifica per spinte dal basso), dall’ Europa e dal timore di
un’opinione
pubblica, rimbecillita da
dosi industriali di oppiacei ecotelevisivi, di cui si temono gli
ondeggiamenti
elettorali. Anche se i verdi, come partito, non superano in Italia
nelle intenzioni di
voto il 2% dei consensi e il boom dei partiti verdi in Europa, dopo
l’effetto
drogato Greta, pare già sgonfiarsi (l'incubo di una Merkel verde al
comando dell'Europa pare allontanarsi). Non si può non aggiungere che,
in non pochi casi le difficoltà ad operare della politica
nascondono anche carenza di coraggio, di voglia e capacità di
affrontare battaglie difficili nonché una classe politica di caratura
inferiore al passato (conseguenza inevitabile della perdita di peso
della politica).
Il lupo
catalizza il conflitto sul controllo del territorio, la sopravvivenza delle
attività tradizionali e della stessa civiltà rurale alpina
È
doveroso inquadrare
il problema lupo nel contesto di una “soluzione finale” nei confronti
di tutte le attività tradizionali (rurali e non), una spinta che si
inquadra nella secolare
tendenza della modernità industriale capitalistica a concentrare le
popolazioni
nelle città, a eliminare ogni forma di piccola imprenditorialità
indipendente,
a distruggere ogni forma di economia e di scambio di beni e servizi al
di fuori
dei mercati (prima nazionale, ora globale). Però è anche bene ribadire
che il conflitto
sociale, indotto dalla brutale politica di espansione geografica e
proliferazione numerica
del lupo, ha la caratteristica di far emergere, con una chiarezza
inusuale, quelli
che sono i termini del conflitto e gli attori in campo.
A differenza dei processi
economici e dell’evoluzione delle regole e dei quadri istituzionali, che
avvengono con gradualità e che il singolo fatica a percepire (alcune
trasformazioni impiegano il tempo di una generazione ad attuarsi), l’uso del
lupo per mettere in ginocchio i sistemi pastorali alpini, per arrivare al
risultato di fare delle Alpi un grande parco spopolato sul modello
nord-americano o africano, determina repentini e traumatizzanti mutamenti nelle
possibilità di utilizzo del territorio e nella stessa vita delle persone. Da un anno
con l’altro non si possono più utilizzare con il pascolo intere valli (vedi la
valtellinese val Fontana nei comuni di Ponte e Chiuro che, quest’anno, non vedrà
più una pecora pascolare delle quasi trecento, di due/tre proprietari, che la
frequentavano sino allo scorso anno).
Le splendide capre frise, Sondalo è la patria della capra frisa
(probabilmente la più bella capra europea) con le frazioni di Frontale
(era chiamata anche frontalasca) e Fumero, colpite dall'ordinanza di
dicieto di pascolo della sindaca. Via le capre avanti i lupi.
Una
realtà relativamente
pacifica (se si eccettua il problema della mafia dei pascoli), lontana
dalle aspre
contese per il possesso dei pascoli di secoli fa (Corti, 2004), diventa
il
teatro di un'aspra guerra sociale “per interposto animale” (lupo vs
animali
domestici). Un conflitto che coinvolge tutte le attività di allevamento ma, in modo drammatico le attività
su
piccola scala, oggi spesso esercitate “per passione”, attività alle
quali si deve
il mantenimento di razze in via di estinzione, di paesaggi, di culture
rurali. Tutto quello che la civiltà urbana, con le sue due facce della
stessa medaglia (Ogm e cibo artificiale da una parte, wilderness
dall'altra) vuole cancellare. Sappiamo bene che valore eversivo abbiano
il buon cibo, il paesaggio curato, l'umanità della vita rurale, i
valori di convivialità. Tutte cose che, chi auspica un mondo diviso tra
città prigione con gli schiavi che mangiano insetti e un unico immenso
parco mondiale, ritiene pericolose perché suscettibili di
suscitare nostalgia e resistenza. Oggi, comunque, anche gli allevamenti più grandi, su base professionale, subiscono gravi
danni, e la prospettiva di problematici cambiamenti di gestione. I bovini, come insegna
l’esperienza del Veneto, dal 2012 in poi, possono localmente subire i danni
principali.
Non è un conflitto
tra lupo e pastore ma un conflitto sociale tra gruppi sociali (chi ha
solo da guadagnare e fa parte di gruppi privilegiati, chi ha solo da
perdere e fa marte di gruppi deboli)
Nella
propaganda lupista si riconosce l’esistenza di un conflitto ma si
nega che rappresenti un conflitto sociale su entrambe le sponde. Il lupo non è un soggetto
sociale,
evidentemente, ma è uno strumento abilmente gestito dai burattinai che
lo usano. Un animale "telecomandato" anche quando non
radiocollarato. Se il lupo non è
controllato, se non si può neppure spaventarlo, esso si allarga e si
moltiplica. Lo sapevano bene le popolazioni rurali del passato che
esercitavano ogni sforzo per eliminare i lupi, consapevoli che, in
assenza di una forte pressione, esso si sarebbe moltiplicato impedendo
alla popolazione di svolgere quelle attività che le consentivano la
sopravvivenza. Il lupo per millenni è stato combattuto dalle popolazioni rurali: si scavavano delle buche
(le luere, la cui diffusione è testimoniata da numerosissimi toponimi)(Comincini, 2002; Leo, 2007, Oriani, 2014. Marucchi e Vachino, 2020)
si assegnavano premi in denaro per ogni lupo eliminato, si stabilivano regole che obbligavano tutti gli uomini validi
a partecipare a cacce e battute al lupo. Era una "convivenza" basata su una lotta senza quartiere al predatore.
Non per crudeltà ma per sopravvivenza. Questa esigenza era compresa da tutta la popolazione, anche da quella urbana.
Il lupo che cadeva nelle fosse (le luere) era finito a forconate. Con l'avvento delle armi da fuoco a retrocarica e a canna
rigata, la guerra tra uomo e lupo ha preso una piega diversa; nonostante l'uomo cercasse di sterminare il lupo applicando il massimo dell'impegno, con i mezzi pre-industriali
l'intelligenza, l'opportunismo, la capaicità riproduttiva del lupo riuscivano a controbilanciare gli sforzi dell'uomo. Ogni tanto erano
predati dei capi, ogni tanto spariva un pastorello e si trovava solo il cranio. Questa la poco idilliaca "convivenza". Oggi la super-protezione di cui goge
la specie, in forza della inalterata capacità del lupo di sfruttare ogni spazio per espandersi e riprodursi, ha sortito l'effetto di una
crescita troppo rapida. Il tasso riproduttivo della specie, trovando ampie risorse alimentari
disponibili, è elevato e la
popolazione cresce sulle Alpi del 30% all’anno. Delle due l'una: o i lupologi non conoscono bene il lupo e non hanno soppesato bene le conseguenze
delle loro azioni miranti a promuovere in ogni modo l'aumento numerico del lupo... o del lupo in sé forse non interessa loro molto. Se, come crediamo,
per loro il lupo è strumento di una biopolitica di esproprio delle popolazioni di montagna e delle aree interne (a pro di grandi interessi economici ma anche
di sé stessi) allora i conti tornano. Lupi e ibridi vanno bene allo stesso modo purchá mettano in ginocchio e facciano regredire le attività
tradizionali che ancora utilizzano i territori, purché il territorio agro-silvo-pastorale scompaia a favore della wilderness e dei business
che essa consente, ovviamente a soggetti sociali completamente diversi dai "vecchi abitanti".
I lupisti hanno, sin dall'inizio delle loro campagne di promozione dell'espansione del lupo, accusato i pastori e gli allevatori di "aver perso la cultura della convivenza".
Un modo come un altro per mascherare l'iniquità sociale di una biopolitica in cui tutti i vantaggi sono per gli ambientalisti, i ricercatori, i burocrati verdi, tutti gli svantaggi per i pastori
e gli allevatori. Una cortina fumogena come tante altre. Ma non è difficile ribattere ai lupisti che quello che i pastori hanno dimenticato è sì
l'uso dei cani da protezione (divenuti di difficile gestione e inutili con l'estinzione del lupo), della custodia assidua del gregge (che costava anche la vita ai pastotrelli), degli stazzi notturni,
degli ovili e caprili ma sono anche le tecniche di eliminazione dei lupi. La "convivenza" era impensabile se non nell'abbinamento di tecniche di difesa attiva e passiva.
L'insieme di queste tecniche determinava quel mitico "timore per l'uomo" che ggi non è più dato constare nel lupo, sempre più sfrontato, sempre più spavaldo.
Se i pastori hanno dimenticato le regole di ingaggio della "convivenza" le ha dimenticate anche il lupo. Ma su questo si glissa.
Le obiezioni dei lupisti a questi ragionamenti chiamano in causa una società più ricca ed evoluta. Ma il ragionamento non tiene conto che, in montagna, al pascolo, le
"moderne tecnologie" recinti elettrificati, gps, batterie solari, telefonini non eliminano l'impegno fisico a spostare e custodire il gregge, ad allestire i recinti
(spesso in condizioni difficilissime di roccia affiorante). Facile parlare quando gli altri penano. La società nel suo insieme ritiene di essere disposta a
qualche sacrificio per i lupi, peccato che i sacrifici cadano sulle spalle di alcuni. Fingono di non capire, i Signori del lupi, che io insisto a chiamare i nuovi signori feudali
(con tanto di masnada) che, se oggi il pastore ha degli ausili tecnologici, ha anche molta meno disponibilità di manodopera. Non ci si improvvisa pastori, fare il pastore
non significa stare lì a guardare le pecore, spostarle con un cane (che bisogna comunque saper far lavorare). Bisogna conoscere la qualità del foraggio, osservare il comportamento
e la pancia (vuota o piena) degli animali, constatare se hanno "brama" di pascolo o meno, sorvegliare l'insorgenza di sintomi di patologie, applicare delle cure.
Trovare personale qualificato è difficile. La burocrazia, che ha appestato anche il settore della formazione professionale come tutti gli altri, impedisce
sulla base di regole incompatibili con la trasmissione di saperi pratici come quelli dei pastori, di organizzare corsi utili a formare pastori e aiuti pastore.
(ben diversamente vanno le cose in altri paesi europei dove la professione del pastore è rispettata, vi sono scuole, vi sono servizi di consulenza). Il pastore viene
lasciato solo e così, quando alle difficoltà del mestiere si aggiunge la pressione predatoria... è messo nelle condizioni di chiedere
aiuto agli unici soggetti organizzati che si occupano di lui: i lupisti. È come mettere la volpe a guardia del pollaio. Chiamare le squadre lupiste significa farsi mettere sotto
la loro tutela e il loro controllo. E così il pastore fa la fine del topo con il gatto. Si trova tra l'incudine e il martello. Sarà sempre perdente (come da copione).
Tra le narrazioni lupiste da sfatare vi è anche quella che tende a dimostrare che il lupo è la conseguenza "naturale" dell'abbandono. Questa,
come altre narrazioni, è palesemente finalizzata ad allontanare il sospetto di "reintroduzioni" illegali. Ma, a parte la questione
della reintroduzione più o meno spontanea, cosa c’è di “naturale” nella “riconquista del territorio” da parte del lupo, salutata dai più fanatici (compresi alcuni ai vertici dei CC forestali) come la "rivincita della natura"? Ben poco, anzi nulla. Intanto non è affatto vero che
il lupo dilaghi a causa dell’abbandono. Basta considerare la montagna veneta, che non ha
conosciuto affatto i fenomeni di abbandono di altre aree, che è caratterizzata
in larga misura da forme di allevamento piuttosto intensive (bovini da
latte di razze specializzate). Il lupo dilaga anche qui perché non è contenuto e
trova, oltre
alle
prede selvatiche, quelle domestiche abbandonate alla sua mercè da norme
che
stravolgono i fondamenti stessi del "patto di domesticazione" alla base
della simbiosi biologica tra uomo e animali domestici (l’animale
domestico, meno
reattivo e meno provvisto di difese del selvatico ha bisogno della
protezione
attiva da parte dell’uomo contro i predatori). Il lupo impara presto
ad aggirare le difese passive che l'allevatore allestisce per difendere
i propri capi. Quando tutti gli allevatori di una zona si sono dotati
di cani e di recinti il vantaggio iniziale (consistente nell'indurre il
predatore a rivolgersi ad un'altra "dispensa") vengono meno. Due cani
sono efficaci nel tenere lontano un lupo "in dispersione" ma, per
fungere da deterrente contro i branchi (5-6 individui) necessitano mute
di cani in numero superiore ai lupi. Non pochi allevatori sono stati
costretti a dotarsi di mute da 20 cani. I costi e le difficoltà di
controllare numeri elevati di cani da difesa del gregge aumentano
diventando insostenibili anche per grossi allevatori. Inoltre, in area
alpina con intensa frequentazione turistica, l'utilizzo di mute di cani
di razza adatte alla difesa comporta gravi problemi di convivenza con
... il turista. I lupisti fanno credere al pubblico sprovveduto che i
cani risolvano i problemi e che solo la pigrizia, l'avarizia e
l'ignoranza dei pastori ne limiti l'impiego. Sono accuse ignobili,
specie perché arrivano da gente ben pagata per fare "comunicazione"
dietro una scrivania con l'aria condizionata. L'impiego dei cani da
difesa sulle Alpi ha già comportato una serie di incidenti (cani di
turisti aggrediti a volte anche mortalmente), escursionisti e bikers
morsi. Come tutti dovrebbero sapere il cane mordace implica una serie
di problematiche (messa in osservazione e controlli, se del caso
sequestro e denuncia per omissione di custodia). Ci sono pastori che,
subendo già le conseguenze delle aggressioni ai turisti da parte dei
loro cani preferiscono farne a meno. Un pastore mi ha dichiarato:
"il giorno che uno dei miei cani dovesse uccidere un bambino io non
dormirei più la notte, anche se c'era i cartelli, anche se i genitori
non hanno rispettato le norme di buon senso, anche se l'assicurazione
coprisse e i dammi e io non avesse conseguenze civili e penali".
Il
pastore è in trappola perché se non adotta almeno alcune misure di
prevenzione si vede negare gli indennizzi (in Piemonte è previsto che
un veterinario pubblico certifichi che le condizioni specifiche
rendevano impossibile l'adozione di almeno due misure).Da una parte il pastore è costretto ad avere un numero di cani "adeguato" dall'altro, con mute "adeguate" si incappa facilmente nei problemi. Il
proprietario del cane è sempre responsabile del proprio animale (cane da guardiania
compreso) e dei danni che esso può arrecare a terzi (Ordinanza 13 luglio 2016 che
proroga l' Ordinanza 06 agosto 2013 “Ordinanza contingibile e urgente concernente la
tutela dell'incolumità' pubblica dall'aggressione dei cani), sia civilmente (Art. 2052 del
Codice Civile “Danno cagionato da animali”) che penalmente (art. 672 C.P. “Omessa
custodia e mal governo di animali”, ex art. 590 C.P. “Lesione colposa” e ex art. 589 C.P.
“omicidio colposo”).
Come se
non bastasse diverse amministrazioni comunali hanno già posto limiti
all'impiego dei cani. Ma se il cane deve essere legato, se può operare
solo in presenza del pastore a cosa serve? Sono problemi che i
lupisti non hanno. Loro dormono sereni, tronfi dei loro successi
(indubbi, perché i lupi aumentano, i pastori diminuiscono e le tasche
lupiste si gonfiano). Loro non hanno responsabilità, non hanno rischi,
lasciano che la lotta tra pastori, sindaci, cani, turisti, lupi,
pecore si sviluppi in una dinamica di violenza che non potrà che
nuocere ai pastori e vederli soccombere, mentre loro potranno guardare
i cadaveri che scorrono sul fiume e girarla in modo da avere sempre
vantaggi. Un gioco win-win per i lupisti, lose-lose per i pastori. I lupisti lo sanno e ghignano fregandosi le mani vedendo i pastori che sbattono la testa di qui e di là.
Leggi
anacronistiche (Convenzione di Berna, Direttiva Habitat),
scritte quando il lupo in Europa era al minimo storico, mantenute in
vigore (nonostante le ormai reiterate richieste di revisione), sulla
base di dati palesemente falsi,
favoriscono la proliferazione del lupo. Va però detto che esse
consentono, già oggi, un limitato controllo e che è solo la fifa blu delle regioni
nei confronti delle lobby animal-ambientaliste che impedisce di
applicarle (ne abbiamo parlato qui).
Prima delle attuali campagne di
"censimento" del lupo, i risultati dei monitoraggi regionali (che
pure, per ammissione di diversi esperti, sottovalutavano la reale
consistenza del
lupo) quando venivano sommati portavano, anche solo disponendo dei dati
di alcune regioni, a superare la “stima”
nazionale allora dichiarata. Una “stima” politica, come ammesso dagli
stessi esperti che, ad anni
di distanza e con il lupo ormai in ripresa ovunque, hanno ammesso di aver
esagerato, di aver detto bugie a fin di bene,
quando fornivano stime bassissime sulla consistenza della specie negli
anni ’70-’80.
Il costoso censimento, da tanto tempo in corso, partorirà un topolino:
verrà fuori che c'è stato un
aumento ma, in termini assoluti molto inferiore alla realtà. Avendo
sottovalutato pesantemente la consistenza delle popolazioni nel
passato oggi i lupologi, pena smascherare loro stessi, non possono che
fornire dati compatibili con una crescita naturale rispetto al dato di
partenza. Ovviamente non possono negare che i lupi stiano aumentando (li si
vede ovunque, gli incidenti stradali sono sempre più frequanti) ma faranno in modo che l'aumento, sulla carta, sia il più
piccolo possibile compatibile con il non scadere nel ridicolo; in ogni caso un
dato (come in passato) sarà ancora un dato politico, calcolato con il bilancino della convenienza.
Oltre alle
norme anacronistiche di super-protezione del lupo, vi sono poi le decine di milioni dei progetti pro lupo. Oltre l’apparato
propagandistico
messo in campo direttamente con i vari progetti Life c'è un ampio
"indotto", in parte stimolato a bella posta da WolfAlps, in parte
prodotto di una lupomania spontanea che viene abilmente indirizzata e
coltivata. Ne deriva un poderoso apparato ideologico e culturale
(vedasi l’inflazione di
film, documentari, saggi, romanzi finalizzati a mitizzare il lupo).
I progetti
non rappresentano solo un modo per suscitare atteggiamenti favorevoli al lupo.
WolfAlps mette in atto anche delle misure attive: le squadre con i cani antiveleno,
il fototrappolaggio, la sorveglianza degli allevatori (con il pretesto di
assisterli nell’adozione di forme “personalizzate” di prevenzione). Come se
tutto ciò non bastasse si cerca di istituire delle “aree di riproduzione” dei
lupi all’interno di aree protette. In Piemonte (qui) una di queste aree è stata
istituita in val Chisone (To), altre due, previste in provincia di Cuneo, sono
state stoppate quando i sindaci (che si cercava di tenere all’oscuro della
manovra) se ne sono accorti. Il lupo non è più il fuocherello che rischia di
spegnersi ma un falò. Eppure, si soffia sempre con foga sul fuoco, in
ogni modo possibile.
Se le capre, le pecore, gli asini, i bovini e gli altri animali vittime
del lupo sono di proprietà dei pastori, degli allevatori (professionali o per
passione), così i lupi, sotto il profilo giuridico-formale, sono del
Principe (proprietà indisponibile dello
stato) ma, nella dinamica sociale, sono chiaramente un bene disponibile
per gli animal-ambientalisti. Un bene, sia ben chiaro, non solo
simbolico, non solo legato al "valore di esistenza", ma un bene
economico. Il lupo è una gallina dalle uova d'oro. Gli
ambientalisti rivendicano la tutela, la titolarietà dei lupi ogni volta
che fa
loro comodo porsi come i tutori della specie, i legali rappresentanti
dei suoi
diritti. Chiaramente, quando si tratta di danni, allora devono
provvedere altri. È sintomatico che mentre la gestione del lupo sia,
nell'ambito delle regioni affidata al settore parchi, all'agricoltura
si affidi solo il compito di provvedere agli indennizzi. Ai nostri
politici, un po' ignavi, sta bene così,
ma non c'è nessuno statuto, legge quadro, codice che stabilisca che
lupo e orso siano competenza di chi – ovviamente di provata fede
animal-ambientalista – si occupa di parchi.
Dovrebbe essere competenza del settore che si occupa di fauna, attività
venatoria e agricoltura, materie naturalmente connesse (i selvatici si
nutrono e fanno danni non su Marte ma sul territorio agrosilvopastorale.
Mentre,
per mantenere i loro animali, i pastori e gli allevatori
impegnano risorse proprie, per mantenere i lupi gli ambientalisti
utilizzano
risorse del contribuente e dei pastori/allevatori (che sono chiamati a
offrire in
sacrificio rituale all’appetito lupino i loro animali). A rafforzare la
palese
iniquità sociale di questa situazione vi è il fatto che, per gli
ambientalisti,
la “titolarietà” del lupo è rappresenta un ottimo affare economico. Nell’ambito del
progetto WolfAlps II sono già stati assegnati 70 incarichi a “esperti”
per
importi che vanno da 260 a 20 mila €. Si creano così degli zelanti
squadroni di
comunicazione (disinformazione, lavaggio del cervello). Costi e benefici del lupo sono ripartiti in un
modo che, più iniquo e socialmente sperequato di così, non si potrebbe.
Quella tra lupisti e pastori (il lupo, ripetiamo, è solo un animale
inconsapevole che fa quello che l'uomo gli lascia fare) è una guerra
con i suoi bollettini, con la
sua propaganda, la disinformazione, la controinformazione (i samizdad).
In questa sede
vogliamo mettere in evidenza, con riferimenti a quello che sta
avvenendo in
questi mesi, come l'attualità si ponga in perfetta continuità, come già
anticipato, con
il secolare processo di progressivo esproprio,
da parte dei poteri urbani, delle proprietà collettive, delle forme di
autogoverno che consentivano una gestione oculata delle risorse. Capire
come si colloca quello che sta suvvedendo sotto i nostri occhi in una
prospettiva storica è utilissimo che capire il senso di quanto stiamo
vivendo. Se riuscissimo ad analizzare la situazione con il distacco
degli storici futuri, applicando la stessa lucidità con la quale
analizziamo i fenomeni sociali del passato, avremmo già raggiunto un
grosso obiettivo.
L'attuale strategia del conservazionismo aggressivo, in Europa come
altrove, si colloca nel solco di quel processo secolare di immissione a
forza delle popolazioni rurali nell'economia di mercato, nell'esproprio
delle ampie risorse collettive (pascoli, boschi ma anche strutture di
trasformazione , infrastrutture) possedute dalle comunità rurali. Gli
storici fanno di solito riferimento al modello delle enclosures
inglesi, il processo che tra XIII e XIX secolo, vide l'esproprio totale
dei contadini a favore della borghesia mercantile urbana. Le terre
comuni, dove il contadino coltivava per l'economia di sussistenza,
vivendo dignitosamente, vennero privatizzate, recintate, trasformate in
pascoli per la produzione di lana, i contadini trasformati in una forza lavoro semi-schiavistica, alloggiati in slums con condizioni igieniche allucinanti.
Nell'Italia settentrionale il
processo venne completato, in pianura, già nel medioevo, durante
il grande boom economico (molto più impetuoso che in altri paesi), che
precedette le epidemie di peste del XIV sec. Nel
medioevo padano (e di altre parti d’Europa), la drastica riduzione dei
boschi (determinata
dai fabbisogni urbani di legname, più da opera, per le costruzioni e le
infrastrutture, che per l'uso energetico) diede l’occasione alle
città di espropriare le comunità rurali dei boschi del territorio di
influenza del comune urbano e di gestirli direttamente.
La trasformazione dei contadini indipendenti,
che potevano disporre di pascoli e boschi di proprietà collettiva, in
miserabili braccianti rappresentò l’esito di queste politiche.
In montagna,
dove le comunità erano forti e ricche (per via delle attività estrattive, manifatturiere
e commerciali), dove il contadino-allevatore era spesso anche artigiano e
proprietario di una quota di miniera o forno fusorio “sociali”, l'aggressione ai beni collettivi e alle comunità trovò
insormontabili resistenze. Solo dopo la perdita di peso economico
della montagna, la messa in campo degli apparati burocratici e militari di comando e controllo dello
stato nazionale (nonché di quelli scientifico-ideologici, sorretti da pretestuose giustificazioni
“ambientaliste” ante-litteram), i poteri urbano-borghesi poterono piegare le
comunità, indebolite anche dai debiti provocati dalla tassazione statale. Eravamo
alla fine del XVIII sec. Tale politica espropriativa e di soggiogamento conobbe
un crescendo di intensità nel corso del XIX secolo con l’istituzione delle
polizie e delle amministrazioni forestali centralizzate e l'approvazione di leggi
forestali ispirate da quegli stessi principi che, ancora oggi, il forestalismo
ideologico (saldatosi con l’ambientalismo) insiste a far valere, anche a fronte
dell’avanzata dei boschi (non solo in Italia e non solo in Europa).
La guerra
alle capre come leit-motiv dell’aggressione alle comunità rurali alpine
Oggi si impone
la proliferazione del lupo, al di là di ogni ragionevole sostenibilità per le
attività pastorali , giustificandola con la “biodiversità” (e facendo finta di
non vedere come, nella realtà delle Alpi, la ricchezza di specie di animali e
piante sia legata all’attività antropica e alle pratiche agro-pastorali) (vedi
qui). Le analogie tra la guerra alle capre, alle pecore ai contadini-allevatori
alpini di due secoli fa e l’attuale guerra combattuta con la proliferazione dei
lupi, divenuti intoccabili, sono molte e fanno riflettere. Tra Sette e Novecento
(nel secolo scorso la “guerra alle capre” conobbe una recrudescenza con il
fascismo) si sosteneva che la regressione dei boschi fosse da imputare ai
montanari e ai loro animali, mentre la storia insegna che fu il fabbisogno di
energia nella fase di sviluppo proto-industriale a provocare la deforestazione
(più precoce ed estesa in Inghilterra ma, nel XVIII sec., evidente anche nelle
aree a Sud delle Alpi).
Vennero elaborate delle teorie “scientifiche” che
incolpavano i montanari del disboscamento e dei conseguenti danni (vedi l’ing. Surell, un amministratore forestale con la sua
pubblicazione “Etude sur les torrents des Hautes-Alpes” del 1841). Se Surell se
la prendeva con le pecore, il bersaglio privilegiato dei forestali di ogni
regime sono state le capre, l’animale più legato all’agricoltura di
sussistenza, quello che rappresentava la previdenza sociale per le vedove e le
famiglie in difficoltà. Il latte di capra, nella minestra di erbe spontanee,
rappresentava la dieta della sopravvivenza. Grazie alle capre, molti montanari,
integrando con attività extra-agricole, potevano vivere senza patire la fame.
Un grave ostacolo per le politiche che tendevano al tempo stesso a mettere le
mani sui boschi per la speculazione sul legname e (due piccioni con una fava) a
“liberare” manodopera a basso costo per l’industrializzazione incipiente agli
sbocchi delle valli alpine. Per “liberare” la montagna dalle capre si facevano
circolare, ancora nell'Ottocento, delle “teorie” secondo le quali il morso della
capra risultava velenoso alla vegetazione.
La
“guerra alle capre”, si combattè in
Francia (Solokian 1988, Matteson, 2006) e in Lombardia e aree limitrofe
(Corti,
2006) ma vi sono moltissime tracce nella letteratura di accesi
dibattiti tra
Otto e Novecento anche in relazione ad altre regioni (fanno riferimento
ad essa
Barbacetto e Lorenzini, 2021 - in press) nel contesto veneto-friulano). Contro le
capre, Giuseppe
Gautieri, capo dell’amministrazione forestale napoleonica del Regno d'Italia, restato al
suo posto con quella Lombardo-Veneta, scrisse un ponderoso trattato
(Gautieri, 1816). Dal momento che l’ipocrisia bi-partisan era in
voga già allora, lo intitolò sibillino Dei vantaggi e dei danni derivanti dalle capre
in confronto alle pecore. In realtà elencava ogni male possibile come derivante dalle capre.
È molto istruttivo leggere Gautieri perché si comprende bene la
strumentalità dell'ecocatastrofismo odierno: Scrive il nostro capo
della forestale: "Franati i monti,
intisichiti pel freddo alle loro falde gli alberi, alzato il letto de’
fiumi e reso incapace a contenere le loro acque che già traboccano e
inondano le sottostanti campagne, aumentati ed abbassati i nevali ed i
ghiacciaj, fulminati i tuguri degli alpigiani, inaridite alla pianura
le messi, mal sicure le case". Una vera Apocalisse.
E qual'era il fattore di questo cambiamento climatico, di questi
sconvolgimenti e capaclismo: la povera capra. Ma, anche allora,
l'obiettivo erano gli uomini.
WolfAlps
copia le squadriglie ottocentesche: repressione e intimidazione contro gli
allevatori alpini
Gli
strumenti della rinnovata guerra degli egoistici interessi urbani
contro
quello che rimane della realtà rurale e della civiltà alpina
assomigliano maledettamente a quelli
impiegati duecento anni fa. Prendiamo le “squadriglie”. Oggi son
chiamate, con
altisonante acronimo anglofono WPIU (Wolf prevention intervention
units). L’impiego
delle squadriglie trovava una giustificazione “tecnica”: le
Guardie Boschive
dei singoli comuni (normalmente ve n’era una sola) non avrebbero potuto
intervenire da sole per bloccare e sequestrare le capre “in gran
numero”. In
realtà, impiegando Guardie di altri comuni, si desiderava 1) vincere la
scarsa
propensione di quelle locali ad intervenire contro gli abitanti del
comune (se
non altro per timore di rappresaglie); 2) intimidire gli allevatori con
lo sfoggio di forza numerica e di personaggi "foresti"; 3) sottrarre operatività ai comuni che,
in
buona parte del Lombardo-Veneto erano condizionati dalla presenza dei
“Convocati
generali”, forma moderna dell’assemblea dei capifamiglia (ovvero
di tutti
i piccoli e piccolissimi proprietari terrieri secondo la riforma delle
amministrazioni locali di Maria Teresa). I Convocati, ovviamente, non
erano
certo intenzionati a ledere gli interessi di una parte considerevole
delle loro
comunità e mai avrebbero attuato e fatto rispettare dalle guardie
campestri una
politica di repressione nei confronti dei proprietari di capre. In ogni
caso,
gradualmente, con le “squadriglie”, si tendeva a passare a un sistema
di
polizia forestale centralizzato. L’embrione di una polizia forestale
era stato
gettato con la legge (Regno Italico) del 1804, ma le guardie forestali
operavano ancora in ambito comunale, pagate dai comuni, sebbene
formalmente agli
ordini di superiori. In Piemonte l'Amministrazione forestale
centralizzata risale al 1822.
Negli anni della “restaurazione” le squadriglie operavano
ormai direttamente, gestite dagli Ispettori, fuori dal controllo dei comuni. È significativo
che, ancora negli anni ’50 del XX secolo, le guardie forestali fossero indicate in Valtellina con il termine squadríi e
che questa figura rappresentasse, nell’immaginario contadino, la prima forma di
personificazione di uno Stato lontano, estraneo e oppressivo, più temibile dei
carabinieri e dei giudici. “Lo Stato era considerato un qualcosa di ostile, una
minaccia sempre incombente con le tasse, col squadrii (guardiaboschi),
coi carabinieri, i giudici e la naja” Bianchini, 1985, p. 75).
Oggi, come due
secoli fa, la guerra agli allevatori è combattuta con una propaganda
ideologicamente orientata, che si ammanta di giustificazioni
“scientifiche” ma
che non esita a riesumare anacronistici divieti di pascolo. Vedi a questo
proposito
la grida di qualche giorno fa della sindaca di Sondalo, (paese
della Valtellina dove la capra – frisa – è un culto). La "grida", prevede, come i dispositivi di secoli fa, la facoltà del
danneggiato (nella sua proprietà) di catturare le capre sorprese in
flagranza di pascolo abusivo.Viene
motivata delle lamentele di
privati
ma cade, in perfetta e sospetta sintonia con la campagna
anti-allevatori
della
dott.ssa Ferloni del servizio faunistico provinciale. La Ferloni ha
annunciato (per
imporre la “prevenzione”
imposta da WolfAlps) che le guardie procederanno a verbalizzare ogni
ovi-caprino trovato fuori dalle reti,
minacciando
anche che nessun indennizzo per le predazioni sarà corrisposto a chi fa
pascolare gli animali fuori dai recinti. Dopo questa boutade c'è stata
una notevole agitazione politica e la Ferloni è stata , per il momento,
messa a tacere dal presidente della provincia.
In
realtà, se, da una parte, il conflitto appare meno crudo di
un tempo, per molti versi è invece più aspro e sanguinoso. Privare
delle capre i montanari delle famiglie povere equivaleva a condannarli
all'emigrazione forzata o alla miseria più nera. Oggi c'è il reddito di
cittadinanza (non per molti peraltro) e comunque nessuno muore di fame, ma quanta violenza c'è nel lasciare che i lupi si
scatenino contro gli animali domestici con il preciso scopo di
impedire certe forme di pastoralismo oggi, tutte le altre domani? Quanta
violenza sociale c'è nell'utilizzare animali feroci per ottenere lo
spopolamento della montagna, l'espulsione di famiglie che abitano da
secoli in certi villaggi, in certe valli? Quanta sofferenza, difficili
decisioni, sacrifici sono imposti agli allevatori? Quanto sudore a
trasportare a spalla le reti? Quanti notti insonni pensando agli
animali in pericolo? Quanti litigi in famiglia ("vendiamo le capre!",
"No, cerchiamo di tenerle").
Non
dimentichiamo la sofferenza degli animali. Quanto sangue di animali
innocenti viene versato dai lupisti per ottenere, in modo cinico
e spietato, i loro obiettivi? Per i lupisti gli animali domestici
non valgono
nulla, sono bistecche ambulanti, quindi rimuovono ogni senso di colpa
per le sofferenze che i loro lupi infliggono agli animali dei pastori.
Anzi, la colpa è sempre degli allevatori, che non sono capaci di
custodire ecc. Per i lupisti gli allevatori sono gente ignorante
che
non sa apprezzare la nobiltà del lupo (eh già, dovrebbero contemplarla,
serafici, mentre la "splendida creatura" dilania le carni dei loro
animali ancora vivi). Il lupismo avanza in un bagno di sangue, in un
mare di menzogne, in un mare di sofferenze e angoscia delle persone.
Essendo il montanaro, l'allevatore un villico
ignorante è giusto ingannarlo, nascondergli la verità. Il fine
giustifica i mezzi. Lo pensavano anche quei simpatici personaggi che
hanno fatto morire milioni di persone per convinzioni politiche o
razziali.
Intanto WolfAlps distribuisce prebende generose a
destra e a manca creandosi una rete sempre più vasta di giannizzeri
(con tutti i milioni che ha a disposizione). Pare di vivere in una
brutta favola di oppressione feudale, un film di Kurosawa, ma è il XXI
secolo.
Ambientalismo
come copertura della lotta dei ceti dominanti contro quelli deboli (chiamiamo le cose come stanno)
Oggi, le argomentazioni che legittimavano il vecchio colonialismo (che, non dimentichiamoci, ai
tempi era salutato dagli intellettuali, dalla chiesa, come missione umanitaria, di progresso, civilizzatrice), sono state “decostruite” (smascherate, parlando in termini
più espliciti). Idem, almeno in parte, per
le politiche anticontadine e antipopolari attuate dalle élite di un
tempo. Non costa molto vituperare Bava Beccaris, che nel gaggio 1898
usava il cannone contro il popolo che protestava per il pane e il
lavoro nel centro di Milano. Lo fa anche chi oggi , l’intellighentsia
progressista e ambientalista non ha però alcuna intenzione (per
ovvi motivi di interessi di casta) a “decostruire” le politiche
ambientaliste
antipopolari odierne. Eppure la situazione attuale presenta analogie
con un passato di privilegio e oppressione.
Duecento anni fa, il
pretesto “ambientale” per togliere il
controllo delle proprie risorse alle comunità locali e metterlo in capo alle
élite
locali e ai poteri urbani (capitalisti, tecnoburocrazia) si
basava, almeno su un fenomeno reale (la deforestazione). Il meccanismo
del potere consisteva, allora, nello scambiare la responsabilità del
processo. Venivano
incolpati, quindi puniti e repressi, i contadini-allevatori per ciò che
era
stato causato dalla speculazione. Era quest'ultima, impersonata da
impresari pescecane vicini alla politica, che aveva provocato la
perdita e il degrado
dei boschi. La speculazione aveva gioco facile perché la manifattura,
le attività proto industriali avevano fame di energia. Erano energivori
i forni fusori ma anche le vetrerie, le filande (le bacinelle con i
bozzoli andavano riscaldate). Vi era poi la
crescita urbana e il fabbisogno crescente di biomasse legnose per il
riscaldamento domestico. In nome della buona gestione dei
boschi, l’élite (vedi l’illuminista milanese Cesare Beccaria) proponeva
di togliere i
diritti sui boschi delle comunità, togliere le capre e… affidare i
boschi alle
amorevoli cure degli imprenditori del ferro che avevano fame di carbone
di
legna per i loro alti forni. Non vi erano remore nel favorire chi aveva
causato
la distruzione dei boschi a danno delle comunità di montagna. Il potere
è spudorato. Tanto ha gli apparati ideologici. Ieri come oggi. Unica differenza, oggi pretende anche di essere buonista.
Oggi,
la politica di tutela dei boschi è scopertamente e spudoratamente
una politica di espulsione dei montanari dalla montagna sinergico con
la progressiva diminuzione di spesa per i servizi pubblici e l'aggravio
dei carichi burocratici. Contro l’avanzata del
bosco (e contro i lupi), il colpo alla nuca alla montagna in
difficoltà, il montanaro ha le mani legate. Non importa se
entrambi, boschi e lupi, aumentano mentre gli abitanti, gli allevatori,
i pastori diminuiscono: i lupi e i boschi vanno protetti a prescindere
perché così ha deciso chi comanda. In Europa i boschi, tra il
1990 e il 2020 sono aumentati di 25 milioni di ha (da 202 a 227
milioni). Una
superficie superiore a quella del Regno Unito (Inghilterra, Scozia,
Galles e
Irlanda del Nord). L’Italia ha conosciuto un aumento ancora più
imponente passando
da 9,1 a 11,4 milioni di ha nello stesso periodo. Eppure, quasi tutto
l’impianto
delle leggi forestali, improntate al forestalismo ideologico e
poliziesco, resta
in vigore. Si aggiunge la “protezione del lupo” e il gioco è
fatto. Surell e Gautieri erano dei dilettanti.
Pochissime
voci si levano a denunciarne le menzogne ambientaliste che
perpetuano secoli di politiche anti rurali classiste e razziste (il
contadino
era considerato alla stregua di un animale da soma dotato, per nascita,
di uno stomaco grezzo cui si addicevano cibi grezzi). In
realtà il conformismo e il controllo dei media sono tali che nemmeno la
drammatica
realtà dell’Africa centrale e di alcune regioni asiatiche, fatta di
deportazioni, espropri, violenze, marginalizzazione in nome deo
conservazionismo riesce a “bucare” sui media. Gli ambientalisti hanno
la possibilità di bloccare le notizie che
metterebbero in cattiva luce la loro politica. Il terzomondismo e
l’anticolonialismo sono
evaporati quando, sotto accusa di neocolonialismo, violenze e razzismo
sono
finiti gli ambientalisti. Solo Survival
tra le Ong difende senza se e senza ma i popoli vittime del
conservazionismo nordamericano (e in
minor misura europeo). Opera non facile perché il Panda è visto nel
mondo come un 'organizzazione di santi (ecco spiegato perché investono
tanto nella comunicazione).
Su queste pagine abbiamo più volte parlato delle violenze in atto in Africa
e in Asia in nome della conservazione della natura e del loro connotato spietatamente
di classe. Messo in evidenza non solo dai lauti guadagni del management privilegiato
delle organizzazioni ambientaliste (che si scambia le poltrone con i consigli di
amministrazione delle multinazionali) ma, ancor più, dalla stessa gestione delle
aree protette che rappresentano occasioni di svariati e lucrativi business: dalle raccolte fondi a base
emozionale sul web (“salva un orso polare”), al traffico di titoli sulle
emissioni e sulla biodiversità, bioprospecting (la biodiversità trasformata in
proprietà esclusiva delle multinazionali del farmaco), alla gestione di attività
estrattive e forestali “sostenibili”, all’ammissione di ricchi turisti negli
stessi parchi da dove gli “indigeni” sono stati scacciati in nome della “conservazione”.
Conservazione che si traduce nella salvaguardia di “carismatici”: gorilla,
elefanti, tigri, rinoceronti (rettili, insetti, animaletti preziosi per l’ecosistema
non “rendono” in termini di capitalismo verde, in specie quell’ambientalismo
2.0 basato sull’uso spregiudicato del web) (Büscher, 2021). Sugli inganni della
politica conservazionista, nella sua continuità con il colonialismo e le forme
di corruzione che l’accompagnano, vale la circostanziata denuncia "dall'interno" dei kenioti Mbaria
e Ogada (2016).
In
piccolo, tutto ciò che caratterizza la lotta di classe dei ceti
privilegiati contro i
contadini, i pastori, i popoli indigeni del pianeta, sta replicandosi
sulle Alpi. Il termine di
lotta di classe, specie se applicato a quella condotta dall’alto, della
piramide
sociale contro la base della stessa, può apparire troppo forte. Siamo
stati abituati dalla propaganda marxista a pensare che "lotta di
classe" è solo quella dei colletti blu contro i "padroni". Non è così.
Parliamo, in ogni caso, di concetti ormai
sdoganati dopo La rivolta delle élite di
Cristopher Lasch (2017), concetti
che Diego Fusaro (2018) ha ripreso in termini pertinenti, sottolineando
l’inedita,
esagerata, asimmetria di potere che oggi, più che di lotta di classe, fa
parlare
il filosofo di “massacro di classe”. In ogni caso, se pare troppo
“forte” l’idea
della guerra di classe dei forti contro i deboli, in stile
post-moderno, nessuno può negare che sia in
atto un conflitto sociale in cui c'è chi, forte e potente, guadagna e
chi debole e disorganizzato, non tutelato, ci rimette. Importante
è, in ogni caso, chiarire che la strategia del conservazionismo
neoliberale, la strategia biopolitica della parchizzazione,
della proliferazione dei selvatici fosse considerata inserita nel
grande
processo di trasformazione in atto (il great reset o Nuovo ordine
Mondiale) e non
come uno dei tanti episodi di scontro “tutti contro tutti” o frutto di
stravaganze ambientaliste. Non c'è niente di stravagante
nell'ambientalismo, ma, invece, c'è molto da temere. Quello a cui punta
la
strategia biopolitica
neoliberale è lo sradicamento: dal lavoro, dal territorio, dalle
identità
solide, per gettare il pastore africano, come quello alpino, nella
marginalizzazione, nella precarietà, nell’indistinta moltitudine tanto
più vasta
quanto più incapace di opporsi coagulandosi in forme di resistenza, a
sempre
nuove e più pesanti forme di oppressione. D'altra parte i vantaggi per
l'ambientalismo e gli interessi che lo finanziano sono anch'essi
abbastanza chiari. Il modello africano è istruttivo e può essere
applicato anche alle Alpi.
In
Africa le compagnie minerarie, del legname, farmaceutiche fanno le loro
prospezioni. Non dicono niente a nessuno e se trovano risorse preziose
finanziano gli ambientalisti per lanciare progetti di parchi. La scusa
si trova sempre, la specie in estinzione che fa alla bisogna salta
fuori sempre (basta vedere da noi con quali scuse istituiscono Sic e
cose del genere: là una farfalla rara, lì una pianta che deperisce).
Una volta che gli ambientalisti sono riusciti a stabilire il parco si
scacciano gli abitanti, si tratta con corrotti capi-tribù che si
inventano titoli su quelle terre (mentre i veri titolari sono
marginalizzati e gettati nella miseria e nella sottomissione di altre
etnie). Il parco viene diviso in aree "santuario" e aree dove possono
essere attuate attività "sostenibili". Così salta fuori che lì sotto
c'erano diamanti o terre rare o altre preziose risorse. Sulle Alpi può
darsi che senza di nulla qualcuno abbia trovato risorse ancona non
conosciute. Intanto, però, una è nota e sta diventando sempre più
preziosa: l'acqua dolce pura. le Alpi sono la più grande riserva di
acqua pulita d'Europa. Si devono fare due conti.
La quotazione a WallStreet dei future
sull'acqua è riuscita a creare ancora un po' di scandalo. Del resto
perché scandalizzarsi se anche l'aria ha il suo prezzo e il suo mercato
(titoli di emissione di CO2). I future sono dei derivati finanziari. Un
certo impegno a scambiare una certa quantità di un asset ad un
determinato prezzo può essere ceduto sul mercato a un determinato prezzo. Un
mercato che dipende, ovviamente, dalle aspettative sulla scarsità
futura del bene. Le apocalittiche profezie ambientaliste rappresentano
una forma di aggiotaggio. Se la quotazione dei future sull'acqua risale
al 2020, lo strumento finanziario in quanto tale esiste dal 2023. I
fondi pensione internazionali da anni investono in future con alla base
diritti di sfruttamento delle acque alpine. Non c'è nessun
complottismo. Si tratta , anzi di aprire gli occhi. Una volta tolti di
mezzo gli "indigeni", eliminato il popolamento dei piccoli comuni e
fatti sparire gli stessi come istituzione (aggregati a comuni più
grandi o, meglio non aggregate a nessun comune come succede per alcune
aree degli Usa dove non esistono autorità municipali) sarà facile
decidere la sorte senza più quei trogloditi tra i piedi. Ricordiamoci
che vaste superfici sono di proprietà comunale e che, con l'abolizione
dei comuni, potrebbero essere privatizzate o passare al demanio. Su
parte del territorio "liberato" dai pellerossa alpini (per i quali non
sono previste nemmeno riserve indiane) verranno mantenute o create
ex-novo stazioni turistiche extra-lusso per l'élite (che avrà modo di
coltivare la passione dello sci o di immergersi nella natura,
finalmente, incontaminata). Altre aree saranno adibite allo
sfruttamento di quelle risorse di cui non supponiamo neppure
l'esistenza o delle quali non conosciamo il futuro aumento di valore
(l'élite, però, lo conosce). Le risorse idriche verranno monopolizzate
dai potenti gruppi finanziari ma... ci sarà trippa per gatti anche per
gli ambientalisti che disporranno di un enorme parco con un enorme
numero di parassiti lautamente stipendiati per ricerche inutili,
burocrazia. WolfAlps e i Parchi attuali sono un piccolo laboratorio in
confronto a una grande industria. Immaginatevi i parchi americani dove
non vive nessuno, tranne gli addetti al turismo e i rangers. Un paradiso
in terra per gli ambientalisti. Zero pastori, migliaia di guardiaparco,
funzionari, scienziati. Molti continuono a ritenere che queste prospettive siano
fantascientifiche, "complottiste". Ma i fatti li smentiscono. Gli ambientalisti stanno
facendo campagna per far approvare alla Ue l'aumento delle aree protette al 30%
del territorio entro il 2020 e nei movimenti ambientalisti non mancano
le posizioni che puntano al 50%. Sull'acqua si è già detto come i grandi
fondi di investimento stiano già accaparrandosi i diritti di sfruttamento
delle acque alpine sfruttando le maglie aperte dalle leggi sulla privatizzazione e dalla
cessione delle piccole centrali idroelettriche da parte dell'Enel. Quanto al turismo
gli ingenui, che si credono "uomini di mondo", dovrebbero sapere che, gi&grave oggi
sulle Alpi stanno sorgendo (ex-novo o tramite la ristrutturazione di nuclei rurali e
alpeggi abbandonati) dei resort di estremo lusso dove si arriva in elicottero o, se c'è
una comoda pista forestale, con imponenti auto blindate dai finestrini oscurati).
Le vede anche un cieco che, fisicamente, antiche risorse pastorali stanno mutando destimazione.
Oggi, sulle Alpi
Anche
se gli scenari futuri (non troppo, come abbiamo visto) spiegano tanto
accanimento contro chi ancora vive di montagna, in modo indipendente,
del suo lavoro, già oggi lo scenario è tutt'altro che allegro. La
governance dei grandi predatori è caratterizzata da una fortissima
asimmetria
di potere, dalla grande difficoltà di far conoscere e valere le proprie
ragioni da parte dei soggetti sociali che ne subiscono gli impatti in
termini
economici e di modifica (quasi improvvisa) delle proprie abitudini di
vita.
Invece che applicare misure di deterrenza (come almeno avviene nel caso
degli
orsi), WolfAlps continua a ribadire che i lupi non rappresentano un
concreto pericolo
per l’uomo (ma hanno già molto cambiato la vulgata ufficiale e, quando
si
sentiranno ancora più forti, proclameranno che sì, il lupo è un
pericolo per l’uomo
ma va accettato).
Cosa c'è dietro WolfAlps? Vediamo un’organizzazione ramificata ma è
solo
la punta dell'iceberg, un'organizzazione in via di forte
istituzionalizzazione, mimetizzata
dietro un progetto da 20 milioni di euro, con potenti legami a livello
nazionale
e internazionale che ha assunto un potere che scavalca quello delle
regioni e
che tratta i partner e i loro rappresentanti istituzionali come propri
dipendenti. Intanto, oltre a diversi episodi di persone
aggredite, si
registrano (segnalazioni da varie parte d’Italia sui media locali)
innumerevoli
casi di cani e gatti sbranati anche nei cortili, fuori delle stalle.
Un
problema di sicurezza pubblica che già esiste, ma che viene negato e che
le
istituzioni (con l’eccezione di sindaci coraggiosi e del presidente
della
provincia di Verbania) rifiutano di considerare. Come tanti pappagalli
ammaestrati, molti amministratori locali si fanno un motivo di
puntiglio nel
comunicare ai cittadini che: “non c’è alcun pericolo”. Ad Arvier, un
paesino
valdostano, lo scorso inverno alcuni lupi avevano stabilito la “tana
diurna” al
centro dell’abitato. Il sindaco, invece di prendere iniziative, ha
dichiarato,
richiesto da noi di commentare la situazione che vedeva i residenti
lamentarsi
per dover chiudere i bimbi in casa, che “è tutta una montatura di alcuni
cittadini e dei media, io mi sento sereno e tranquillo visto che abbiamo la
caserma della forestale”. In Valle d’Aosta la forestale è autonoma e l’entrarvi
è aspirazione di molti (è un po’ come in Calabria). Quel che conta è che la
forestale valdostana, seppure autonoma, è apertamente lupista come l’ex Corpo
forestale dello Stato (ora CC forestali). Così, con i lupi stabili in paese la
forestale “monitorava” (stava a guardare i “magnifici animali”). Della presenza
dei lupi negli abitati anche in Piemonte avevamo parlato qui. In valle Anzasca (Ossola)
la presenza dei lupi aveva anche indotto i CC a stazionare con un’autopattuglia
davanti alla scuola di Macugnaga.
Una
strategia politica improntata al potere mediatico
Le
notizie sulle persone aggredite dai lupi (in alcuni casi provate anche
dal Dna), quelle sulle predazioni di animali d’affezione, oltre che di
asini,
capre ecc. sono confinate nella cronaca locale. Per di più, nella
strategia
lupista c’è il chiaro obiettivo di “mettere le predazioni sotto il
tappeto”. In
vari modi l’allevatore viene dissuaso dal denunciare le predazioni.
Intanto,
ogni regione procede in ordine sparso in tema di procedure di
accertamenti e
liquidazione degli indennizzi. Alcune si sono affidate a compagnie
assicurative
private, altre facevano pagare agli allevatori parte del costo
dell’assicurazione,
altre fanno pagare lo smaltimento delle carcasse. Le cure agli animali
feriti a
volte non vengono riconosciute. Per gli animali dispersi la maggior
parte non
riconosce nulla (ultimamente la Regione Piemonte avrebbe introdotto
anche
questo risarcimento). Vi è poi una grande disparità riguardo
all’individuazione
del predatore. Alcune regioni rimborsano i danni “da canide” con il
risultato
che, nei casi dubbi, l’allevatore riceve l’indennizzo ma la predazione
non
viene imputata al lupo. Il comportamento delle regioni trova una
presunta
giustificazione del divieto di “aiuti di stato”. Una volta tanto, però,
la Ue
non centra perché ha in più occasioni ribadito che, essendo il lupo
specie
particolarmente protetta sulla base della direttiva Habitat, tutti i
danni
diretti e indiretti provocati dal predatore possono essere risarciti
dagli
stati (in Italia dalle regioni per competenza costituzionale) al 100%
senza
essere computati tra gli aiuti di stato (che possono distorcere la
concorrenza). Le regioni non vogliono risarcire come potrebbero fare.
Questo è il punto. C'è chi lavora all'interno delle regioni perché gli
allevatori siano indotti a preferire nascondere i danni subiti a causa
del lupo perché reputano (spesso a ragione) di avere più da perdere da
una
richiesta di indennizzo che da guadagnare. Gli accertamenti dei danni
poi
vengono eseguiti da personale veterinario che, spesso, è legato ai
progetti
lupisti o comunque simpatizza per la causa del lupo. Molti allevatori,
temendo che durante gli accertamenti, vengano
rilevate irregolarità (microchip dei cani, rilievi sul benessere ecc.,
marche auricolari)
preferiscono sotterrare i propri capi. Così,
in Italia, i danni da lupo restano “sommersi”. Il lupismo ringrazia.
Loro pensano
a nascondere i lupi (facendoli “contare” ad ambientalisti incapaci
formati da poche ore di corso online), il pastore
pensa a nascondere, contro i suoi interessi, i danni. Il risultato è
quello che desidera il lupismo per
proseguire con i suoi progetti da decine di milioni. Può dichiarare che
la convivenza funziona, i
lupi sono pochi, i danni diminuiscono. Non si parla ovviamente dei
pascoli abbandonati, degli animali venduti, dei sacrifici immani per
difendere gli animali. Se i cani di protezione creano problemi (con i
vicini, con gli escursionisti, con i bikers, con i sindaci) si fa in
fretta a dire che il pastore non è capace di gestirli. WolfAlps
gioca facile e non può non vincere.
Qualora, però, venissero fuori i dati reali dei danni e della
consistenza dei lupi, l’Ispra e il Ministero non potrebbero opporsi alle
richieste delle regioni di piani di contenimento selettivo (previsti dalla
direttiva Habitat). Ricordiamo che sono le regioni a stabilire il controllo del
lupo come di ogni altra specie di animale selvatico. Con la differenza che quello
del lupo /e dell’orso) richiede l’autorizzazione ministeriale.
Molta
della “guerra di propaganda” sul lupo consiste nel controllo della
diffusione delle notizie. Alcune notizie, prese a sé stanti , potrebbero
rappresentare
fatti locali, ma se considerate nel loro insieme dipingono un fenomeno
chiaro e
preoccupante. però resta invisibile sui radar dei media. Quindi della percezione delle persone sono fatti
“poco gravi”.
I politici, che si basano sulla percezione del pubblico, restano inerti.
A maggio, per due volte, i lupi hanno ucciso dei capi bovini in
un’azienda
zootecnica della pianura (a Nord della via Emilia). Inizialmente
apparsa solo
su siti di informazione reggiani, la notizia è poi approdata sul Resto
del
Carlino, quotidiano a diffusione sovra-regionale, ma sempre nelle
pagine
locali. Quest’anno si sono verificate le prime predazioni anche nella
bassa
lodigiana, un fatto significativo, ma ne hanno parlato solo i media
della
provincia. Il pubblico non deve sapere che i lupi (che scorazzano ormai
spesso alla
periferia delle città e qualche volta nel centro, vedi episodio di
Marostica, di Aosta, di Ancona e di chissà quanti altri sfuggiti ai
telefonini) sono
spinti a scendere nelle pianure e sulle coste dalla saturazione del
territorio
(ci sono branchi ovunque) raggiunta nelle zone dell’Appennino
settentrionale,
ma anche del Piemonte Sud-occidentale. Sono ormai troppi, ma per il
lupismo
sono sempre troppo pochi.
Il lupo
è il cavallo di Troia, il passpartout, l’abile pretesto per
costringere i pastori, i piccoli allevatori ad abbandonare la loro
attività. L’abbiamo
ripetuto da anni allo sfinimento. Ed è proprio così. Come è possibile
che una “società
democratica” accetti senza battere ciglio che interi gruppi
socio-territoriali
siano spazzati via per decisioni mai passate al vaglio di un processo
decisionale democratico? Risposta: non viviamo in una società
democratica ma in una dittatura soft (ma sempre più soffocante, come
insegna la pandemia). Le forme della manipolazione per ottenere questa
“cloroformizzazione”,
per rendere insensibili l’opinione pubblica a qualcosa di socialmente
iniquo, sono
tante. Il lupismo organizzato, tanto per cominciare, circonda, come
abbiamo già
visto, di un alone opaco la reale consistenza a livello locale,
regionale e
nazionale del lupo. Che si imbrogli sui numeri di animali eretti a
emblema e
strumento delle strategie ambientaliste non è certo una novità. Il caso
degli
orsi polari, la cui estinzione era annunciata da tempo, ma che godono
discreta
salute e paiono persino in aumento, è quello più clamoroso. Lo spiega
un'esperta di orsi polari in un libro (Crockford, 2019).
WolfAlps
conosce la localizzazione della presenza dei lupi ma la rivela con un
ritardo
che prende a pretesto le analisi del Dna (fatte eseguire nel Montana).
Ai sindaci
dell’Ossola che, in quanto responsabili della sicurezza, lamentavano
come non
venissero loro forniti i dati sulla presenza e consistenza dei lupi,
WolfAlps ha
risposto che non li trasmettono loro per proteggere i lupi dal
bracconaggio. Come dire che i sindaci di montagna sono gentaglia
complice dei
bracconieri. I bracconieri, per inciso, sono coloro che vendono per
lucro la
preda o il trofeo, ma il termine, caricato dagli ambientalisti da uno
stigma di
forte negatività è appioppato a pastori e allevatori che difendono la
propria
attività minacciata in assenza dello stato, genuflesso agli
animal-ambientalisti, a gente, parassiti della società che prendono da
essa e dallo stato e che restituiscono solo
problemi. Ma ciò è oscurato dall’alone di santità che l’ambientalismo
si è
cucito addosso con investimenti colossali in comunicazione (erano soldi
dei petrolieri, gradualmente diventati soldi dei gruppi che hanno
diversificato nel gas e nelle rinnovabili).
Se
i dati dei
monitoraggi dei lupi vengono diffusi dopo oltre un anno che utilità possono
avere per i
pastori e gli abitanti dei piccoli centri di montagna? Il pastore vuole
sapere
se dove porterà gli animali al pascolo ci sono branchi, nel caso adotterà a
malincuore costose misure di protezione, il raccoglitore di funghi è
più
tranquillo se sa dove sono i lupi. Chiaro che WolfAlps gestisce il
monitoraggio
per proteggere i lupi. Se
in Italia il padrone è WolfAlps, il lupo è sacro e intoccabile e i
villici pezze da piedi (ricordarsi che per gli animal-ambientalisti
l'essere umano è un parassita in sovrannumero), In Svizzera, Canton
Grigioni i dati sulla presenza del lupo sono forniti in tempo reale con
una app disponibile per tutti.
Ma
dei pastori e dei residenti chi si preoccupa, chi li
tutela? Dove sono le Regioni, i Prefetti? Si sostiene a parole di voler
“mitigare
il conflitto” ma, in realtà, si cerca solo di soffocare e tenere
nascoste le voci
di sofferenza, di monitorare, oltre ai lupi, i pastori e chi osa
dissentire sulla
politica lupista. Prendiamo le fototrappole per il monitoraggio.
Vengono collocate
senza dichiarare dove. Solo in qualche caso il cartello è vicino. Alle richieste di fornire le coordinate si
oppone, anche
in questo caso, un diniego. Il motivo è sempre lo stesso: WolfAlps
protegge i lupi, l'espansione del lupo per la precisione, non protegge
gli allevatori, anzi. Siccome le fototrappole vengono collocate dove ci
sono i lupi, dichiarare dove sono equivale a far sapere dove sono i
lupi e, dal momento che per i lupisti ogni pastore, ogni allevatore è
un potenziale bracconiere, un nemico, non lo deve sapere. Quella della
convivenza e della mitigazione del conflitto è solo l'ipocrita messa in
scena, la facciata perché, per ora, il lupismo non può permettersi, per
salvare le apparenze, di proclamare che per loro l'unico allevatore
buono è quello che cessa l'attività. "L'unico indiamo buono è quello morto", proclamava Buffalo Bill. Più o meno siamo a quel livello.
Per
proteggere i loro lupi stanno mettendo in atto forme attive, occhiute,
poliziesche, intimidatrici di sorveglianza e
controllo del territorio. Non solo con le pattuglie antiveleno,
che perlustrano il territorio con esibizione di forza intimidendo
implicitamente i pastori, ma anche con le fototrappole. È tutto da
verificare che ogni fototrappola sia convenientemente segnalata a
termini di legge e risulta che solo le Aree protette dell'Ossola
abbiano predisposto un protocollo per tutelare la privacy delle persone
"finite nella trappola" (una circostanza che, peraltro, indica come
sull'utilità dei cartelli, gli stessi enti che collocano le
trappole abbiano dei dubbi). I cartelli, infatti, vedi la foto sotto
annunciano infatti che "lungo la pista forestale" è stata collocata una
trappola ammonendo che i responsabili dei danneggiamenti e furto
saranno incriminati per "interruzione di pubblico servizio". La
protezione della privacy fatta così è quindi una vuota formalità in
linea con il crescente clima di sorveglianza sociale che la pandemia ha
aiutato a rafforzare. Mettere un cartello all'inizio di una pista lunga
chilometri è come mettere al confine di un comune "territorio
videosorvegliato". In ogni caso, ribadiamo, questo non è un
servizio pubblico (anche se riescono a farlo passare per tale grazie
allo strapotere politico delle lobby animal-ambientaliste e all'ignavia
delle istituzioni), è un servizio al lupo e ai suoi sponsor. A volte il
fototrappolaggio è "mirato", ovvero che i dispositivi
vengano collocati nei pressi di baite di cacciatori (che, ovviamente,
se le trovano le mettono in condizione di non nuocere). C'è una
sottile
strategia per
far sentire il montanaro, pastore, allevatore cacciatore (spesso i
cacciatori in montagna sono anche allevatore), un potenziale criminale
da sorvegliare. Tutti devono sentirsi sotto controllo
abbandonando ogni velleità di autodifesa. Come in tutte le
situazioni di conflitto vi è poi l'eterno timore delle spie e dei
doppiogiochisti (che in categorie deboli sono sempre rinvenibili senza
eccessiva fatica).
Si
distaccano, o almeno tentano di farlo, dalla politica generale di
WolfAlps le aree protette della val d'Ossola. Qui, dove provincia e
molti sindaci si sono schierati con gli allevatori si tenta, per
iniziativa della presidente dell'ente Vittoria Riboni (che ha la
fortuna di operare in un contesto meno "militarizzato" di quello in cui
si è trovato a operare Mauro Deidier) un
confronto con amministratori e allevatori che altrove non si ritiene
necessario (perché non vi sono amministratori e allevatori che
protestano in forma organizzata e continuativa sul tema). Però anche le
Aree protette dell'Ossola, non sono esenti dallo zelo lupistico del
personale che vanifica la buona volontà della presidente. I dati
delle
fototrappole vengono raccolti dal Parco in collaborazione con la
Polizia provinciale ma poi il presidente della provincia, Arturo
Lincio, lamenta di non disporre dei dati per quanto richiesti (non c'è
meravigliarsi perché le Polizie provinciali, che erano state adibite a
ruoli da vigili urbani sulle strade hanno accolto con entusiasmo la
prospettiva di collaborazione con WolfAlps che li fa sentire rambo o,
quantomeno, rangers. Quindi fanno riferimento volentieri al
capoprogetto (Parco Alpi marittime) piuttosto che al loro ente.Funziona così anche per altri enti.
In
realtà i dati, quelli ufficiali sulla consistenza e presenza dei lupi
(che
dipendono dalle analisi del Dna eseguite, chissà perché, nel Montana)
arrivano sempre con il solito ritardo più che annuale e tutt'oggi viene
dichiarato un numero di branchi inferiore a quelli che gli allevatori,
putroppo per loro, sono costretti a constatare.
La cruda realtà è che molti si trovano un branco di 5-6 lupi
vicinissimo a casa, ma questo branco "non risulta". A WolfAlps nulla
interessa dell'allevatore, dei sindaci, dei cittadini che hanno paura
ad andare in montagna. Le
moderne tecnologie consentirebbero, utilizzando i dati delle
fototrappole e degli avvistamenti e predazioni di disporre di mappe in
tempo reale consultabili dai cittadini in tempo reale ma...
WolfAlps
non vuole la trasparenza e le istituzioni non hanno la forza e il
coraggio di pretenderla perché chi comanda è WolfAlps (ovviamente
grazie agli agganci negli apparati regionali dei CC forestali, del
Ministero, dell'Ispra, dei Parchi).
Dirigenti e funzionari di tutti questi apparati pubblici rispondono
alla loggia del lupo. Non ai responsabili politici. Specie se questi
ultimi per quieto vivere o per tema di ricatti e scherzi della
magistratura... tengono un basso profilo.
Viene da chiedersi se,
sotto mentite spoglie, non ci si trovi di fronte, con le squadre di WolfAlps, a una riedizione della Milizia
Forestale, a un corpo di polizia che, invece che combattere il lupo, come la storia Louveterie francese,
lo protegge (contro il montanaro). Chiariamo subito, però,
che la Milizia Forestale
fascista, oltre a funzioni di polizia e repressione, si impegnò molto
in sistemazioni idraulico-forestali e nella bonifica montana, nel
quadro di un regime in chiaroscuro in cui convivevano pulsioni
ruraliste e sociali
(che portarono alla bonifica integrale, all'assalto al latifondo
siciliano e – in tutta Italia – a un welfare state tra i più avanzati
dell'epoca, specie considerando il Pil dell'Italia). Però il regime
aveva anche pulsioni pesantemente autoritarie e
poliziesche (Serpieri e Bocchino, la bonifica integrale e l'Ovra) e la
fissa di un forestalismo ideologico che faceva a pugni con il
ruralismo. Le
camicie verdi di oggi (la milizia forestale era composta da camicie
nere "speciali", ma comunque camicie nere, ovvero MVSN, come si vede
dalla foto sotto) sono però nettamente peggio del modello autoritario
"classico". Rimasta l'arroganza poliziesca non si rimboccano mai
le maniche, come i vecchi forestali fascisti e post-fascisti... e
girano
comodamente in fuoristrada.
L’insolenza con la quale WolfAlps risponde ai rappresentanti eletti – che,
con tutti i loro limiti, rappresentano, almeno simbolicamente, la
generalità dei cittadini – è tipica
del lupismo organizzato che, non a torto, sente di essere titolato di
un potere
reale (conferito dal deep state)
e considera i rappresentanti delle
istituzioni
dei poveretti, dei burattini con pura funzione cerimoniale e di
ratifica
notarile di decisioni prese da chi detiene il potere effettivo (le
lobby come
la loro, cui fanno riferimento anche i dirigenti regionali). Li devono
sopportare (sperano non per molto), li trattano con sufficienza anche
ai convegni dove, forti del
loro
potere, convinti che nessuno sia in grado di contrastarli, sfoggiano
un’arroganza, un trionfalismo autocelebrativo da regime totalitario
che difficilmente si vede in giro.
Nella sua lettera di contestazione
dei metodi
e dei criteri di spesa di WolfAlps (sbilanciati in modo macroscopico verso la propaganda), Mauro Deidier, presidente del parco
Alpi
Cozie, uno dei partner principali di WolfAlps, aveva toccato, lo scorso
inverno, il tema cruciale del budget destinato
alla
comunicazione. Dopo varie vicende, Deidier, che era (e rimane) un punto
di
riferimento per quanti non vogliono subire l’imposizione della politica
lupista
(la sua lettera, il suo j'accuse
nei confronti di WolfAlps avevano suscitato vasta eco in diverse
regioni, non solo in Piemonte) è stato costretto a rassegnare le
dimissioni
sotto la pressione degli
ambientalisti interni ed esterni al parco. Dalla regione che lo ha
nominato, ha ricevuto solo un tiepido sostegno.
“Non sono
un firmaiolo” diceva Deidier, un presidente passa-carte
che obbedisce al direttore e allo staff ambientalista miliziano (al
parco Alpi Cozie afferisce Luca Giunti, uno dei conferenzieri di punta
del lupismo). Da ex dirigente all’Asl, dove, da competente, si occupava
di comunicazione, non intendeva fare la fine dei presidenti che si
piegano
a svolgere un ruolo di facciata. La vicenda Deidier dimostra che,
nell’alternanza
delle maggioranze politiche, nonostante cambino i colori dei presidenti
dei
parchi, essi sono nella maggioranza dei casi gestiti da gruppi ambientalisti (cui appartengono
direttori,
funzionari e guardiaparco) collegati alle organizzazioni nazionali (più
Legambiente
che WWF sulla base di una spartizione tra loro di aree di influenza). Dovrebbero riflettere quei sindaci che, per trenta denari,
svendono
il loro territorio al controllo di enti sui quale i sindaci e la stessa
regione, tutti gli organismi elettivi, hanno meno presa delle lobby
ambientaliste
interne ed esterne. Rivediamo cosa ha scritto Mauro Deidier nella sua famosa lettera, perché è illuminate sulla
fenomenologia del potere (strapotere) lupista:
Irene Borgna [responsabile comunicazione
di WolfAlps] ha specificato che quando esce il pasticcio (ovvero articoli che
mettono in discussione la funzione di tutela o che danno voce alla protesta
degli allevatori ) il gruppo mette in campo immediatamente “uno squadrone super
efficace della comunicazione e paff si rimedia subito”; spiega che nelle strategie di comunicazione sul lupo occorre al
contempo ostentare un “candore di colomba” facendo percepire ai giornalisti
oggettività e trasparenza ma nel contempo essere “astuti come serpenti” nel
manipolare l'informazione segmentando il pubblico dei destinatari , citando poi
come buone pratiche l'affermazione del guardiaparco Luca Giunti sulla necessità
di “coccolarsi” i giornalisti.
Che
dietro questa “strategia di
comunicazione” ci sia dietro un’impostazione che “viene da lontano"
(dalle stesse
tecniche di condizionamento e disinformazione adottate dai regimi
totalitari più che dalle tecniche del marketing commerciale, impiegate peraltro anch'esse da WolfAlps)
lo dimostra la forte assonanza del “Borgna-pensiero” con le “Strategie di
comunicazione” di un “vecchio” Life, in quel caso per l'orso (c'è una
lunga serie di Life su orsi e lupi, adesso, invece, arriva Life Linx... in attesa di
Life canis aureus e di chissà cos'altro si inventerà la macchina dei
soldi e di potere conservazionista). Come si vede dalle seguenti note, da parte degli
orsolupisti si teorizza la manipolazione dell’informazione: gli episodi
“critici”
vengono affrontati distraendo il pubblico con informazioni positive o
mettendo
in campo personaggi noti al grande pubblico.
... è oltremodo importante stabilire un canale diretto di informazione con
i mass media: un metodo efficace è sicuramente quello di avviare buone
relazioni personali con alcuni giornalisti, favorevoli alla presenza dell’orso
(giornalisti "amici dell’orso"), referenti locali in materia. Ciò è, infatti,
di solito sufficiente ad evitare una ricerca autonoma di informazioni da parte
dei mass media, con il pericolo che vengano utilizzate fonti poco competenti o
attendibili. In caso di ‘crisi’ poi con l’intento di sgombrare il campo da
falsità e esagerazioni, oppure distrarre l’attenzione dagli eventi negativi
proponendo notizie positive sugli orsi, non attinenti agli eventi in corso. A
seconda delle relazioni esistenti con gli organi di stampa, ciò può avvenire
informando i mass media senza apparire in prima persona oppure organizzando
conferenze e/o comunicati stampa. I giornalisti "amici dell’orso" (si vedano le
fasi di ‘preparazione dell’arrivo’ e di ‘routine’) sono essenziali per
raggiungere tali obiettivi, sebbene spesso nei momenti di sovraesposizione le
cronache vengano realizzate anche da altri, può essere consigliabile spiegare
chiaramente gli avvenimenti. In relazione alla situazione in corso, potrebbe
risultare utile organizzare un pronunciamento pubblico o un’intervista in
favore dell’orso (magari mediante una conferenza stampa) da parte di un noto
esperto o di una ‘celebrità’ nel campo della conservazione della natura: la sua
opinione verrebbe infatti considerata molto più autorevole di quella degli
esperti e dei tecnici locali e potrebbe avere un effetto tranquillizzante (Life
Co-op, 2005).
Di
recente, WolfAlps II ha dato grande risalto al primo corso di
aggiornamento per
giornalisti. Gli allevatori dei gruppi piemontesi che intendono
tutelare la loro categoria dalla proliferazione del lupo e dalla
politica della sua intoccabilità, hanno scritto alla responsabile del
corso (la direttrice
della
Comunicazione, rapporti con i cittadini e il
territorio
della città metropolitana di Torino) per chiedere una “terza giornata”,
ovvero
per
sentire l’altra campana, per conoscere la realtà del lupo "vista
dall'altra parte". È stato risposto che la cosa verrà sottoposta
al
partenariato di WolfAlps. Possiamo immaginare l’esito. Ovviamente gli
allevatori non proponevano di modificare le attività di WolfAlps e di
interferire nella sua programmazione. Proponevano un’iniziativa
del tutto indipendente, pensando di rivolgersi a una giornalista di un
ente pubblico che, oltretutto, cura i rapporti con i cittadini e il
territorio e che
avrebbe potuto girare la proposta ai colleghi. Invece, ha preferito
chiedere a WolfAlps, il Dominus che è diventato il padrone delle
istituzioni (ai tempi della giunta regionale precedente – quella del
superlupista
Chiamparino, esponente della sinistra bancaria torinese – WolfAlps
scriveva anche le delibere).
Il lupismo, del resto, come altre forme di ambientalismo (rinnovabilismo,
climacatastrofismo, parchismo ecc.) non
avrebbe neppure bisogno di certi “mezzucci”, tanto trova le porte
spianate nei media, sia perché essi devono seguire le linee editoriali
imposte dai finanziatori e dai grossi commitenti di inserzioni
pubblicitari, sia perché i giornalisti sono nella maggior parte
allineati al politically correct e quindi all'ambientalismo.
Quest'ultimo ha da tempo, nel contesto occidentale, acquisito una
fortissima capacità
di presa sui media (Anderson, 1997; Brockington, 2008) e, di fatto, può
far
credere che il bianco sia nero e viceversa. Il lupismo ha quindi
un forte
controllo sui media dove, le notizie negative, come abbiamo visto non
hanno
impatto se non locale. Al grande pubblico arrivano solo messaggi pro
lupo.
Tanto potere dell’ambientalismo, deriva da alcuni elementi che qui non
possiamo approfondire ma che abbiamo già
trattato in precedenti articoli:
1) una grande disponibilità economica (il caso
di studio di WolfAlps lo evidenzia anche a livello di micro analisi);
2) l’aver preso il
posto nei cuori e nelle menti delle masse spaesate e disincantate della
religione, colmando la domanda di valori e risposte assolute, la
domanda di sacro, assumendo a tutti gli effetti il ruolo di Nuova
religione, con i sui sacerdoti, le sue profezie,
le sue apocalissi, i suoi santuari (i parchi), i suoi idoli (gli
animali
carismatici), i suoi santi e profeti (la pulzella svedese), il senso di
colpa e
di peccato (emettere CO2, mangiare troppo), le sue indulgenze (i
certificati di
sostenibilità rilasciati alle industrie),
la redenzione (il veganesimo, le rinnovabili);
3) la trasformazione della sinistra da “sociale” a “culturale”, con il
ritorno nel solco borghese liberal-libertario-libertino delle origini e il troppo palese riferimento all'élite con il vuoto da
essa lasciato, per certi versi (un sistema solido di valori).
C’è anche un
crescente controllo sul territorio e sorveglianza poliziesca sui pastori e
montanari
Il
lupismo, battistrada del parchismo e della “pulizia etnica” delle aree
rurali, non utilizza (ancora) violenze aperte, come il conservazionismo
in Africa e in Asia, ma utilizza
forme di violenza economica e psicologica: pressioni, tentativi di
dividere gli
allevatori e di usarli gli uni contro gli altri (con promesse di “aiuto
personalizzato”,
premi, minacce di perdita di contributi e indennizzi), sfruttando
l’avidità e l’ignoranza di alcuni, le oggettive difficoltà
di altri, la condizione dei neo-rurali che si identificano più
nell’identità
cittadino-ambientalista che in quella rurale. Sanno individuare
bene i soggetti più deboli e li usano come testimonial contro la
categoria. C’è tutto l’armamentario di una
relazione asimmetrica dove, da una parte c’è il lupismo
istituzionalizzato (la
lista dei partner istituzionali di Wolf Alps II è lunghissima) e
dall’altra il
singolo allevatore, scarsamente propenso all’aggregazione politica,
tutelato
sulla carta da organizzazioni professionali a dir poco "trasformiste" che, spesso e volentieri,
partecipano
a iniziative trainate da WolfAlps e ad esso affini (vedi progetto
Pasturs con
la Coldiretti). Il singolo allevatore di montagna, membro di un gruppo
sociale
debole e disperso, senza forme di aggregazione (i "sindacati" svolgono
assistenza per le pratiche burocratiche e fiscali) è facilmente posto
in condizione di soggezione con le Autorità, se poi gli si presentano
degli squadroni...
Le nuove “squadre”
di WolfAlps, che mettono insieme CC forestali e guardiaparco e pattugliano il territorio con i cani anti-veleno non possono non
richiamare alla mente le “squadriglie” di ottocentesca memoria. Ieri
esse operavano “per il bosco e la stabilità idrogeologica”, oggi per la
“biodiversità
e per proteggere una specie [pseudo] chiave”. Cosa è cambiato? Sempre
di sgherri
si tratta, che puntano a intimidire, mettere a tacere soggetti deboli e isolati.
Quante volte, alcuni hanno anche testimoniato pubblicamente sul fatto, ci siamo
sentiti dire: “mi hanno imposto di non dire niente, tu non hai visto niente” (da parte di
guardiaparco o di forestali, compresi quelli delle regioni autonome).
Non
giustifichiamo sempre queste persone che si lasciano calpestare. Oggi è
meno giustificabile di un tempo non avere alcuna consapevolezza
dei diritti di cittadinanza, accettare un mondo
dove una divisa giustifica il sopruso e l’arbitro. Molti trovano più
confortevole fare i servi che rischiare di “esporsi” per far valere i
propri
diritti. Il forestarius medievale (lo sgherro dei
signori) poteva “abbattere” il bracconiere sorpreso in flagrante nelle riserve
signorili (come fanno oggi gli sgherri finanziati dal WWF in Africa e in Asia). Oggi
il rischio di “esporsi” si traduce nella perdita di un contributo, in un
verbale, alla fine in una punizione economica, arbitraria e odiosa ma non
disastrosa. Va però detto che, oltre alle forme di controllo e pressione messe
in campo dagli organi pubblici (partner di WolfAlps), il lupismo è sostenuto anche da
schiere di sostenitori fideistici. Ci sono gruppi “moderati” come “Io non ho
paura del lupo” che fiancheggiano le azioni istituzionali ma anche gruppi di violenti
e fanatici. I vari esponenti politici e leader locali che si sono espressi contro
il lupo e WolfAlps hanno ricevuto minacce di morte (la lista è lunga). Sui social vi
sono folti branchi di lupi… da tastiera pronti ad azzannare con insulti e rigurgiti
d’odio (nei confronti dei quali i social a stelle e strisce usano due pesi e
due misure) chi sostiene la causa degli allevatori. Qualche giorno fa, in
occasione del Giro ciclistico della Svizzera, uno striscione contro il lupo, esposto sul
muraglione di un tornante di montagna, è stato vandalizzato. Un esempio dell'intolleranza lupista. Ma ne sono stati
esposti, in risposta, anche altri, oltre a quello rattoppato.
Quando il lupo non fa notizia. “Noi non
conviviamo serenamente e pacificamente, ci volete uccidere nel silenzio e nella
mistificazione”
Il centro di
potere di WolfAlps teme solo una cosa: che le notizie sulla
protesta
sociale
degli allevatori circolino mettendo a rischio la narrazione della
convivenza.
Sinora, sfruttando il monopolio dei media, la cortina fumogena ha
funzionato
abbastanza
bene. Grazie al fatto che le notizie negative non appaiono sui media
nazionali, agli allevatori veneti disperati si raccontava che in
Piemonte si
convive. In Piemonte che in Abruzzo si convive. In Francia e in
Germania si
racconta che in Italia si convive. Nei risultati attesi del progetto WolfAlps II (12 milioni)
i lupisti si prefiggono ambiziosi obiettivi, con un'asticella molto
alta. Riduzione drastica delle predazioni, quasi azzeramento dei
conflitti, quasi generalizzata accettazione da parte degli allevatori
della "convivenza". Gli oppressi devono anche ringraziare e lodare gli
oppressori e dichiarare di essere ben trattati (avveniva anche nei
gulag e nei lager).
Le proteste italo-svizzere in
occasione del
Giro d’Italia e del Giro della Svizzera hanno fatto filtrare verso i
paesi di
lingua tedesca, Germania in primo luogo, l’immagine di una situazione
alpina
tutt’altro che rassegnata, soggiogata, pacificata. Non ci sono molti
altri
strumenti. Sul piano della battaglia della comunicazione le forze, come
su ogni
altro piano, sono impari. Il lupismo ha risorse economiche larghe, ha
le
istituzioni e le tecnoburocrazie ai suoi piedi. L’unica arma di cui
dispongono
gli oppressi è quella del ribaltare, sul piano comunicativo, le
idilliache narrazioni
del lupismo, mostrare le immagini sanguinarie della “libertà di
predazione del
lupo”, gridare che: “No, noi non vogliamo vendere i nostri animali, non
vogliamo
nemmeno vederli sbranati vivi, crediamo di avere dei diritti, di
svolgere un
ruolo utile per la società e l’ambiente. Siamo intenzionati a resistere
e a non
subire la prepotenza sociale di chi ci vuole morti per i suoi interessi
egoistici”.
Ogni protesta che "buca" i media, o che filtra anche solo
attraverso i social
in altri regioni e paesi europei, smentisce il quadro dipinto da WolfAlps, dalla
tedesca Nabu ecc. Il lupismo teme solo che se le proteste si allargassero,
le milionate incassate per "mitigare il conflitto" potrebbero essere
ritenute da qualcuno a Bruxelles male impiegate. Il lupismo gode si
potenti agganci nella burocrazia europea (che sa benissimo che i numeri
dei lupi sono taroccati) ma può sempre darsi che qualche altra lobby
ambientalista emergente potrebbe chiedere che, dopo la serie infinita di progetti
sui grandi predatori, si passi a finanziare qualcos'altro. Tanto più che
i lupi creano problemi perché ce ne sono troppi mentre molte altre
specie e habitat sono realmente minacciati.
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