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Fotoracconto/Alpe Laguzzolo

 

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 Tremezzina (CO)

 

 I furmagitt de cavra del Miro (a Sala Comacina)

 

 

Azienda Agricola BDG di Barbara Del Gener, Via Butigia 6, Mese (SO), faustopietro@interfree.it 349-8239567 (Barbara) 3405904754 (Fausto) 

 

 

(20.07.10)  Oltre ai neomontanari provenienti dalle città c'è una categoria di 'nuovi contadini di montagna' che riscoprono la montagna, spinti dalla passione e grazie alle loro radici famigliari. Abbandonando gli uffici, tornando all'agricoltura, risalendo in alpeggio  

 

L'Alpe Laguzzolo (So) torna a vivere

 

con le capre di Barbara e Pietro

Anche in un piccolo alpeggio-villaggio, raggiungibile solo a piedi con 720 m di salita, si può tornare a produrre latte e trasformarlo. E' la storia di una neo-azienda famigliare di capre da latte della Valchiavenna (titolare la  giovanissima allevatrice-casara Barbara Del Gener di Mese)

 

foto e testo di Michele Corti

 

Domenica scorsa (18 luglio) sono stato all'Alpe Laguzzolo in comune di San Giacomo Filippo (val S. Giacomo, So) a trovare Barbara e Pietro, le loro capre, i loro bambini (la più grande, Andrea, andrà all'asilo a settembre). In alpeggio c'erano anche la mamma, il papà e la sorella di Barbara. Il ruolo dei genitori (delle famiglie in generale) è,  come vedremo, molto importante in questa storia.  E'  grazie alle radici alpigiane e contadine delle rispettive famiglie che Barbara ha potuto avviare la sua azienda agricola (dove lavora, sia pure a part-time, anche Pietro, che continua a fare il bancario).  Un'occasione per conoscere da vicino l'esperienza di due neo-alpigiani ma anche per rivedere la valle del Drogo, che, da quando ero ragazzo, mi ha trasmesso l'impressione di un angolo di montagna un po' particolare, caratterizzato da una fortissima antropizzazione che contrasta con l'aspra morfologia ma anche da tratti culturali peculiari... Un angolo per il quale, senza fare torto ad altre valli, provo una particolare attrazione e affetto.

 

Una valle molto alpina

 

La valle del Drogo è una valle 'pensile' che si affaccia sul solco  principale della val S.  Giacomo. Quest'ultima è una stretta valle a U di origine glaciale che da Chiavenna risale al giogo dello Spluga.  A sinistra e a destra del profondo solco, scavato nel fianco della valle principale dal torrente Drogo, si trovano dei pianori dove sono sorti tre paesini: a sinistra S. Bernardo, sito a 1.100 m (con la frazione Scannabecco/San Rocco a oltre 1.250 m), a destra Olmo a 1.040 m. La strada asfaltata, realizzata tra gli anni '60 e '70 (6 km dal fondovalle a Olmo, 8 a S. Bernardo) ha impedito lo spopolamento totale (come a Codera, Dasile, Savogno) ma non un crollo verticale del numero dei residenti. Ancora nel 1961 la popolazione 'teneva': vi erano 316 residenti a Olmo e  203 a S. Bernardo. Oggi vi sono solo 3 famiglie residenti tutto l'anno a Olmo e 2-3 a S.Bernardo. Non vi sono esercizi pubblici (assurdo data la bellezza della valle e dei paesini e l'interesse degli itinerari escursionisctici che partono da qui). Quello che colpisce nella valle del Drogo è il carattere fortemente alpino dell'architettura e dell'organizzazione degli spazi abitati, un aspetto che trova conferma nella parlata con tratti fortemente conservatori e strettamente connessa a quella dell'alta valle (Madesimo) (Gérard Zahner, Il dialetto della Val San Giacomo, Vita e Pensiero, Milano, 1989). Ad Olmo esisteva anche un gergo (il dubiun) utilizzato dagli abitanti che di recavano 'fuori' a commercializzare bestiame e latticini. 

 

Svizzeri mancati

 

Pur trovandosi a pochi km di distanza in linea d'aria dal centro di Chiavenna questi villaggi 'sospesi' a oltre 1.000 m di quota hanno un aspetto molto 'nordico' che fa inevitabilmente pensare: 'pare di essere in Svizzera'. In realtà la pastorale  val S. Giacomo e si è sempre distaccata anche politicamente dalla cittadina e 'italiana' Chiavenna (che pure appare a chi viene da Sud poco 'italiana'). Nel 1797 il comune di valle di S. Giacono (fu con il Lombardo-Veneto che la valle venne divisa nei tre comuni attuali)  chiese e ottenne l'adesione ai Grigioni (mentre il resto della futura provincia di Sondrio o meglio l'élite si dava ai francesi). L'appartenenza della valle ai Grigioni fu però brevissima perché ci pensò una compagnia di soldati napoleonici  a stroncare le velleità autonomistiche e filo-grigioni dei valligiani. Ancora nel 1799, mentre le altre valli (in odio ai francesi rapidamente divenuti antipopolari) accoglievano  gli austriaci, la val S. Giacomo li avrebbe rifiutati, se avesse potuto scegliere,  e restava ostinatamente filo-grigione (Ferruccio de Censi, La Valtellina e le sue vicende nell'età napoleonica, Raccolta di studi storici sulla Valtellina, Vol. 30, Società storica valtellinese, 1994).  Sappiamo poi che fu per i tentennamenti svizzeri (legati all'ostilità dei protestanti per l'ipotesi di un cantone cattolico in più) che la Valtellina e la Valchiavenna furono incorporate nel 1815 nel Lombardo-Veneto con la val S. Giacomo e Bormio decisamente contrari e pronunciatisi a favore dell'unione con la Svizzera.

 

La marcia di avvicinamento a Laguzzolo

 

Fatte queste premesse torniamo alla nostra escursione. All'Alpe Laguzzolo (1.774 m) si può salire direttamente da Olmo. Ma è una dura salita. Quindi abbiamo seguito un itinerario più lungo ma anche più interessante percorrendo parte 'in piano' della valle, lunga circa 2 km, con i suoi nuclei abitati e visitando anche l'Alpe Lendine. La nostra comitiva (composta  dal sottoscritto, da Gianpiero e Laura Mazzoni di Albaredo e da Anna Gori di Domaso) si è quindi portata in auto sino alla centrale Enel di S. Bernardo e da qui si è incamminata lungo la bella mulattiera di fondovalle transitando per la chiesa di S. Antonio e arrivando a Caurga (il toponimo, diffuso in Vachiavenna, Alto Lario ed Engadina che indica profonde spaccature della montagna). Qui inizia la ripida salita al Lago del Truzzo (grande bacino semi-artificiale). Noi, invece, abbiamo piegato verso S-O.

 

 

 A Caurga vi sono nuclei di baite, quasi tutte in buono stato ed anche apparentemente molto frequentate (però è domenica ...). A fianco di baite dall'aspetto più alpestre, con utilizzo strutturale del legno, vi sono abitazioni a più livelli tipologicamente simili a molte casette dei sottostanti paesini (nota: nella media e alta valle San Giacomo sono famosi i cardèn, abitazioni e rustici quasi esclusivamente in legno a blockbau ovvero con tronchi squadrati, sovrapposti e incastrati tra loro). Così come a Olmo e San Bernardo le chiusure di legno delle finestre sono dipinte con colori vivaci (dal blu al verde). Queste abitazioni meno 'rustiche' erano un tempo utilizzate per buona parte dell'anno.

 

 

 

Lungo la mulattiera non si può fare a meno di osservare le croci commemorative di persone vittime di incidenti (valanghe, frane, alluvioni). Un tempo non erano poche. Ne riportiamo una (foto sopra). Buona parte delle baite sono ben tenute e solo in pochissimi casi si notano i 'cedimenti' così diffusi in tutta la nostra montagna alla tendenza a 'camuffare' la baita da 'villetta'. Dai cenni introduttivi dovrebbe essere chiaro che qui c'è una cultura ruralpina 'forte', orgogliosa di sè stessa. Una trasformazione poco 'consona' al contesto è oggetto di stigmatizzazione. Passando davanti ad uno dei pochissimi tentativi di 'villettizzazione' non posso fare a meno di osservare con Anna la presenza stonata di una mansardatura. Anna, che si era fermata a comprare il burro presso l' unica cascina che funziona come azienda agricola, mi dice che l'allevatore, per indicare la strada da seguire, aveva fatto riferimento (lasciando trasparire il proprio disprezzo) proprio alla 'mansarda'.

 

 

 

Davanti alla cascina 'agricola' razzolano libere le galline (presenti a onor del vero - sia pure in pollai 'blindati' - anche presso altre baite). Disposti ad asciugare, infilati a testa in già su una steccionata, vi sono un buon numero di bidoni del latte emblema inequivocabile dell''attività di mungitura ivi praticata (purtroppo le foto non sono venute bene). Un particolare interessante è l'ostentazione dei simboli del lavoro di allevamento e della lavorazione del latte da parte dei questi allevatori. Appesi alla parete di un ricovero per attrezzi che sorge a fianco della mulattiera (la cascina è un po' discosta dall'itinerario principale) sono esibiti una grossa ciòca da mucca con tanto di collare in cuoio ornato di pelo di tasso, una fascera in legno e un vecchio brentèl del latte in alluminio (pieno di ammaccature). Sarà per attirare potenziali acquirenti dei prodotti caseari, ma sarà - penso io - anche per marcare l'orgoglio di una condizione professionale che differenzia i pochi 'agricoli' dalla maggior parte dei 'villeggianti', figli e nipoti di alpigiani ma ormai da tempo dediti ad altre attività. Segni incoraggianti questi di un 'orgoglio ruralpino' che rialza la testa.

 

 

 

Ai 'vacanzieri' va dato atto di curare molto bene le loro baite (una circostanza che si spiega anche con il fatto che non sono pochi  i proprietari delle baite che sono essi stessi artigiani dell'edilizia o  che possono ricorrere a parenti che lavorano nel settore). Quando venivo qui parecchi anni fa non si vedevano fiori alle finestre (ma i prati erano più estesi e c'erano molti animali). Non molti anni fa avevo scattato una foto con due muli davanti una baita all'ombra di una pianta. Era già uno spettacolo raro. Mi ha consolato trovare ancora un mulo (vi risparmio la foto che c'è ma non dice granché), oltre alle già citate galline e alle vacche (che non si vedevano ma si 'sentivano' grazie al suono dei campanacci). Il tutto comunque molto pulito e ordinato con la legna spaccata alla perfezione e disposta in modo ordinatissimo davanti alle case.

 

 

Superata la Caurga il sentiero sale lungo un ripido pendio coperto dal lariceto. Poi, a 1.400 m di quota, la pendenza diventa di nuovo dolce. Si passa a fianco a baite abbandonate. Erano comunque munite ciascuna del loro bravo casèl del lacc (per la sosta del latte e l'affioramento della panna)(foto sotto).

 

 

Finalmente si arriva all'Alpe di Lendine (la carta tecnica regionale indica 'Avert di Lendine', utilizzando il toponimo diffuso in Alto Lario e in Valchiavenna). L'Alpe di Lendine è un classico alpeggio-villaggio della Valchiavenna e della Val San Giacomo. Ci sono più di trenta baite. La maggior parte sono ben tenute (quelle mal messe saranno di proprietà di chissà quanti eredi!). La gente che sta nelle baite da proprio l'impressione di essere lì in vacanza.

 

 

All'Alpe di Lendine il nostro giro tocca il massimo allontanamento dal punto di partenza e proseguiamo in direzione Est salendo ancora sino a 1.850 m. Attraverso il lariceto e delle zone umide, con un po' di su, e giù, arriviamo piuttosto tardi all'Alpe Laguzzolo dove ci stavano aspettando per la polenta (ma sono già le 14 ...). C'è un po' di rimorso per aver fatto aspettare anche i bambini.

 

 

L'Alpe Laguzzolo (1.774 m) è in posizione estremamente panoramica. Da qui si domina la val S. Giacomo ma anche la val Bregaglia con le famose cime che la separano dalla val Masino (Pizzo Badile, del Ferro, Cengalo ecc.) (Foto sopra).

 

 

Il nome 'Laguzzolo' deriva dalla presenza, per l'appunto, di un laghetto da molto tempo interrato e divenuto prato da falce, tutto circondato da un muretto a secco (tutt'ora presente) per impedire l'entrata del bestiame. A differenza del pascolo, che è rimasto nel tempo di proprietà indivisa dei diversi comproprietari dell'Alpe, i prati da falce erano (e sono) di proprietà privata. Ogni proprietario detiene una 'striscia' di prato (da 'sponda' a 'sponda'). Nella foto sopra si osserva la piana dell'ex-'laguzzolo'  con delle costruzioni recenti. Sono le stalle realizzate dalle due uniche famiglie che 'caricano'. A destra la stalla con saletta di mungitura dei nostri amici Barbara e Pietro, a sinistra la stalla di un altra famiglia che ha nove asini. Altri (ex) 'grassi' un tempo sfalciati e circondati da muri a secco occupano il dosso tra le baite, affacciate sulla valle sottostante, e la piana dell'ex-laghetto (foto sotto). Notiamo che quelli che erano i prati 'grassi', un tempo ben concimati (in forza della presenza di un elevato carico di bestiame bovino) oggi sono piuttosto magri con presenza di foraggere di scarso valore. La presenza degli asini sta però favorendo il recupero della superfici pabulari. Chia avrebbe detto un tempo che le mucche da latte sarebbero state soppiantate dagli asini ...

 

 

Data l'ora (il pranzo aspetta da un bel po') non c'è tempo per scattare molte foto e ci avviamo verso la baita dei nostri amici. La maggior parte della quindicina di baite in piedi sono state ristrutturate, solo qualcuna conserva l'aspetto 'rustico' (mancanza di intonaco, di canali di gronda ecc.) (Foto sotto, baita a sinistra). Anche per Laguzzolo vale quanto osservato in precedenza: le ristrutturazioni (e la cura che vi viene profusa) sono frutto del 'fai da te', dell'affetto di chi 'sistema' la propria baita (un bene affettivo prima che patrimoniale).  Va aggiunto, però, che trattasi di un 'fai da te' competente che unisce la conoscenza delle tecniche e dei materiali tradizionali con la professionalità di chi (in proprio o come dipendente specializzato) svolge la propria attività nella vicina Svizzera (ovvero nelle prestigiose località turistiche dell'Engadina). Aggiungiamo che da un po' di anni in qua l'elitrasporto ha molto agevolato gli interventi edilizi in quota in località come queste (che non saranno mai collegate da una strada).

 

 

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Anche la baita della famiglia di Barbara Del Gener è ben sistemata. Merito del papà Luciano che sta sistemando anche quella ereditata dai nonni (divisa con i cugini, però). Papà Luciano ha realizzato anche il caseificio che vedremo tra poco. La baita dove pranziamo, e dove la famiglia soggiorna, è stata invece acquistata di recente dalla sorella di Barbara. Oltre ad acquisire le baite per eredità vi è infatti  una limitata compra-vendita (limitata ad altri comproprietari, però). Insieme al fabbricato è però necessario acquistare 2 'erbate' (l' 'erbata' è la quota di diritto di pascolo sulla proprietà indivisa dell'alpeggio). Mentre discorriamo delle baite, della storia dell'alpeggio e della sua conduzione attuale abbiamo intanto modo di apprezzare la polenta con il capretto. Grazie all'appetito indotto dalla camminata c'è anche spazio per la degustazione dei formaggi aziendali. Quelli offerti sono formaggi stagionati prodotti prima dell'alpeggio. Merita oltre che una menzione anche una foto (sotto) il 'tronchetto erborinato' di Barbara. Nonostante la lavorazione sia tutt'altro che semplice e nonostante Barbara abbia iniziato solo da due anni a lavorare il latte  il risultato è ottimo: la pasta è compatta, omogenea (l'unghia come si vede dalla foto è limitata) e non tende ad asciugare precocemente come in molti erborinati di capra. Vivi complimenti a Barbara che con grande immediatezza ci dice: 'pensavo fosse più difficile lavorare in caseificio, invece ho imparato quasi subito'. Nessuna ombra di vanteria.

 

 

In alpeggio Barbara produce formaggelle (foto sotto) e pasta di caprino lattico. La vendita sul posto è limitata (il posto è bellissimo ma ci vuole un'ora e mezza di salita abbondante per raggiungerlo da Olmo dove si parcheggia) quindi è necessario portare a casa (a Mese) il prodotto. Pietro, il marito di Barbara, due volte alla settimana sale in alpe e porta giù in spalla la pasta fresca (ovviamente spurgata in telo) di caprino. Poi lui stesso provvede a confezionare e a commercializzare i formaggini. Le formaggelle possono stagionare almeno in parte in alpeggio.

 

 

Nella produzione di Barbara vi sono prodotti tradizionali (come le formaggelle) e altri innovativi (il caprino lattico, l'erborinato). Sia lei che Pietro ci dicono che dalle interrogazioni dei 'vecchi' non sono riusciti, almeno sinora, a risalire a ricette tradizionali di puro latte caprino. Sostengono che il latte, quando disponibile oltre i fabbisogni dell'alimentazione, veniva mischiato con quello di mucca. Una prassi comune a molte aree alpine di allevamento della capra ma va detto che in certi fasi stagionali, presso certi alpeggi e certe famiglie vi era anche in passato quasi ovunque una particolare abbondanza di latte ed è difficile che non fossero mai prodotti dei formaggi di solo latte caprino. Tra l'altro siamo vicini all'area dell'Alto Lario, dove la tradizione dei formaggi caprini è radicata. Da parte dei nostri giovani amici neo-caprai vi è comunque l'interesse a valorizzare le tradizioni locali e proseguiranno nell'indagine alla ricerca di 'caprini autoctoni'.

 

 

Dopo pranzo andiamo a vedere subito le capre. Anche per quanto riguarda la razza delle capre la loro esperienza è a cavallo tra modernità e tradizione. La più parte è di razza Camosciata delle Alpi ( francese) ma nel gregge vi sono anche diverse Frise. Nella foto sopra vediamo la famiglia Pedroni al completo: Pietro, con in spalla il piccolo Enrico e mamma Barbara che tiene per mano la bimba Andrea. Nella foto vediamo anche capre rosse con 'segnature' nere e capre nere con 'segnature' bianche. Le prime sono le Camosciate ('globalizzate'), le seconde le Frise (autoctone). Nessuna delle due razze soddisfa le esigenze di Barbara e Pietro però. La Camosciata garantisce una buona produzione di latte e una lattazione persistente ma si tratta di capre , troppo 'fini'. Quelle dei nostri amici hanno l'aspetto di 'signorinette' (in parte dovuto al fatto che non sono ancora pienamente sviluppate). Però, oltre alla finezza, anche il carattere è un po' 'timido'. Il che va bene se la capra è tenuta in stalla ma quando va al pascolo le cose cambiano. Qui poi il pascolo è costituito da sottobosco del lariceto e da arbusteti. I cespugli di rododendro spesso 'mimetizzano' pericolose 'buche' tra un masso e l'altro delle pietraie e le capre rischiano di finire dentro e rimanere intrappolate, specie se sono 'timide', poco intraprendenti, in attesa dell'aiuto dell'uomo. Da questo punto di vista la Frisa, razza autoctona, è nettamente superiore e sa come cavarsela meglio in un ambiente che è il 'suo' (anche venendo fuori dalle buche con le proprie zampe). Le due simpatiche capre della foto sotto, ritratte sulla cima di un grande masso,  dimostrano di possedere un istinto che le porta ad arrampicare e a stare (di preferenza) sulle rocce. E' evidente anche la struttura più robusta (a partire da arti meno filiformi delle 'colleghe' Camosciate). Non parliamo poi della superiore 'attitudine' della Frisa a fornire i famosi Violini  di Chiavenna (prosciutti e spallette di capra).

 

 

Nella foto sotto Andrea è ritratta con una delle sue capre 'preferite', una Camosciata ma anche una Frisa ha voluto inserirsi nell'inquadratura come per dire: 'ci siamo anche noi'. Andrea sta già 'studiando' da pastorella. Quando ci sono da cercare le capre va con il papà e aiuta a individuare (dal suono dei campanacci) dove sono.

 

 

Pietro apprezza molto le Frise ma si pone il problema del reperimento di becchi in grado di trasmettere una buona attitudine lattifera. Sarebbe necessaria un'azione di selezione e miglioramento sistematica che presuppone il coinvolgimento di diversi allevatori cooperanti. Non pare impresa utopistica ma non è neppure facile. Diversi allevatori il Valtellina e Valchiavenna hanno provato ad utilizzare la Frisa in sistemi semi-intensivi (o semi-estensivi che dir si voglia) ma queste esperienze non sorette da un progetto comune non hanno avuto continuità. I requisiti per divenire una capra da allevamento semi-estensivo, da proporre anche in altre regioni e in altri paesi in contesti di montagna, la Frisa le ha tutti: buona consistenza della popolazione, un ceppo 'originale' (alta Valtellina) di taglia elevata con buona attitudine alla carne in grado di consentire un recupero di 'rusticità' e di attitudine alla produzione di carne qualora la selezione per il latte facesse perdere queste caratteristiche, una più che discreta prolificità, molti soggetti con ottimi 'petti' (mammelle) e capezzoli ben conformati ecc. ecc.  A Sondrio opera anche un tecnico competente e appassionato, lo Stefano Giovenzana che ha avuto modo di 'farsi le ossa' lavorando sulla capra Lariana (nell'Alto Lario).

Però parecchi soggetti Frisi fanno poco latte, tanto è vero che una parte delle Frise dell'azienda Del Gender sono state già asciugate, unite ad un grosso gregge e mandate in un alpeggio dove sono custodite solo saltuariamente (una prassi molto comune, purtroppo).

 

 

Intanto che si discorre di capre il tempo passa. E' ora che le capre si muovano e tornino al pascolo. Appena Pietro si avvia il gregge segue docilmente. Intanto Barbara ci fa vedere la stalla-saletta di mungitura che prima avevamo scorto in lontananza in mezzo all' ex-laghetto. E' una struttura completamente in legno realizzata su una platea di calcestruzzo. Una parte è adibita a deposito, una a palchetto di mungitura (l'energia è fornita da un motogeneratore) e il resto as area di riposo (libera) per le capre, che passano la notte al coperto. Rispetto alla gestione tradizionale delle capre in alpeggio il tutto appare piuttosto innovativo. Almeno dalle nostre parti.

 

 

Torniamo alle baite e visitiamo il piccolo caseificio (foto sotto) ricavato dalla ristrutturazione di un vano della baita al livello inferiore. Come in altri casi anche qui notiamo con soddisfazione che la concessione dell'autorizzazione sanitaria ha seguito criteri di elasticità. Anche ristrutturando vecchie baite si possono ricavare caseifici piccoli ma funzionali e rispondenti a criteri di pulizia ed igiene. Altra cosa sono le formalità su cui si impuntano certuni veterinari pubblici. Del resto ci vuole del sadismo per imporre ulteriori 'requisiti strutturali' dove si lavora qualche decina di litri di latte!

 

 

L'esterno del caseifico (foto sotto) mette in evidenza la bravura di papà Luciano. A lui si devono le opere murarie e gli impianti; solo per le strutture lignee ha dovuto avvalersi di un aiuto esterno. Inutile sottolineare come senza papà Luciano, il suo tempo, la sua professionalità, la sua passione non sarebbe stato possibile far rivivere l'alpeggio con le capre e la lavorazione del latte.

 

 

Luciano è instancabile e sta ora sistemando la baita dei nonni dove verranno ricavate due camere con servizio in vista dell'avvio di un'attività di 'agriturismo in famiglia'. Se la famiglia di Barbara ha reso possibile lo sviluppo dell'attività di alpeggio (è il secondo anno che si portano le capre) quella di Pietro è stata indispensabile per l'avvio dell'attività a valle (a Mese). Tutto il 'progetto' (di vita e di lavoro è nato quando Barbara e Pietro non erano ancora sposati. Avevano le idee chiare.

A Mese Pietro ha ereditato dalla madre la stalla e i terreni dove o produce il fieno per le capre. Come già accennato mentre Barbara lavora a tempo pieno nell'azienda di cui è titolare (dopo aver lasciato il posto di impiegata presso uno studio di commercialista), Pietro continua a lavorare da bancario della 'Popolare' spostandosi ogni giorno da Mese sino alla filiale di Porlezza. Sono 60 km da fare due volte al giorno (e le strade sono quelle che sono). Oltre a fare il fieno alla sera è lui a mungere le capre. Come ho avuto modo di constatare in altre situazioni oggi vi sono genitori che invece di scoraggiare i figli dal 'tornate alla terra' li aiutano attivamente. A differenza dei 'nuovi contadini' che vengono dalle città i ragazzi di montagna che dopo la scuola o dopo un'esperienza in un altro settore lavorativo 'tornano alla terra' lo fanno in un contesto famigliare largamente coinvolto. E' come se tutti, direttamente o indirettamente, partecipassero alla scelta della rivalutazione dell'attività agricola, di allevamento. E stando in montagna tornare alle radici significa tornare in alpeggio. Specie in queste terre dove all'alpeggio si saliva in massa riempiendo i villaggi alpestri, quasi una replica di quelli 'in giù' (non a casa c'era quasi sempre anche una chiesetta in alpeggio per il servizio divino).

 

 

Come abbiamo visto a fianco di elementi di modernità che alleviano la fatica sia Pietro che Barbara sperimentano aspetti della vita di un tempo con il suo corollario inevitabile di fatica fisica. Se Pietro scende a valle con il formaggio in spalla Barbara  trasporta in spalla il bidone del latte con il telaio 'tecnologico' della foto sopra ('però se trovo uno di quelli di legno di una volta potrei anche usare quello' commenta). Come per altri giovani neo-caprai e, in generale, per i  'nuovi contadini' oggi c'è un atteggiamento diverso verso le innovazioni. Dalla chiusura e dal rifiuto dei nonni all'accettazione acritica delle 'tecnologie' dei padri si è passati ad una 'selezione' consapevole che implica che molti aspetti della tradizione possono essere recuperati e rifunzionalizzati.  

 

 

Anche sull'alpeggio una micro-meccanizzazione è comunque di grande utilità. Oltre alla mungitrice un altro strumento meccanico che allevia molto il lavoro in alpeggio è la motocarriola (foto sopra). Sotto, invece, un simpatico contrasto tra la vecchia fontana 'a fungo' e la comunicazione 'stile ufficio' che informa della presenza della vendita diretta di latte e formaggi di capra ('la gente che passa si ferma sempre alla fontana e abbiamo pensato di affiggere lì il cartello', dice Barbara). Una comunicazione più incisiva e più 'spontanea' sarebbe utile, specie per colpire il turista cittadino, ma col tempo verrà anche quella.

 

 

 

Durante la sosta a Laguzzolo abbiamo anche visitato il 'crotto' dove tutti i comproprietari dell'alpe potevano mettere in fresco il latte per far affiorare la panna. Il tetto è stato di recente rifatto; l'interno è ricavato dalla viva roccia e come in tutti i crotti che si rispettino spira una corrente d'aria fredda che mantiene l'ambiente a 8°C (in questi giorni caldi). Il fatto che le altre famiglie usino le baita per brevi soggiorni 'di vacanza' consente ai nostri amici di disporre di buona parte della struttura comune. Avendo visto tutte queste cose il tempo è volato. Sono passate le 17 ed è tempo di scendere. E' solo abbandonando l'alpeggio che possiamo finalmente osservarlo nel suo insieme (foto sotto). Anche Laguzzolo, per quanto più piccolo di Lendine e di alpri alpeggi, è a pieno titolo un alpe-villaggio. Ma come è nato l'insediamento? Nella maggior parte degli alpeggi-villaggio della Val Chiavenna e della Val San Giacomo l'origine è remota , da collegare ai diritti di pascolo consolidati delle comunità (sia nell'ambito del territorio stresso che in altri comuni). Nel caso di Laguzzolo, però, abbiamo a che fare con la semplice suddivisione successiva di quote ereditarie. All'inizio del XIX secolo l'alpe era di un solo proprietario. Questi la lasciò in eredità a 8 figli che, in alcuni casi, suddivisero ancora la proprietà tra gli eredi tanto che oggi i proprietari di una baita possono essere parecchi (e così quelli di una quota di pascolo).  Non essendo originata da proprietà collettive antiche come altri alpeggi-villaggio Laguzzolo non ha mai avuto uno statuto di Società o Consorzio. Al catasto le parcelle di pascolo sono registrate come proprietà indivisa di moltissimi comproprietari. Vi sono, però, come abbiamo visto, delle regole e le baite non possono essere trasferite di proprietà indipendemente da quote di pascolo.

 

 

Nel corso della discesa un cancello di legno segnala che siamo arrivati al limite della proprietà e del pascolo. Un cartello molto simpatico (da imitare) invita gli escursionisti a richiuderlo (foto sotto).

 

 

Dopo la lunga discesa nel lariceto la presenza di neoformazioni di latifoglie e di rimboschimenti artificiali con conifere segnala che siamo in presenza di quelli che erano i vecchi prati dei maggenghi siti sopra Olmo. Ad un certo punto si apre anche la visione sui due villaggi di S.Bernardo (nella foto sotto in basso a destra) e S.Rocco. Per la situazione orografica della valle il pianoro tra i due abitati era risorsa quanto mai preziosa e dobbiamo immaginarlo spoglio di ogni pianta e dintensamente coltivato. In fondo alla valle si nota il gruppo innevato del Suretta.

 

 

Al termine della discesa arriviamo a Olmo il villaggio più grande della valle. Un insediamento che ha mantenute integre le caratteristiche architettoniche grazie all'affetto per il proprio paese degli abitanti emigrati più o meno lontano.

 

 

Tra le case ve ne sono molte con le caratteristiche imposte verniciate di colori vivaci come quella che apre questo racconto (ma che si trovava a 1.280 m in cima, ben 'dentro' la valle). La casa della foto sotto è identica a come l'avevo fotografata negli anni '80. L'intonaco è solo un po' più scrostato. Come allora vi sono le patate in fiore. Manca la bella steccionata di listelli di legno regolari e ben sagomati che dava quel tocco 'nordico'.  

 

 

Le viuzze sono comunque pulitissime e non si respira quel clima di disordine per sovrapposizione di stili edilizi, elementi provvisori, superfetazioni, materiali 'dimenticati', che caratterizza la maggior parte dei paesi delle nostre montagne. Questo lembo di Lombardia, molto più Svizzero di altre terre che svizzere lo sono davvero,  è rimasto un po' 'sospeso' non solo come una balconata sulle valli sottostanti ma anche nel tempo. Ignorato dalle correnti turistiche (che si 'sparano' verso l'alta valle della sky area) non ha conosciuto l'oltraggio delle villette a schiera o altre speculazioni. E resta quasi intatto da scoprire a piedi, per itinerari di un giorno o di più giorni, fermandosi negli alpeggi. L'incontro tra l'attività agricola di 'nuovi contadini' con solide radici come Barbara e Pietro e  un turismo consapevole, rispettoso, slow può consentire a chi se lo merita di scoprire e valorizzare questa valle incantevole senza stravolgerla. I nostri amici a Laguzzolo, quando saranno pronti (dal prossimo anno) ospiteranno volentieri i 'turisti ruralpini'.

 

 

 

 

 

pagine visitate dal 21.11.08

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