Sono state preziose quelle figure del mondo rurale che ha
rappresentato un ponte tra la società contadina e la realtà attuale;
qiando oggi ci lasciano vanno degnamente ricordata. Ci sono persone che
non hanno mai rivestito ruoli pubblici, che non hanno scritto libri,
fondato istituzioni, creato opere d'arte durature, lasciato invenzioni
e che pure hanno lasciato un ricordo in cerchie di persone che vanno
bel oltre il loro paese, i loro amici, parenti e conoscenti. Berto
Vassena è stato un "papà delle capre" e un punto di riferimento per i
caprai nella fase in cui l'allevamento caprino cercava di prendersi una
storica rivincita. Ci è riuscito anche per merito di persone come lui
che hanno trasmesso in modo sincero e disinteressato il loro sapere
pratico, frutto dell'elaborazione di esperienze di comunità e
personali. Queste prime note a caldo vorrebbero essere di stimolo alle
tante persone che hanno apprezzato le doti di allevatore, ma anche
quelle umane, del Berto e che ci piacerebbe ci facessero avere i loro
ricorsi. Se qualcuno intendesse farlo lo ringrazio anticipatamente
(scrivere a redazione@ruralpini.it)
L’altro
ieri è stato "messo
via" (i vecchi dicevano così, da noi) Berto Vassena, di Valmadrera
(alta
Brianza lecchese). Berto era molto conosciuto nell’ambiente degli
allevatori di
capre, non solo perché fu un antesignano ma perché allevava ottimi
soggetti che
cedeva ad altri allevatori, prodigo di consigli sinceri e
disinteressati. È stato un
maestro per tanti caprai. Le sue capre camosciate erano ambite in tutta
la
Lombardia e ne vendette anche fuori regione. Da lui presero capre
Gualberto Martini, la Chiara Onida, la Lucia Morali e tanti altri. A
chi voleva intraprendere
anche la caseificazione (praticamente tutti negli anni ‘80/’90) offriva
consigli preziosi
la moglie Carmelina (Butti), una “maga” del formaggino lattico. I
Vassena aiutavano
coloro ai quali non veniva bene il formaggio, specie a inizio stagione,
fornendo
bottiglie di siero (ricordo di aver portato anch’io una bottiglia a
qualcuno). Con
molti allevatori che mossero i primi passi grazie a lui e a Carmelina,
il Berto
rimaneva in contatto e divenne un punto di riferimento.
La lavorazione dei formaggini a Valmadrera, in un'immagine di
parecchi anni fa, quando furmagin veniva eseguita in modo del tutto
casalingo (da fare inorridire i puristi dell'igiene, ma la forte
acidità della pasta era ottima garanzia di sicurezza alimentare )
Purtroppo,
da ormai qualche decennio, la
vita di Berto stata funestata da gravi e invalidanti malattie che gli
hanno
procurato tanta sofferenza. A partire da un incidente sul lavoro (nel
giardino
della villa Gavazzi della quale era un tempo custode e giardiniere)
procurandogli seri problemi, che gli impedivano di allontanarsi
troppo da
casa e di partecipare a iniziative in tema di capre alle quali avrebbe
aderito
volentieri. Quando stava meglio, però, accettava anche di partecipare a
iniziative pubbliche, così nel 2005 quando avevamo partecipato insieme,
presso
il museo etnografico dell’Alta Brianza di Galbiate, a un incontro in
cui si
parlava dell’allevamento delle capre e delle pecore in Brianza.
La
sua naturale esuberanza, la voglia
di lavorare, di relazionarsi agli altri, la passione per gli animali,
per molto tempo sono state più forti
delle patologie. Pur riducendo il numero di capre, da una trentina a
una decina, poi a cinque, continuò ad allevarle sino a pochi anni fa e
a
lavorare nella sua falegnameria, una passione che gli consentiva di
sfornare molti oggetti belli e utili che spesso regalava agli amici,
spiegando le
caratteristiche delle essenze, ne usava parecchie, con le quali erano
stati
realizzati.
Sostenuto
da una forza d’animo e da una positività nei confronti
della vita non comuni (ma anche da una famiglia forte e coesa e dalla
fede), ha potuto sopportare
situazioni che avrebbero condannato molti alla disperazione e alla
perdita dell’equilibrio
mentale. Ieri sera, ricevuta la brutta notizia, non ho potuto fare a
meno di
ripensare a un episodio della giornata: lo “scontro” all’ingresso del
Parco di
Monza dove entravo in bici, con il banchetto per la raccolta di firme
per l’eutanasia
attiva. Come non pensare che eutanasia e distruzione della famiglia
(con il ddl
Zan) sono due facce della stessa medaglia? Distrutta la famiglia, che
con la
forza dell’amore può garantire condizioni di vita a malati gravi
migliori di
quelle delle strutture specializzate, il peso dei malati terminali o
affetti da
patologie e invalidità che, pur consentendo speranza di vita, non
consentono l’autosufficienza
e richiedono cure assidue, ricadrebbe tutto sulle strutture sanitarie.
Così si
ammanta di “diritto alla morte” (tutto quello che il sistema vuole
imporre è
presentato, suadentemente, come “diritto”) quello che è solo una
considerazione
utilitaristica: perché “sprecare” grandi risorse, in vista di un
invecchiamento
globale della popolazione, risorse che potrebbero essere impiegate per
lo “sviluppo”,
magari per finanziare i progetti di colonizzazione marziana? Via la
famiglia l’eutanasia
diventa una conseguenza obbligata. Tolto di mezzo Dio, e la famiglia,
sarà l’uomo
che ha preso il posto di Dio (ovvero gli “esperti”, di fatto il potere)
a
decidere la
vita e la morte, a stabilire sino a quando potremo vivere, sarà il
calcolo
economico neoliberale. L'inganno del grande mentitore, che fa balenare
diritti e libertà per incatenare l'uomo nella schiavitù del peccato (e
del potere) non potrebbe essere più subdolo.
La
famiglia e il contesto in cui Berto
è cresciuto sono importanti anche per capire la sua bella esperienza di
allevatore (aveva anche pecore, oltre alle capre, anche se cambiò
diverse
razze).
In quanto custode e giardiniere del grande Parco di villa Gavazzi a
Valmadrera,
Berto aveva potuto disporre di una stalla che, a suo tempo, aveva
ospitato
vacche da latte importanti (vedremo subito perché). L’abitazione era al
livello
superiore, quasi un tutt’uno, per di più annesso al parco, che forniva
anch’esso
degli sfalci, vi è un grande prato, dove le capre, in alcune stagioni,
potevano anche pascolare. La storia della famiglia Gavazzi è
intrecciata con quella del setificio lombardo ma, relativamente al ramo
proprietario
della filanda e della villa di Valmadrera - cosa che pochi sanno -
anche con quella
dell’allevamento
bovino da latte.
La
villa, originaria del XVII secolo, fu acquistata dai Gavazzi
nel 1817 come coronamento di un rango sociale acquisito, dalla metà del
Settecento, dopo una lunga ascesa sociale (erano già nel ramo della
seta
nel
Quattrocento a Canzo). L’ing. Pietro Gavazzi, fondatore della Gavazzi e
C. che
produceva nastri di seta e biancheria nei due stabilimenti di Valmadrera
e Calolziocorte,
si impegnò, insieme ad altri esponenti dell’imprenditoria lecchese dei
primi
anni del Novecento (Badoni, Falk, Fiocchi, Locatelli)
nell’attività zootecnica di
selezione della razza bruna. Questo movimento avveniva in un periodo in
cui
(prima degli anni ’30) Lecco e la Valsassina erano un centro importante
dell’industria
casearia italiana e le prospettive di valorizzazione della bruna
valsassinese,
in sostituzione dell’importazione di bestiame dalla Svizzera,
apparivano
concrete e strategiche. Non meraviglia, quindi, che i più noti
industriali si
facessero allevatori. Pietro Gavazzi ottenne importanti premi per le
sue ovine
da latte alla mostra zootecnica di Barzio nel 1920 e le sue lattifere,
una
volta avviati i controlli sistematici della produzione lattea, erano
piazzate
tra le prime della razza bruna. La stalla del Berto, nel corpo rustico
annesso al
complesso della villa Gavazzi, occupava una parte delle stalle di un
tempo, è
con due file di poste, mangiatoia alla parete e corsia centrale.
Il
grande complesso della villa Gavazzi, con il parco, il "filandone", la
villa con il grande giardino d'inverno, la cappella di San
Gaetano (che si riconosce per la cupola) e, a sinistra, il corpo
rustico, con le stalle.
Divenuta
angusta per le vacche era, negli anni ’70-‘80 una stalla spaziosa e
luminosa per
le capre. Tenuta pulitissima da Berto (la paglia della lettiera era
rimossa frequentemente e il minimo avanzo di fieno rimosso e "passato"
alle pecore), non si
avvertiva alcun cattivo odore. Le capre erano tranquille ma vispe e
socievoli, abituate alle
numerose visite di amici e acquirenti dei formaggini. Mangiatoie e
catture
erano state realizzate dallo stesso Berto, come si è già ricordato
abile
falegname. La storia di questo piccolo ma importante allevamento si
comprende sia
con la collocazione nella villa Gavazzi che con l’importanza e l’amore
per le
capre di un paese come Valmadrera, posto alle prime, erte, pendici
delle
prealpi (il paese, a 250 m di quota è sovrastato da cime di oltre 1200
m).
Le
capre,
adatte ai “bricchi”, erano l’idoneo complemento di una magra
agricoltura sui
terreni al piede dei monti e su qualche ripiano del versante e di
precoci attività industriali. Le capre
erano
mantenute per il latte, dal quale ottenere i formaggini che venivano
fatti stagionare
anche in grotte e nei caratteristici "casotti". Intorno alla capra si
era
sviluppata una cultura locale che comprendeva anche mostre informali,
con tanto
di gare di mungitura (il tutto in un'epoca in cui la politica forestale
del fascio tendeva a rilanciare i pregiudizi contro le capre). Da
queste competizioni emergeva la “regina del latte”, in
evidente analogia con quanto si faceva allora nell’ambito della vacca
bruna. Un parallelismo interessante perché mostra come
l’interesse a
valorizzare la capra non sia solo, come si vuol far credere, una “moda”
di “neorurali”
a imitazione di un “movimento” proveniente da oltralpe (peraltro
iniziato anche in Francia non prima del periodo tra le due guerre). Berto
raccontava questi fatti per sottolineare come la sua passione per
le capre contenesse elementi di continuità ma al tempo stesso di
innovazione, legata alla sua personale iniziativa. A proposito delle
"regine del latte" non mancava di ricordare divertito come i "paesani",
per dar produrre più latte alle proprie "campionesse", ricorressero a
vari espedienti.
Valmadrera
dalle creste del Moregallo. Valmadrera è costituita da una piana (oggi
occupata dalle industrie) dai terreni al piede dei monti e da alcuni
piccoli pianori, come quello di San Tomaso, dove si esercitava l
agricoltura
e l'allevamento contadino
Ma
perché le camosciate, una razza non
propriamente autoctona, seppure del ceppo alpino? Le camosciate che,
detto
per
inciso, qualcuno continua buffamente a chiamare "scamosciate",
anticipando un utilizzo
post-mortem della pelle dell’animale che prevede una particolare concia
(con l'esclusione dello strato più esterno, duro e resistente, della
pelle di capra),
utilizzata
in prevalenza per la confezione di scarpe, per l'appunto "scamosciate".
Le
camosciate (senza esse, per favore),
il Berto le aveva importate negli anni ‘70 dalla Savoia. Non si era
affidato a
commercianti e si era recato personalmente da un allevatore savoiardo
(Arpin,
che nominava sempre con ammirazione). Pur conoscendo bene le capre (a
Valmadrera come in altri centri dell'alta Brianza c'è, come visto, una
radicata
tradizione del caprino lattico) aveva assorbito il sapere specifico
dell'allevatore
francese relativo alla razza. Quanto al formaggio, la moglie Carmelina
Butti non
aveva da imparare nulla dai francesi. I suoi caprini lattici,
giustamente
maturi, non avevano rivali. Non ho mai mangiato formaggini più buoni.
Anche
quando l’Asl costrinse a non usare la cantinetta con fondo in terra
battuta,
dove venivano benissimo. La Carmelina era riconosciuta
specialista di
formaggini lattici stagionati. Li vendeva anche freschi, se qualcuno,
seguendo le nuove tendenze dietetiche, e non sapendo che il grasso
cambia nella stagionatura ma non aumenta, li chiedeva, ma soptattutto
maturi al punto
giusto. Era orgogliosa e consapevole del suo "sapere
pratico" ma anche del fatto che la qualità del suo prodotto dipendeva
anche da quella del latte (e quello era merito del suo Berto).
I furmagitt li
confezionava secondo la tradizione locale, con qualche aggiustamento,
utilizzando il sieroinnesto (di bustine di fermenti industriali,
invece, non
voleva neppure sentire parlare). Quando avevano ancora un discreto
mumero di capre, i Vassena vendevano i formaggini a un negozio di
Lecco, che li supplicava di farglieli avere,
ed erano ricercatissimi. I formaggini di Berto e
Carmelina erano coperti da una crosta fiorita omogenea di Geotrichium
candidum con
leggere grinze e un tendenziale distaccamento, a maturazione
avvenuta, della "pelle" dalla pasta cremificata sottostamte. Non erano
mai amari o con
gusto di grasso ossidato, come quando lo sviluppo del Geotrichium è
troppo aggressivo. Chissà perché la "pelle di rospo"
da noi è considerata un difetto e in Francia un "pregio'". Quando
gli si chiedeva perché non volessero cimentarsi in altre tipologie, i
Vassena rispondevano che i loro formaggini erano già prenotati prima di
produrli. L'univa variazione riguardava l'aggiunta o meno del pepe nero
spolverato e il grado di maturazione. Chi veniva via dai Vassena con un
vassoietto di formaggini della Carmelina li portava via fiero come un
trofeo. A volte, infatti, si rischiava di andare via
a mani vuote o di dover accontentarsi di formaggini freschi (che agli
intenditori "dicono poco")
Berto
avrebbe voluto riprendere
l'allevamento della bormina (bionda/toggemburg). I pastori transumanti,
specie camuni, che
hanno sempre prediletto la bionda avevano lasciato in Brianza un ceppo
di
capre, che i contadini locali avevano intuito avere buone
caratteristiche lattifere e che andavano poi a ricercare sino in
Valcamonica. Ai tempi in cui Berto voleva rilanciare
l'allevamento caprino su basi un po' più consistenti e specializzate,
c'erano ancora diversi piccoli nuclei di "bormine brianzole" ma, su
quella base,
non era possibile rilanciare l'allevamento. In
zona è stato Roberto Mainetti a
rilanciare la bionda/bormina/toggemburg, mietendo successi alle mostre
camune.
Ovviamente è ricorso all'incrocio con la Toggemburg, ma non basta
importare e
incrociare per creare un allevamento di soggetti di grande pregio.
Serve
passione, occhio, intuizione, costanza. Roberto, che sceglieva i
migliori
soggetti della Valcamonica, incrociandoli poi con quelli
svizzeri, ha avuto la fortuna di avere un
successore in Carlo (grande appassionato più di capra orobica, però)
mentre i figli
di Berto, causa un’allergia al pelo di capra, non hanno neppure potuto
prendere neppure
in considerazione l’attività. In ogni caso, anche se Berto ed
altri allevatori presero
la strada di una razza più produttiva, in
sede di applicazione delle misure che premiano le razze in
via di estinzione (il mitico regolamento 2078), la bionda venne ammessa
a contributo, oltre che in provincia di Brescia,
anche nel triangolo lariano a riconoscimento di una realtà radicata.
Berto, che per vari motivi aveva
dovuto scartare la possibilità di
importare dalla Svizzera la Toggemburg (cosa che più facile poi per
Mainetti), a malincuore si risolse a
orientarsi sulla camosciata.
Meritano
un cenno tra gli
"antesignani" il Colombo di Civate e il dr. Origgi con il quale era
socio. Di seguito vennero
a ruota il dr Spelta (altro veterinario appassionato di capre, saanen,
però, che si
trasferì
dalla val d' Intelvi all'appennino piacentino, il Butti, che lasciò un
posto di
tecnico all'Ibm per fare il capraio a Vendrogno, i Buzzi a Valbrona, un
altro
Colombo ai Piani Resinelli. Peccato che Colombo, a Civate,
paese confinante con Valmadrera, dovette
chiudere per brucellosi. Dove c’era la sua azienda c’è ancora il Crotto
del Capraio
che ricordo per una “cena dei caprai” a base di becco con la
partecipazione del
Berto. Dopo gli "antesignani" sono arrivati in
tanti. Allora, i pionieri erano considerati un po' strani e guardati
con sospetto, come "figli dei fiori". Ma quello che è bene
sottolineare è che Berto (non era il solo, peraltro) non era affatto un
neo-rurale, era un vetero-rurale, sensibile e intelligente che aveva
intuito
che la capra meritava una "riabilitazione" e uno spazio a pari
dignità nel panorama zootecnico. In comune i caprai avevano
comunque qualcosa: l'aspirazione ad un'agricoltura meno
industrializzata, più a dimensione artigianale, umana, animale, la
voglia di recuperare ambienti e risorse della montagna a rischio di
abbandono, di ritornare a filiere corte (quando non si conosceva ancora
neppure il termine). I primi caprai si sentivano portatori di valori
morali: rispetto dell'ambiente, dell'animale, rapporto diretto e
sincero con il consunatore e il tutto era quindi visto da alcuni con
simpatia, da altri con sospetto. Figure come quella del Berto,
saldamente legate alla cultura rurale, hanno contribuito a far "mettere
i piedi per terra" all'allevamento caprino e a farlo crescere.
Che
questo movimento abbia investito per primi il varesotto e il
lecchese non deve sorprendere. In realtà i primi allevament di
camosciata erano nati sotto forma di coop con moltissimi animali e
grandi strutture nel basso Piemonte, ma "pompati" dai contributi
regionali e il
modello, senza radici e fondati sulla supponenza del sapere tecnico,
andò in contro a clamorosi fallimenti sia sul piano gestionale che su
quello delle patologie. Il "modello lombardo", a metà
tra neo e vetero ruralismo, crebbe invece gradualmente, in modo
spontaneo (pur con il sostegno di
alcune istituzioni come la Camera di commercio di Varese); le aziende
con centinaia
di capi apparvero solo dopo anni dalla ripresa dell'allevamento
caprino, quando si erano consolidate
e diffuse le conoscenze zootecniche e veterinarie. Il
fatto che sia partita tra il lecchese (allora ancora provincia di Como)
e il Varesotto non deve sorprendere. Qui c'era una cultura
particolarmente radicata per le
capre e per i formaggini di capra (nel Varesotto, in realtà per la furmagina,
una pasta di caprino utilizzata per il zincarlin, aggiungendo
pepe e aglio (sono
convinto che sia legato alla forte matrice celtica che ci accomuna con
i cugini
francesi). Poi il "revival" si allargò alla val Camonica, alla
Valtellina e alla
provincia di Bergamo che, da provincia con meno capre di tutta la
Lombardia (in relazione alle "guerre alle capre" ottocentesche) è
divenuta la più caprina di tutte. Un fenomeno assecondato dalle
istituzioni (APA, Regione, Provincie, quella di Bergamo si impegnò in
modo particolare) ma che è potuto svilupparsi, consolidarsi, continuare
a crescere
(il "boom" delle capre continua da quarant'anni) grazie a
supporti "orizzontali" all'esperienza accumulata dai primi allevatori e
trasmessa con meccanismi "tra pari". E qui il riconoscimento al Berto è
d'obbligo
In provincia di Bergamo il boom dei nuovi
allevamenti di capra è stato più tardivo (anni 2000) ma si è rivelato
consistente e duraturo. Un cimelio di quel periodo è il libro edito
dalla Provincia di Bergamo (in vendita su Internet come "antiquariato"
da ElleLibri).
Le
capre di Berto erano produttive ma non spinte, per questo erano
longeve. Accolse
alcuni miei consigli
alimentaristici che, probabilmente erano utili a bilanciare la razione,
ma mai
l'idea di utilizzare quelle quantità di concentrati che, a cuor
leggero, molti
allevatori senza il retroterra e l'etica di Berto (quinta elementare ma
con una
sensibilità verso l'animale e principi morali nettamente superiore a
quella dei
laureati "studiati" e agli "imprenditori", per i quali
capre o cavoli purché facciano profitto).
Lui
parlava di ogni capra come di una figlia, valutando tutti i pregi e i
difetti
(conformazione, mammella, produttività, indole e comportamento,
mungibilità).
Snocciolava
le genealogie delle sue capre con la naturalezza del vero allevatore,
tra le
mitiche fondatrici ricordo una Frida (bel nome evocativo, se ricordo
bene). Forse anche per la presenza delle corna, le camosciate del Berto
non avevano quell'aspetto "gentile"
di quelle che si vedono in altri allevamenti. E continuarono a piacermi
anche quando le "autoctone" presero
ad interessarmi sempre di più grave.
Aveva creato delle "linee" che tendeva a mantenere, ovviamente
attento a evitare la consanguineità. Inutile dire che, nella scelta
delle madri di becchi, non guardava solo
al "secchio".
Allora
non ero ancora in grado di
riconoscere in queste pratiche sapienti qualcosa di altrettanto
importante del
sapere accademico. Quando (anni ‘80) cercavo di convincere Berto a
"spingere" di
più le sue capre (per la mera soddisfazione di ottenere alte
produzioni) egli contrapponeva un gentile ma fermo diniego. Aveva
ragione lui. E gli sono debitore per avermi trasmesso la sua filosofia.
Nel 1986, quando avvenne il disastro di Chernobyl stavo seguendo gli
allevamenti di capre del lecchese (analisi del fieno, del latte e del
sangue, allora c'era la mania dei "profili metabolici" che facevano
tanto "scientifica" l'indagine zootecnica). Chernobyl rappresentò una
svolta. Le regole più severe sull'uso dei prodotti radioattivi
bloccarono le mie velleità di studi con isotopi radioattivi sugli
animali in vivo (il mio istituto non disponeva di laboratori con
specifiche tali da consentirli) e mi indusse a un ripensamento critico
nei confronti dello scientismo e a una sana diffidenza per le
tecnologie (atomiche o "bio" che fossero) che mi portò verso tutt'altra
direzione di interessi (pascoli, prodotti tradizionali, valenze
culturali dell'allevamento, etnografia).
Un
esemplare di camosciata che ricorda quelle del Berto.
Berto
mi fece meglio capire quanto contava, oltre al "produttivismo" anche il
benessere dell'animale, la durata in stalla, la qualità del
latte (considerando che poteva avere un riscontro immediato nella resa
quanti-qualitativa), la correttezza degli appiombi e della linea
dorsale. Era anche
un nemico dei formalismi. Si indispettiva
quando i burocrati romani dell'Assonapa non volevano iscrivere
nel Libro genealogico soggetti con "difetti
" di colorazione del mantello
(questo accadeva prima che la FA
diventasse comune anche nelle capre e l’uso del seme francese
diffondesse
mantelli pezzati e persino molto scuri, sino al nero, tanto da indurre
i burocrati ad
arrendersi).
Berto,
il fieno lo faceva con le sue
mani ed era solo quello che dava alle sue capre (attento a utilizzare
quella qualità per le caprette, l'altra per le capre in lattazione,
l'altra ancora per l'asciutta
ecc.). Certo, essendo poche, erano
ben curate, ma non erano belle e sane solo per quello, era per
l'attenzione, per il rispetto,
per il senso di simbiosi senza smancerie "animaliste" che lui
instaurava con i suoi animali (aveva
anche
pecore e pur preferendo le capre le trattava con uguale
considerazione). Entrare nella stalla era per me, un'occasione di
serenità.
Ci si andava volentiri, per le capre, per la cordialità del Berto, per
le cose che raccontava e faceva vedere e dalle quali si imparava sempre
qualcosa-
Quando si
entra in una stalla ci sono delle sensazioni sottili che ti colpiscono.
C'è una
forma di comunicazione animale prerazionale che ci dice, forse in
quanto
mammiferi evoluti, non necessariamente umani, che quegli animali stanno
bene,
vivono una vita serena... e trasmettono senso di benessere e serenità.
La
stalla del Berto era così meta di un vero e proprio pellegrinaggio, non
solo
di
persone che erano interessate alle capre ma anche dei “golosi” dei
formaggini e
di tanti amici che, forse, trovavano confortante il senso di serenità,
pulizia,
attenzione, passione che da essa promanava.
Berto
e Carmelina trasmettevano agli
altri il senso di accudimento e di rispetto con il quale trattavano
animali e
piante. L'orto di Carmelina è sempre stato uno spettacolo per il suo
rigoglio.
Pollice verde ma anche attenzione a scegliere le varietà giuste (Berto,
pur piccolissimo
agricoltore, era attento anche alle innovazioni, andava alla Fondazione
di
Minoprio a sceglierle). Personaggi di un mondo che non c'è più Berto e
Carmelina erano anche aperti alle novità.
Un'immagine del museo della vita contadina
a Sam Tomaso (Valmadrera)
Berto
era un vero esponente della cultura
rurale, la esprimeva in modo spontaneo nella sua vita, ma era anche
interessato
ad essa come fatto consapevole. Quando gli feci conoscere il libro di
Paul
Scheuermeier (un librone in due volumi da 90 €) su “Il lavoro dei
contadini”
(frutto di una sterminata inchiesta etnografica approfondita sul modo
contadino
italiane degli anni '20 del secolo scorso, pubblicato in edizione
italiana da
Longanesi, Milano, ultima ed. 1980) volle procurarselo (lo fece
arrivare tramite
la libreria-editrice Cattaneo di Lecco-Oggiono). Va detto che a
Valmadrera c'è, un po' in tutta l'alta Brianza, c'è un interesse
piuttosto diffuso per la cultura rurale
come testimoniano i libri prodotti e il museo contadino presso la
località San Tomaso.
Animo
sensibile, attento, generoso il
Berto, coerente con i suoi principi sino al
rigore, era all’opposto della figura sulla quale ama indulgere lo
stereotipo urbanocentrico
del contadino “rozzo” e avaro. Uno stereotipo che, è bene dire, non
pochi
rurali, che pur sbandierano il loro essere "imprenditori", si
continuano
ad auto-appiccicarsi addossoe. .
Figure
belle di un modo rurale “che non
c’è più ma che una volta c'era”. Non
ne ho conosciute molte. Non ce ne sono molte e stanno sparendo. Però
c'erano e
qualcuna c'è ancora. Valorizzatela, sono beni culturali viventi. Ne
abbiamo
bisogno. Nei
musei, che dovrebbero essere centri di produzione di cultura viva
(distribuire sementi, fornire supporti ai contadini) ci dovrebbe essere
uno spazio, oltre che per attrezzi lasciati alla voracità dei tarli,
per ricordare persone come il Berto che ora riposa in pace avendo
lasciato tanti buoni ricordi in chi lo ha conosciuto.