(20.08.10) Scoppia
una feroce polemica sul 'sistema vino' trentino. Le
accuse di 'mercato drogato', politica di quantità
e produzione fuori regione non vengono solo dai 'vicini
di casa' di Bolzano ma anche dai produttori indipendenti
trentini
In
Trentino crolla il reddito delle vigne dopo gli anni
d'oro
(mentre
Bolzano non conosce crisi)
Non
sono solo la zootecnia e la cura dei pascoli a
creare imbarazzanti confronti tra le due provincie autonome
della stessa 'regione' (una regione senza poteri) .
Ora anche il confronto sulla vitivinicoltura si fa accesso.
E i viticoltori indipendenti trentini danno ragione
alle feroci critiche che vengono da oltre Salorno.
di
Michele Corti
Due
modelli agricoli così diversi in una stessa (sulla
carta) regione non possono che portare che a confronti
e polemiche. La diversa utilizzazione e cura dei pascoli
e la diversa difesa delle piccole aziende zootecniche
(il tutto trascurato in Trentino e ben curato a Bolzano)
erano già state occasione di polemiche. Ora è
il modello vino ad essere al centro dello scontro. Ce
ne occupiamo perché le analogie con il settore
zoocaseario sono molte e rimandano a un sistema agricolo Trentino
che non va che si è lasciato trascinare oltre
un limite ragionevole dalle sirene dell'industrializzazione
e della globalizzazione.
Il
casus belli è stato offerto dalle dichiarazioni
di Peter Dipoli (enologo e vice-presidente dei vignerons
altoatesini). Presente il 18 agosto a Trento presso
l'enoteca Grado 12 (per presentare
l’esposizione 'Vinea Tirolensis') Dipoli ha svolto impietose considerazioni
sul sistema vino trentino. Forte del fatto che, sotto
Salorno, il settore è in una grave affanno mentre
sopra (crisi o non crisi) continua ad arridere il successo
del mercato. La colpa, secondo Dipoli, è nella
strategia adottata dai tre big della cooperazione: La
Vis, Cavit, Mezzacorona. Va precisato, per comprendere
il contesto strutturale, che in tutto il trentino
le coop sono 14. Ben diversa la situazione in
provincia di Bolzano dove sono decine e decine. Qui
non vi sono grandi coop ma coop locali di pochi produttori.
In questo contesto è stato più facile
impostare sin da 20-25 anni fa una politica di qualità
basata sulla zonizzazione, sulla valorizzazione dei
vitigni autoctoni e del 'vitigno giusto per il terreno
giusto'. La scelta strategica di qualità adottata
a Bolzano è stata certo favorita dalla maggiore
coesione e disciplina che vincola tra loro i produttori
(elementi culturali non solo questione di numeri).
Nelle
grandi coop trentine il produttore è deresponsabilizzato.
C'è un management ben pagato. Il produttore sa
che il prezzo che riceve dalle proprie uve non dipende
tanto dalla loro qualità quanto dalla politica
commerciale della coop e dal sostegno politico della
provincia (per vie dirette ed indirette). Non c'è
incentivo a produrre qualità. Tanto le uve -
tranne che per qualche linea di produzione - finiscono
in un gran calderone. E i conti della coop dipendono
dalla sua 'strategia globale'. Anche dalle produzioni
fuori regione.
E'
tutta la linea politico culturale dell'agricoltura
trentina che va rivista
'Il Trentino è ad un bivio. Deve decidere se il futuro del proprio settore
vitivinicolo sta nella produzione di uve a livello locale oppure
nell’imbottigliamento di vini da tutte le Tre Venezie. Non resta che ripartire, come ha fatto da tempo l’Alto
Adige, da qualità e da zonizzazione'
Così
Dipoli. Ma siamo sicuri che sia così facile?
Forse anche Dipoli è condizionato da una
mentalità tecnocratica che gli impedisce di vedere
che il sistema vino, come qualsiasi altro sistema agricolo,
è un sistema sociotecnico prima che produttivo
e commerciale.
Alla
base del rapporto tra singoli produttori agricoli (allevatori
o viticoltori che sia) e le coop e del rapporto tra
sistema coop e quelli della politica e della consulenza
tecnico-scientifica c'è la diversa considerazione
del ruolo del contadino. Tutto si gioca su quanto il
contadino è in grado di autodeterminare le proprie
scelte tecnico-produttive e quanto è, al contrario, eterodiretto,
tutelato, agito da chi opera con la sua delega
(spesso in bianco). In Trentino la mentalità
'italiana' vede nel contadino un minus habens
non un soggetto autonomo, in grado di controllare
le proprie risorse (sia pure il piccolo maso). Di conseguenza
devono essere delle strutture più grandi di lui
a tutelarlo paternalisticamente.
L'orgoglio
contadino, l'anelito di indipendenza è presente
anche in Trentino. Anche qui c'è un substrato
culturale 'tirolese' (identifichiamolo così per
comodità), ma questo substrato è
stato respinto nella subalternità e folklorizzazione e ha
prevalso la cultura urbana (specie dopo il 1918).
La
linea produttivista-industrialista imposta dalla cultura
urbana versus la linea neocontadina: globalizzazione
versus valorizzazione del territorio
In
Trentino l'egemonia culturale urbana ha spinto ad adottare
acriticamente i paradigmi della modernizzazione agricola
e della globalizzazione in un ansia a dimostrarsi più
moderni, più aperti ai mercati, meno contadini.
Forse ci si è laciati prendere la mano.
Quando
già in Europa si profilava il riemergere dei
modelli contadini (a cavallo tra anni '90 e i primi
anni del nuovo secolo) il sistema agricolo Trentino
(le grosse cantine, Melinda, S. Orsola) pigiava l'acceleratore
sulle economie di scala e la globalizzazione.
La
cosa ha anche risvolti simbolici. Si considera il contadino
ancora un 'pezzente' (vedi la campagna 'non piangiamo
sul latte versato') mentre in Europa ci si accorge che
il modello contadino (multifunzionalità, diversificazione,
filera breve) porta a volte a redditi superiori a quelli
delle aziende imprenditoriali. Queste ultime, infatti, di
valore aggiunto ne producono poco dovendo subire costi
elevati per gli imput. Sono dipendenti. Sfoggiano tecnologie
(imposte da altri) ma socialmente tornano servi (sia
pure di lusso). Nel 2003 l'Unione dei contadini trentini
cambia il nome in Coldiretti. Una scelta anacronistica,
un ritardo culturale grave. L'avessero fatto 10-20 anni
prima si poteva capire.
Nel
campo vitivinicolo questo movimento di apertura alla
globalizzazione ha significato puntare su vitigni
più internazionali e 'facili' (Pinot grigio,
Chardonnay), sulla produzione nel piano, sulla produzione
fuori Trentino. Concepitesi come attori globali le cantine
hanno investito fuori Trentino anche in Sicilia e Toscana
e hanno puntato su una produzione 'Triveneta', producendo
e imbottigliando anche fuori. Di qui la politica, a
questo punto ovvia e obbligata, di investimento
nei propri marchi a scapito dell'investimento
nell'immagine di qualità del territorio.
E' la logica delle mini-multinazionali che inseguono
anche Melinda e S.Orsola.
Con
la crisi la 'bolla' si è sgonfiata. Produzioni
di massa, fatte per indeguire i gusti fluttuanti del
mercato in tempo di vacche magre, e quindi di margini
ridotti all'osso, si scontrano con una 'resa dei conti'
che premia i sistemi più industrializzati, le
aree viticole con grandi rese, le grandi scale.
Intanto
l'immagine enologica trentina non si è certo
rafforzata . Se il settore caseario trentino è
molto 'padanizzato' quello vinicolo rischia la 'venetizzazione'.
Alla crisi si reagisce con prezzi dei prodotti 'base'
da saldo, il prezzo delle uve scende e il reddito per
ettaro dei produttori di conseguenza.
Reagisce
anche Mellarini, sembra un affare di lesa trentinità
Dipoli
ha toccato nervi scoperti. E chiama in causa tutto
il sistema coop e la politica quando accusa che: il
sistema vino trentino è andato a rimorchio dei
'grandi commerci' delle cantine big. Oggi,
non a caso, contro delle esternazioni fatte a
titolo personale da un enologo viticoltore, insorgono
l'assessore Mellarini, a l'a.d. di Mezzacorona. Ma i
vignaioli indipendenti trentini, che vogliono
produrre qualità la pensano come il collega altoatesino.
Lo dice oggi su l'Adige Mario Pojer della 'Pojer e Sandri'
«Dipoli
ha fatto una bella e reale fotografia della situazione
e un intervento straordinario. Ha detto la sacrosanta
verità, anchese ovviamente dà fastidio.
Come
Pojer la pensano tanti produttori. I vignaioli
indipendenti delle coop dicono anche peggio di Dipoli.
Posso confermarlo personalmente perché qualche
settimana fa ho avuto occasione di discutere con un
produttore che ha trasformato in vigneti un terreno
di montagna puntando sulla qualità.
Ma
anche chi conferisce l'uva alle cantine si lamenta e
accusa. I fatti sono che il reddito dei viticoltori
che qualche anno fa era elevato è crollato mentre
quello dei colleghi oltre Salorno è in crescita
e il brand Alto Adige-Südtirol tira.
Vuoi
vedere che il contadino del terzo millennio ci prende più
del management? Quest'ultimo ha una vision tanto globale
che è diventato strabico e non si rende conto
che sotto i suoi piedi ci sono risorse (vitigni, microclimi,
cultura del ben produrre e della 'bella vigna') che
con un diverso approccio possono portare agli stessi
risultati di Bolzano. Ma chi ha il coraggio dell'autocritica?
Chi ha il coraggio di una 'rivoluzione culturale'?
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