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In Trentino crolla il reddito delle vigne dopo gli anni d'oro

(mentre  Bolzano non conosce crisi)

 

Non sono solo  la zootecnia e la cura dei pascoli  a creare imbarazzanti confronti tra le due provincie autonome della stessa 'regione' (una regione senza poteri) . Ora anche il confronto sulla vitivinicoltura si fa accesso. E i viticoltori indipendenti trentini danno ragione alle feroci critiche che vengono da oltre Salorno.

 

di Michele Corti

 

Due modelli agricoli così diversi in una stessa (sulla carta) regione non possono che portare che a confronti e polemiche. La diversa utilizzazione e cura dei pascoli e la diversa difesa delle piccole aziende zootecniche (il tutto trascurato in Trentino e ben curato a Bolzano) erano già state occasione di polemiche. Ora è il modello vino ad essere al centro dello scontro. Ce ne occupiamo perché le analogie con il settore zoocaseario sono molte e rimandano a un sistema agricolo Trentino che non va che si è lasciato trascinare oltre un limite ragionevole dalle sirene dell'industrializzazione e della globalizzazione.

 

 

Il casus belli è stato offerto dalle dichiarazioni di Peter Dipoli (enologo e vice-presidente dei vignerons altoatesini). Presente il 18 agosto a Trento presso l'enoteca Grado 12 (per presentare l’esposizione 'Vinea Tirolensis') Dipoli ha svolto impietose considerazioni sul sistema vino trentino. Forte del fatto che, sotto Salorno, il settore è in una grave affanno mentre sopra (crisi o non crisi) continua ad arridere il successo del mercato. La colpa, secondo Dipoli, è nella strategia adottata dai tre big della cooperazione: La Vis, Cavit, Mezzacorona. Va precisato, per comprendere il contesto strutturale,  che in tutto il trentino le coop sono  14. Ben diversa la situazione in provincia di Bolzano dove sono decine e decine. Qui non vi sono grandi coop ma coop locali di pochi produttori. In questo contesto è stato più facile impostare sin da 20-25 anni fa una politica di qualità basata sulla zonizzazione, sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni e del 'vitigno giusto per il terreno giusto'. La scelta strategica di qualità adottata a Bolzano è stata certo favorita dalla maggiore coesione e disciplina che vincola tra loro i produttori (elementi culturali non solo questione di numeri).

Nelle grandi coop trentine il produttore è  deresponsabilizzato. C'è un management ben pagato. Il produttore sa che il prezzo che riceve dalle proprie uve non dipende tanto dalla loro qualità quanto dalla politica commerciale della coop e dal sostegno politico della provincia (per vie dirette ed indirette). Non c'è incentivo a produrre qualità. Tanto le uve - tranne che per qualche linea di produzione - finiscono in un gran calderone. E i conti della coop dipendono dalla sua 'strategia globale'. Anche dalle produzioni fuori regione.

 

E' tutta la linea politico culturale dell'agricoltura trentina che va rivista

 

'Il Trentino è ad un bivio. Deve decidere se il futuro del proprio settore vitivinicolo sta nella produzione di uve a livello locale oppure nell’imbottigliamento di vini da tutte le Tre Venezie. Non resta che ripartire, come ha fatto da tempo l’Alto Adige, da qualità e da zonizzazione'

 

Così Dipoli. Ma siamo sicuri che sia così facile? Forse anche Dipoli è condizionato da una mentalità tecnocratica che gli impedisce di vedere che il sistema vino, come qualsiasi altro sistema agricolo, è un sistema sociotecnico prima che produttivo e commerciale.

Alla base del rapporto tra singoli produttori agricoli (allevatori o viticoltori che sia) e le coop e del rapporto tra sistema coop e quelli della politica e della consulenza tecnico-scientifica c'è la diversa considerazione del ruolo del contadino. Tutto si gioca su quanto il contadino è in grado di autodeterminare le proprie scelte tecnico-produttive e quanto è, al contrario, eterodiretto, tutelato, agito da chi opera con la sua delega (spesso in bianco).  In Trentino la mentalità 'italiana' vede nel contadino un minus habens non un soggetto autonomo, in grado di controllare le proprie risorse (sia pure il piccolo maso). Di conseguenza devono essere delle strutture più grandi di lui a tutelarlo paternalisticamente.

L'orgoglio contadino, l'anelito di indipendenza è presente anche in Trentino. Anche qui c'è  un substrato culturale 'tirolese' (identifichiamolo così per comodità), ma questo substrato è stato respinto nella subalternità e folklorizzazione e ha prevalso la cultura urbana (specie dopo il 1918).

 

La linea produttivista-industrialista imposta dalla cultura urbana versus la linea neocontadina: globalizzazione versus valorizzazione del territorio

 

In Trentino l'egemonia culturale urbana ha spinto ad adottare acriticamente i paradigmi della modernizzazione agricola e della globalizzazione in un ansia a dimostrarsi più moderni, più aperti ai mercati, meno contadini. Forse ci si è laciati prendere la mano.

Quando già in Europa si profilava il riemergere dei modelli contadini (a cavallo tra anni '90 e i primi anni del nuovo secolo) il sistema agricolo Trentino (le grosse cantine, Melinda, S. Orsola) pigiava l'acceleratore sulle economie di scala e la globalizzazione.

La cosa ha anche risvolti simbolici. Si considera il contadino ancora un 'pezzente' (vedi la campagna 'non piangiamo sul latte versato') mentre in Europa ci si accorge che il modello contadino (multifunzionalità, diversificazione, filera breve) porta a volte a redditi superiori a quelli delle aziende imprenditoriali. Queste ultime, infatti, di valore aggiunto ne producono poco dovendo subire costi elevati per gli imput. Sono dipendenti. Sfoggiano tecnologie (imposte da altri) ma socialmente tornano servi (sia pure di lusso). Nel 2003 l'Unione dei contadini trentini cambia il nome in Coldiretti. Una scelta anacronistica, un ritardo culturale grave. L'avessero fatto 10-20 anni prima si poteva capire.

Nel campo vitivinicolo questo movimento di apertura alla globalizzazione  ha significato puntare su vitigni più internazionali e 'facili' (Pinot grigio, Chardonnay), sulla produzione nel piano, sulla produzione fuori Trentino. Concepitesi come attori globali le cantine hanno investito fuori Trentino anche in Sicilia e Toscana e hanno puntato su una produzione 'Triveneta', producendo e imbottigliando anche fuori. Di qui la politica, a questo punto ovvia e obbligata, di investimento nei propri marchi a scapito dell'investimento nell'immagine di qualità del territorio. E' la logica delle mini-multinazionali che inseguono anche Melinda e S.Orsola.

Con la crisi la 'bolla' si è sgonfiata. Produzioni di massa, fatte per indeguire i gusti fluttuanti del mercato in tempo di vacche magre, e quindi di margini ridotti all'osso, si scontrano con una 'resa dei conti' che premia i sistemi più industrializzati, le aree viticole con grandi rese, le grandi scale.

Intanto l'immagine enologica trentina non si è certo rafforzata . Se il settore caseario trentino è molto 'padanizzato' quello vinicolo rischia la 'venetizzazione'. Alla crisi si reagisce con prezzi dei prodotti 'base' da saldo, il prezzo delle uve scende e il reddito per ettaro dei produttori di conseguenza.

 

Reagisce anche Mellarini, sembra un affare di lesa trentinità

 

Dipoli ha toccato nervi scoperti. E chiama in causa  tutto il sistema coop e la politica quando accusa che: il sistema vino trentino è andato a rimorchio dei 'grandi commerci' delle cantine big.   Oggi, non a caso, contro delle esternazioni fatte  a titolo personale da un enologo viticoltore, insorgono l'assessore Mellarini, a l'a.d. di Mezzacorona. Ma i vignaioli indipendenti trentini, che vogliono  produrre qualità la pensano come il collega altoatesino. Lo dice oggi su l'Adige Mario Pojer della 'Pojer e Sandri'

«Dipoli ha fatto una bella e reale fotografia della situazione e un intervento straordinario. Ha detto la sacrosanta verità, anchese ovviamente dà fastidio.

Come Pojer la pensano tanti produttori. I vignaioli indipendenti delle coop dicono anche peggio di Dipoli. Posso confermarlo personalmente perché qualche settimana fa ho avuto occasione di discutere con un produttore che ha trasformato in vigneti un terreno di montagna puntando sulla qualità.

Ma anche chi conferisce l'uva alle cantine si lamenta e accusa. I fatti sono che il reddito dei viticoltori che qualche anno fa era elevato è crollato mentre quello dei colleghi oltre Salorno è in crescita e il brand Alto Adige-Südtirol tira.

Vuoi vedere che il contadino del terzo millennio ci prende  più del management? Quest'ultimo ha una vision tanto globale che è diventato strabico e non si rende conto che sotto i suoi piedi ci sono risorse (vitigni, microclimi, cultura del ben produrre e della 'bella vigna') che con un diverso approccio possono portare agli stessi risultati di Bolzano. Ma chi ha il coraggio dell'autocritica? Chi ha il coraggio di una 'rivoluzione culturale'?

 

 

 

 

 

 

 

pagine visitate dal 21.11.08

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