Un commento che nasce per caso. È vero che ho appena finito di scrivere il libro "Ribelli del Bitto" per Slow Food editore ( sarà presentato a Cheese il 17 settembre) ma - lo crediate o no - lo spunto di questa riflessione è stato offerto
dall'aver calpestato del mangime 'seminato' sul ponte della val Loga, sui pascoli di Montespluga. mentre facevo quattro passi. Poi ho dato un'occhiata in giro. Nulla di premeditato (le foto - a parte alcune di repertorio - sono fatte con il telefonino). Poi qualche giorno dopo sono tornato a fare foto migliori, ma il mangime era sparito (sarà stata sufficiente la pioggia?).
Qualche
giorno dopo ferragosto stavo passeggiando a Montespluga, località d’alpeggio a
1.900 sulla strada che sale al passo dello Spluga. Montespluga è dotata di ampi
pascoli anche se, negli anni ’30 del secolo scorso, l’ampio “Pian de la cà”[1] venne invaso dalle acque del bacino idroelettrico.
Montespluga
Sul ponte di pietra della val Loga mi è capitato di calpestare del mangime “seminato” e lo ho fotografo con il
telefonino. Poi, rientrando in “centro” passo davanti alla “Latteria agricola
Montespluga” e vedo un grosso serbatoio “Frigo-Milk”. Alta foto e,
inevitabilmente, non riesco a non pensare con disappunto che da questa
Latteria, di proprietà del Consorzio d’alpeggio Montespluga - dove conferiscono
parecchi soci – si fa “Bitto”. Un “Bitto”(?) prodotto con latte di svariati
produttori che mungono a macchine (fin qui poco male) ma che - e questo
comincia a non andare bene – lo pompato in grossi serbatoi montati sui pick-up e
poi, arrivato a destinazione viene ripompato Viene un po’ di rabbia a pensare
che il vero Bitto è stato multato dalla Repressione frodi per “abuso di
denominazione protetta” perché – per protesta – i produttori storici erano
usciti dalla Dop. Ma per tutelare cosa? Il “Bitto” come quello di Montespluga? Hai!
Nella foto sopra il mangime seminato sul ponte (sotto) della val Loga. Foto del 22 agosto
La val Loga vista dalla sponda opposta del bacino artificiale
Un'alpeggio
un po' sui generis legato con un cordone ombelicale all'industria
Gli enti
che si occupano di agricoltura usano spesso la retorica della “tradizione
coniugata all’innovazione”.
Spesso una formula vuota abusata per giustificare ogni scempio. In realtà in
alta Valle Spluga (Valchiavenna, provincia di Sondrio) la rottura con la
tradizione è stata totale, certo più forte che altrove (almeno in provincia e
in Lombardia) e l'alpeggio ha preso i contorni di una appendice un po'
melanconica delle stalle con centinaia di Frisone alimentate a
silomais (sotto) del Piano di Chiavenna. Un'appendice legata anche con
uno stretto cordone ombelicale alla Latteria di Delebio (il "Polo bianco"della Valtellina e Valchiavenna). Eppure anche qui (dove pure c'era una grande tradizionedi ottimo burro e ottimo formaggio magro che si è buttata via), si è
voluto fare Bitto Dop certificato dalla Unione Europea, per “fare i
numeri”, per alimentare le “filiere lunghe”.
Qualcuno dirà:
"ecco il solito ayatollah del gusto" (così, mi ha riferito un amico,
sono etichettato in Valtellina e Valchiavenna dall'establishment). Un
ayatollah che rompe le scatole e non capisce che senza 'innovazione' non
c'è sostenibilità economica, non c'è reddito. Lui pensa solo alla 'poesia'.
Dicono loro... Ma le cose stanno così o a qualcuno conviene farle apparire cosi?
Coltivazione di mais ceroso nel piano di Chiavenna
Il Gatto
e la Volpe continuano a dire: "producete di più"
In realtà
questi signori fanno finta - perché gli conviene - di non capire che quello che
noi ruralisti sosteniamo (a dispetto di lorsignori industralisti,
produttivisti) è che l'innovazione deve passare per una 'selezione dal basso' che consenta ai produttori
agricoli di discernere ciò che è nel loro interesse da quello che rappresenta
solo una trappola dell'agroindustria. Una ‘selezione’
dell’innovazione che consenta loro di mantenere il controllo sulle conoscenze e
sulle filiere di approvvigionamento e di vendita. Che consenta anche di non
buttare via il bambino con l'acqua sporca e di far proprie e ‘interiorizzare’
solo quelle innovazioni che possono innestarsi su sistemi socio-tecnici
tradizionali (che hanno saputo nel tempo fare tesoro delle risorse e
specificità locali, umane e ambientali). E poi chi ha detto che l'innovazione è
solo tecnologica? La grande innovazione degli ultimi anni è stato scoprire che,
con innovazioni commerciali, le tecniche di produzione, più che sostenibili, già ritenute obsolete
(alla luce di parametri 'standard') tornavano nel mercato.
Il Gatto e
la Volpe hanno sempre detto "producete tanto". Non suggeriscono certo
di produrre i prodotti ciò che renda i produttori indipendenti e
garantisca loro un reddito duraturo, al riparo - per quanto
possibile - dalle incertezze di mercati in balia della globalizzazione. Il Gatto e la
Volpe (manager, politici, tecnici, burocrati degli enti pubblici e provati)
preferiscono dipingere chi contesta la 'modernizzazione' acritica e
subalterna come qualcuno che per una sua stravaganza o chissà quali obliqui
fini vuole far ripiombare i produttori agricoli nella miseria. Il Gatto e la
Volpe inducono ad adottare stili produttivi che rendono i produttori non solo
economicamente ma anche culturalmente e psicologicamente irrimediabilmente
legati al sistema. Mica scemi.
In realtà ci si dimentica sempre, quando si parla dei
progressi, che molte aziende e molti produttori non sono lì a dire la loro per
il semplice motivo che li hanno fatti chiudere. È una storia vecchia: gli
sfruttatori dei contadini si sono erti sempre a loro paterni e solleciti
'protettori' mettendoli in guardia contro i 'sobillatori'.
Il dispositivo (poco) mobile di mungitura presso cui ho fotografato il mangime 'seminato'. Sullo sfondo una parte delle tante (ex)cascine di Montespluga, oggi molto ingrandite rispetto a quelle del passato ed utilizzate anche da chi non ha più bestiame.
I sacchi di mangime all'interno del' 'dispositivo' si tratta di mangime 'finito', come quello seminato.
Avvicinandoci notiamo anche di che tipo di mangime si tratta: GIM, Gruppo Italiano Mangimi. Mangime per bovini da latte. le foto provano che a Montespluga si utilizza mangime per l'integrazione delle vacche da latte e siccome il latte va alla Latteria di Montespluga che fa "Bitto" le consclusioni sono facili da trarre.
Era realmente una
realtà di miseria
"Volete tornate alla miseria" è l'anatema lanciato
dal Gatto e la Volpe. Forse, però, verso la miseria ci si sta sta
tornando seguendo le prediche dei loro 'principali': sulla
inevitabilità della globalizzazione, della crescita del Pil, sulla necessità di
introdurre sempre più tecnologia, specializzazione, il super-produttivismo.
Sulla necessità di inseguire i gusti del consumatore (così inseguendoli spingi
l'asticella sempre più giù e poi ti tocca rincorrerli ancora al
ribasso in un circolo vizioso senza fine). Quelli che accusano l’autore di
questi “graffiti” (e chi la pensa allo stesso modo) di "volere la
miseria" forse – almeno nel caso dei rampanti neo-imprenditori nati negli
anni ’70 - non l'hanno mai conosciuta, nati in un epoca i cui anche in montagna ai bagaj (bambini) davano
gli omogenizzati e poi il latte "del cartone" UHT perché "più
igienico" (succede ancora che il “contadino” che munge il suo latte apra i
frigo e mostri il latte con il cartone acquistato all’Iper).
La realtà dell'alpeggio dell'alta valle Spluga (detta
anche val S. Giacomo dalla prima chiesa battesimale della valle ) la
conosco da tantissimo tempo, da prima che il "grande
cambiamento" degli anni '60-'70 (sociale, economico e antropologico) fosse
concluso. Nonostante trasmettessero una sensazione di profonda miseria,
(palpabile nel modo di vestire, nella sporcizia), la passione per gli
alpeggi mi è nata - molto precocemente - proprio qui. A cavallo tra gli anni
'60 e '70 erano ancora caricati alpeggi che oggi sarebbe impensabile
utilizzare: senza un pianello, con piccole chiazze erbose tra le rocce,
abbarbicati alla montagna. In pochi posti come la valle Spluga gli alpeggi sono
stati abbandonati. Ma anche gli alpeggi comodi dell’alta valle, con zone
di prato falciabile, con pendenze modeste come quelli di Andossi, Teggiate e
Montespluga non erano ‘facili’. La loro colonizzazione era superintensiva, ci
si rubava l’erba (le ‘vaccate’). Quando da ragazzo rientravo dal passo Spluga
da gite in Svizzera con i genitori mi veniva il magone a vedere le catapecchie
che segnavano il rientro in Italia. Allo Spluga il confronto è netto perché di
là ci sono Walsergermanofoni con le
case di legno linde, grandi, con i prati pettinati.
Qui, in alta valle Spluga, non esistono gli alpeggi 'unitari'
e nemmeno gli 'alpeggi a villaggio' (per le tipologie di alpeggio mi
permetto di rinviare a alla “storia degli alpeggi) nella sezione
alpeggi del mio sito www.ruralpini.it). La miriade di
cascine della gente che dal Piano di Chiavenna, di Spagna, di Colico saliva ad
alpeggiare era addensata in piccoli nuclei in mezzo al pascolo e in prossimità
dei prati da sfalcio (il fatto che siamo a 1.700-1.900 m non deve far pensare
che non si praticasse la fienagione). La quota di pascolo comune (appartenente
ai Consorzi che rappresentano una proprietà indivisa composta da quote di
diritto di pascolo) e di prato di ciascuna famiglia era modesta. Serviva
per l'alimentazione di un numero ridottissimo di vaccherelle, giusto quel tanto
per garantire un'economia di sussistenza anche attraverso la vendita del burro
e - se avanzava dall'esigenze di autoconsumo - anche di un po' di
formaggio magro. Una di queste piccole cascine, non manomessa nella
tipologia tradizionale in quanto abbandonata, è illustrata nella foto sotto.
Oggi i pochi neo-imprenditori zootecnici che caricano il
bestiame (la maggior parte delle baite sono utilizzate dai discendenti dei vecchi
alpigiani per trascorrervi le vacanze) sono tra i più modernisti della
provincia di Sondrio se non della Lombardia. Sottolineo neo-imprenditori perché
la loro traiettoria di modernizzazione è stata compiuta a tappe forzate,
favorita dal fatto che la miriade di ex-famiglie contadine attraverso il
frontalierato, il posto fisso privilegiato nell’Enel ecc. hanno preso altre
strade. Altrove, dove l'alpeggio era un fatto imprenditoriale da secoli (guarda
caso le aree storiche del Bitto), il cambiamento è stato più graduale, la
frenesia modernista è stata calibrata, negoziata. Qui c'è stato un crollo verticale e i tanti
micro-alpeggiatori hanno lasciato un vuoto solo in parte colmato (basta vedere
quanti prati degli Andossi non sono né segati né mangiati, per non parlare di
begli alpeggi abbandonati o sotto caricati come in val Febbraro). A fianco dei
nuovi 'grossi' che si sono buttati a capofitto nella modernizzazione, nella
meccanizzazione sopravvivono dei tradizionalisti, anziani con poche vacche che
non mollerebbero mai perché per loro l’alpeggio è un modo di vivere, è la vita.
Però il 'sistema' nel complesso ha perso colpi come dimostrano i prati-pascoli degli Andossi nè segati nè mangiati.
Prati pascoli non utilizzati come si può ben notare dalle poche chiazze verdi. La parcellizzazione fondiaria della parte 'segatizia', fatta di tantissime parcelle di piccole dimensioni (a differenza dei centinaia di ettari indivisi di pascolo) impedisce lo sfruttamento di queste superfici facilmente raggiungibili dalla strada e a modesta pendenza
Certo è più facile aumentare esponenzialmente i volumi di
latte prodotto e i cavalli delle trattrici che sedimentare, 'digerire' una
nuova cultura di produzione agricola e zootecnica. Certi esempi di 'edilizia
zootecnica' la dicono lunga sulla 'doppia
velocità' con la quale procedono i processi culturali e quelli tecno-economici.
Povero
Bitto!
Il contesto dell'alta valle Spluga con questi presupposti zoocaseari,
fondiari, antropologici era l'ideale per il trapianto del 'nuovo Bitto' che
venne “insegnato” da “casari pellegrini” reclutati nelle valli del Bitto e
inviati dalle istituzioni a diffondere la lieta novella: facimus Bittum. Così le latterie dei consorzi d'alpeggio, quella di
Teggiate e quella di Montespuga si sono messe a fare Bitto a
manetta. "Produciamo più noi che tutti gli alpeggi del Bitto 'purista' e ribelle delle valli del Bitto".
La latteria di Montespluga
La latteria di Teggiate
Lo spaccio della latteria di Teggiate. all'insegna il consumatore si aspetterebbe che i 'formaggi tipici' sono prodotti dalla latteria stessa, così come il burro. In realtà qui si fa solo "Bitto" (e ricotta)
È questa un'argomentazione che viene fatta valere spesso per chiudere le bocca ai difensori del Bitto, quello storico,
l’unico autentico che rappresenta una come perla del caseificio alpino. Qui in
alta valle Spluga, come abbiamo visto, erano abituati ad un alpeggio di sopravvivenza, ma
inevitabilmente intriso di individualismo; certi valori è comprensibile che facciano
fatica a comprenderli. Fanno fatica a capire che una denominazione coincide con
un capitale di qualità e reputazione sedimentato nel tempo. Fanno prima
a capire “i numeri”, la meccanica un po’ semplificata del fatto produttivo
ridotto ideologicamente e strumentalmente (dal Gatto e la Volpe) a puro fatto
tecnico. Ai neo-imprenditori, tutti gasati per le
innovazioni (e senza tradizione imprenditoriale consolidata), interessa(va) il
fatto che “chiamandolo Bitto”, grazie al riconoscimento burocratico del
marchio del consorzio e la benedizione dell'Unione Europea, si potesse spuntare
qualche euro in più al kg. La forza di un marchietto (e di una ruffiana etichetta
rossa che ammicca ai calecc della
Valgerola, che qui sono ovviamente mai esistiti). Spingendo l'accelleratore
della produzione, consentendo di usare mangimi e fermenti e di fare
quello che fanno a Teggiate e Montespluga la qualità del Bitto è calata. Certo
c’è una forbice notevole di prezzo (da 8 a 16 € per il prodotto fresco a fine
alpeggio), ma la produzione “di massa” di alcuni alpeggi (pensiamo anche alla
val di Lei, sempre in Valchiavenna) ha spinto
in giù il prezzo medio e limato anche le eccellenze (la moneta cattiva scaccia
quella buona anche se il falsario, intanto, ci guadagna).
L’esito delle strategie alla “fatene tanto, ci vogliono i
numeri” hanno portato a una certa disaffezione
negli ultimi anni per il Bitto, la soluzione che avrebbe dovuto sostenere
l’alpeggio in tutta la provincia. Anche
in valle Spluga si sta ritornando a rispolverare (spesso strumentalmente)
vecchie denominazioni (la "Magnocca" si può confondere con il Cheddar)
o , in qualche alpeggio, sottoposto ai controlli, a fare formaggio grasso senza pretesa di chiamarlo Bitto (così puoi ‘andare giù’
col mangime senza nessun limite).
Ma come si fa
concretamente il "Bitto" qui?
Innanzitutto va detto che qui mangimi e Frisona si utilizzano
da un pezzo; il mangime ben prima del 2006, quando è stato autorizzato
ufficialmente dal Ministero (che aveva approvato le modifiche del disciplinare
di produzione). La Frisona è tanta perché nel fondovalle le stalle e
l'alimentazione sono di tipopadano.
Niente di male - si fa per dire - perché il disciplinare del Bitto (che, tra
quelli delle Dop, tocca i vertici dell'ipocrisia semantica) dice che si
possono utilizzare le 'razze tradizionali'. E la Frisona e i suoi incroci sono
'tradizionali'. Capito?
A Montespluga prevale la Frisona con mandrie compattamente bianco e nero. Stazionano preferibilmente nella parte bassa della val Loga, quella prospiciente il lago. Queste della foto si sono spostate con largo anticipo per la mungitura. Sono lì ferme ad aspsttare il mangime. Alcune, più ìavide' pascolano ancora un po' senza grande foga. Ci penserà il mangime a riempirele
La vacca sotto è stata la prima a staccarsi dalla madria e a dirigersi verso la zona di attesa di mungitura. Incedeva con fare incerto e barcollante come quando vedi le macchine da latte nelle fabbriche del latte. Qui non ci sono pavimenti scivolosi, grigliati, batturi di cemento. Eppure la locomozione è compromessa...
Il mangime, dicevamo, qui si usa da un pezzo. C'è la strada
statale 36 del Lago di Como e dello Spluga che ci pensa a far arrivare comodi i
camion (giusto qualche tornante).
Quando facciamo riferimento - quale esempio negativo - al
'Bitto di Montespluga', però, intendiamo anche altre cose. Primo il trattamento
del latte, poi la miscelazione di quello di una dozzina di produttori, poi
una lavorazione che - dati i volumi
- non può che distaccarsi dalle manualità tradizionali. Quanto alla
manipolazione tutti mungono a macchina (fin qui niente di male); il problema
però è che, per agevolare la manipolazione delle consistenti quantità di latte
(sono mucche piuttosto 'spinte' anche in alpeggio), si è adottato da parte
di tutti i produttori il sistema del pompaggio in un grosso serbatoio montato sui pick-up.
Poi il latte fa il suo viaggetto e viene ripompato in latteria. Roba da far inorridire i vecchi casari (ma anche i
tecnici di vecchia scuola) che predicavano l'importanza, per la produzione del
Bitto, di evitare al latte 'strapazzi'. Poi speriamo che non sia refrigerato nel grosso Frigo-Milk qui sotto.
"Chi vi obbliga a fare Bitto?"
Di certo sapendo che la qualità del formaggio (a prescindere
dall'abilità e scrupolosità del casaro) dipende solo in minima parte dal tuo
latte - che è solo una frazione di quello lavorato - non c'è certo
quell'attenzione che - nella produzione del vero Bitto - parte dall'erba, da un
attento regime di pascolo, dalle attenzioni agli animali e al latte una
volta munto. Chi te lo fa fare?
In queste condizioni si può produrre un prodotto tra il
mediocre e il discreto (come ha sentenziato Paolo
Marchi) ma non Bitto che, per definizione, è il frutto di una
lavorazione che presuppone latte
caseificato immediatamente. "Perché insistete a fare Bitto se poi vi
lamentate anche che non ve lo pagano bene?". È quello che continuano
a dire i produttori storici ai loro colleghi. Però quelli da quell'orecchio non
ci sentono.
Non c'è in assoluto - anche a 1.900 m - niente di così
perverso nel consegnare il latte ad un unico caseificio
che mescola il latte di più produttori. In Svizzera molto spesso fanno questo
e anche di peggio: termizzano anche il latte d'alpeggio, pompano le cagliate e
altre 'diavolerie'. Niente di perverso, ripeto. La perversione è nel fare un
formaggio in qual modo lì e chiamarlo Bitto o qualcosa di nobile che non
andrebbe oltraggiato.
In questo contesto industrializzato che si usino mangimi e
fermenti è ovvio e, a questo punto, quasi indifferente. Con la
precisazione che il nuovo disciplinare del Bitto ammette mais, soia ecc., ma
non mangime finito come quello che io ho visto seminato per strada vicino ad
una postazione di mungitura. Però io non sono un "detective del
gusto" e non mi interessa indagare più di tanto. C'è il Csqa che
certifica. No?
Strani flussi materiali e virtuali di scarti, prodotti
finiti, semilavorati: l'alpeggio come reparto esterno dell'industria
In tutto questo, però, non c'è (solo) la polemica contro gli
espropriatori delle denominazioni sancite dalla storia e dalla tradizione. È
chiaro che chi non difende una propria tradizione ma sfrutta una royalties fa
così. Sfrutta la royalties di cui è stato miracolato dalla politica. Finché la
va… Sbaglia di grosso, invece, chi ha lasciato (e lascia) che un
patrimonio caseario nobile venga sputtanato: la Regione Lombardia, il
Ministero, la Commissione Europea.
In questa sede mi preme però evidenziare le conseguenze
'sistemiche' (meno immediate) dell’esproprio di una tipicità adattata ad un
modernismo acritico.
Dicevo all'inizio che l'alpeggio (brutto) che si fa in alta
valle Sluga è l'appendice delle stalle simil-padane del fondovalle e della Latteria
di Delebio, sempre più vicina a diventare il "Polo bianco" della
provincia (facendo finta di non conoscere le ‘magnifiche sorti’ del Polo Bianco
trentino).
Le vacche sono ad alta produzione e l'alpeggio va adattato
alle loro esigenze di macchine da latte (si torna al mangime finito sparso per
strada), ma non c'è solo quello.
Molti produttori che in inverno conferiscono il latte a
Delebio salgono ancora in estate a Montespluga e Teggiate e conferiscono a
queste latterie sociali d'alpeggio parecchio latte. Esso sono così
diventate succursali - reparto esternalizzato - del grande caseificio
industriale. In che cosa consiste questo rapporto? In uno 'scambio' incrociato
strettissimo. Intanto acquisto di Bitto da parte di Delebio (dove se ne fa
tanto bisogna ricorrere ai grossi canali e Delebio porta il Bitto nella GDO).
Poi, però, negli spacci delle latterie alpestri si vedono formaggi prodotti a Delebio (a 55 km di distanza) e burro.
Formaggi tipici, burro
I turisti, attirati dal cartello "Formaggi tipici, burro" esposto davanti alla Latteria di Teggiate (Carden), si aspettano forse che sia d'alpeggio. Nessuno tenta di ingannarli, intendiamioci. Appena ho chiesto "avete il burro?" una ragazzina mi risponde subito, pronta e decisa: "sì ma solo quallo pastorizzato", anche sui 'formaggi tipici' esposti nel banco frigo mi previene: "qui si fa solo Bitto, tutti quelli che vede sono pastorizzati". Non dice "industriali" (non pretendiamo troppo) ma non dice nemmeno che sono fatti molto distante in una grande latteria industriale. Poi c'è un particolare poco simpatico. Tutti i formaggi della Latteria di Delebio esposti in vendita sono senza etichette. Quelle belle confezioni e etichette ammicanti e ruffiane da Mulino bianco non sono state apposte e i vari formaggi, "Piattone", "Matusc", "Magnocca" ecc. ecc. hanno assunto un aspetto molto 'nostrano' coperti da una muffa grigia d'ordinanza che è probabilmente il frutto di un 'passaggio' nella cantina del caseificio qui in montagna. Nulla tranne la carta del burro (che non si può togliere) ci dice che siamo in una depandance della Latteria di Delebio. Però quando i pezzi di formaggio e mascherpa acquistati sono impeccabilmente incartati da mani professionali e non 'alpigiane' con la carta della latteria di Delebio e vi viene apposto lo scontrino casa 'madre' ci rendiamo conto che qui funziona proprio come un reparto staccato, con personale e gestione del Polo industriale. Quindi in una logica di divisione del lavoro che, come in fondovalle, spinge l'alpigiano a pensare a mungere e basta. Che a gestire la latteria e la commercializzazione ci pensa, anche qui, mamma latteria industriale. Potrebbe anche essere una soluzione. Non per produrre Bitto, però.
Ma torniamo al burro che era il vanto della produzione di qui, Quei panetti di burro pastorizzato incartati e impilati in armadio frigo come al supermercato per gli anziani alpeggiatori sopravissuti rappersentano un insulto feroce. Non se ne capacitano, si incazzano. Riporto
quanto scritto lo scorso anno [3] quando
riferivo di un colloquio con un'anziana che gestisce ancora un po' di mucche da
latte sugli Andossi.
... L'alpeggiatrice non
risparmia critiche nemmeno ai caseifici 'sociali' d'alpeggio che operano in
zona (Latteria di Teggiate e Latteria di Montespluga) raccogliendo la maggior
parte del latte delle Alpi Andossi e Montespluga. 'Ma come si fa in alpeggio ad
avere da vendere il burro della Latteria di Delebio?' La Latteria di Delebio
per chi non lo sapesse è il più grande caseificio della provincia di Sondrio -
paradigma valtellinese del caseificio industriale - e la 'scandalosa' mancanza
di burro si deve al fatto che entrambe le latterie sono dedite, da quando c'è
la Dop, alla produzione di 'formaggio grasso' (la signora, ho fatto
attenzione, non dice mai 'Bitto' perché da alpeggiatrice all'antica, pur
essendo molto giovanile, considera il 'Bitto' solo quello
prodotto della Valgerola).
Il cordone ombelicale tra il caseificio
industriale e le latterie sociali alpestri (di fatto reparti della grande latteria industriale) è talmente stretto che a
storia il siero prodotto a Montespluga e Teggiate 'viaggerebbe' sino alla latteria di Delebio (a 55 km, di cui 30 di montagna, ma chi ci crede
?). La cronaca che segue è tratta dal quotidiano locale La Provincia di Sondrio [4].
Smaltire il siero
derivante dalla produzione del formaggio in alta Valle Spluga. Tema decisamente
delicato quello posto dalle latterie e dai produttori di formaggio di Monte
Spluga e degli alpeggi del territorio del comune di Madesimo
all’amministrazione comunale. La zona è una delle più importanti per quanto riguarda
il settore caseario in valle, ma è anche, per ovvi motivi, una delle più
problematiche. [… ] Il rischio, insomma, è che visti i costi non proprio limitati
del trasporto dello stesso verso il fondovalle, e in particolare verso Delebio,
a qualcuno venga voglia di fare il furbo e scaricarlo nel lago o nei torrenti.
«Il problema esiste - spiega il sindaco Masanti - e l’intervento per la
realizzazione di un mini-depuratore da parte della latteria di Montespluga non
sembra sufficiente a risolverlo. Si tratta di quantitativi di siero non
indifferenti, che i produttori sono costretti a spostare con un aggravio di
costi notevole. Il rischio che a qualcuno venga in mente di smaltirlo in modo
non appropriato oggettivamente c’è». Per rendersi conto della portata del fenomeno basta
considerare che circa il 90% del latte utilizzato per la produzione del
formaggio diventa siero. Questo ha un costo di smaltimento di circa 6 euro al
metro cubo, senza considerare il trasporto. [… ] L’obiettivo finale dovrebbe
essere quello di realizzare un depuratore ad hoc di misura adeguata per le
necessità della zona: «Si tratta di un intervento stimabile in alcune decine di
migliaia di euro - spiega Masanti - che oggettivamente il comune di Madesimo
non può affrontare da solo. Il problema, inoltre, non è strettamente locale,
specifico del territorio di Madesimo. Praticamente tutti gli alpigiani della
zona provengono da altri comuni, specialmente dal fondovalle. E’ un problema
che crediamo comprensoriale e, per questo, speriamo che la Comunità Montana
dimostri sensibilità nel volerlo affrontare assieme».
Il problema non è stato risolto ovviamente. Mentre negli
alpeggi 'veri' a filiera corta oltre che a cercare di produrre ricotta si
stanno facendo tornare i maiali, e il siero viene loro riservato trasformandosi
in ottime carni e grasso, qui la voglia di lavorare quantità di latte 'da
pianura' impedisce qualsiasi soluzione di riciclo. Sono le rigidità dei sistemi
industrializzati in contesti difficilmente piegabili alla logica industriale,
che fanno emergere la pochezza della rozza cultura delle 'economie di
scala'. Una logica, e una prassi, che creano costi dove non c’erano, rifiuti
dove c’erano risorse. Una logica, però, che continua a trionfare perché
conviene a chi ha potere. Dal mio punto di vista tutto dipende da quel rapporto
distorto con la modernizzazione,a sua volta legato a un passaggio brusco
dall'economia di sopravvivenza alle sirene della 'imprenditorialità agricola'
(subalterna – beninteso - agli interessi industriali, commerciali e politici
delle èlites locali e non).