(30.01.11) La visita in alcuni allevamenti caprini ossolani occasione di riflessioni sulla montagna di ieri e di oggi. Sperando che ci sia anche un domani
Capre ossolane e altro
Un piccolo viaggio tra tre vallate e tre allevamenti caprini ci porta a contatto con tanti problemi: razze autoctone da salvare, alpeggi da valorizzare, l'inserimento dei giovani, il mantenimento di patrimoni di tradizioni, paesaggi, produzioni, testimonianze storiche. Difficile sopravvalutare l'utilità dell' 'umile' capra per mantenere in vita la montagna dell'uomo
testo e
foto di Michele Corti
Il racconto di oggi prende avvio dalla frazione Prone, una borgata appartenente alla 'squadra' di Naviledo nel comune di Montecrestese. Siamo nel cuore dell'Ossola. Alla frazione Prone, nell'unica casa abitata (foto sopra) vive - quando non è in alpeggio - la capra Annette di cui ci siamo occupati giusto un anno fa (una capra longeva). Avevo un po' paura a chiedere se ci fosse ancora. Invece eccola qui ...
Anche quest'anno Annette 'ha fatto' un vispo caprettino. E fino a che 'fa' la padrona, Otten Gesine, la terrà. Non importa se fa poco latte. Otten si augura che Annette resti vittima di un incidente in montagna così da sollevarla dalla difficile decisione che si potrebbe imporre prima o poi (ovvero mandare Annette al macello). Dopo tanti anni è ovvio che la componente affettiva assuma un peso notevole. In ogni caso Annette è la testimonial di un allevamento a misura d'uomo e di animale. E per questo ne parliamo e continueremo a parlarne. Di un allevamento in simbiosi con la montagna. Sarebbe giusto conferire un premio ad Annette e alla sua padrona. Per campare sino a diciassette anni una capra deve essere non solo sana e robusta ma avere anche ricevuto cure attente e amorevoli. Sarebbe un segnale che l'epoca delle macchine da latte è finita e che vanno riconosciti e altri valori. Qualcuno penserà che sono ragionamenti idealistici, di chi non tiene in conto debito l'economia. Ma produrre in coerenza con le risorse dell'ambiente, utilizzando animali 'robusti' significa proporre un modello economico efficiente. E no solo in senso bioeconomico. Un sistema economico per il contadino si intende, non per l'industria che vuole vendergli i suoi mezzi tecnici e le sue tecnologie (spesso, specie in montagna di dubbia efficacia) e portargli via il latte (e la carne) a prezzi irrisori.
Prima di passare ad altro vi regalo questo 'saluto' (sopra) da parte di Annette (sta dicendo: "ciao a tutti i miei fan") e l'immagine sotto del suo caprettino con la mamma umana.
Annette è una capra speciale per la sua longevità, ma anche il posto dove vive è speciale. La vecchia casa contadina è stata resa abitabile grazie al duro lavoro delle due allevatrici. Ed è un recupero 'conservativo' meritevole come ci raccontano alcuni particolari costruttivi e l'insieme del 'complesso'.
Non è facile adattare una vecchia dimora contadina alle esigenze di un'azienda agricola moderna che deve fare i conti con certe regole (giuste o ingiuste che siano).
Non è facile, in particolare, concilare queste vecchie strutture in sasso alle esigenza di 'distribuire' in modo adeguato i vari spazi: abitazione, stalle, fienile, cantina, caseificio, spogliatoio, servizi igienici, magazzini ecc. Per fortuna che non c'è - almeno per ora - l'esigenza di prevedere il 'locale vendita'. In ogni caso io e Marco Imperiali (nella foto sotto mentre discute con Otten) siamo qui per dare una mano - fornendo consigli e indicazioni - a realizzare questi interventi. Un lavoro di 'assistenza' realizzato nell'ambito di un progetto Interreg "ll Lago Maggiore, le sue Valli, I suoi Sapori” promosso e gestito dalla Camera di Commercio di Verbania (con sede a Baveno).
Un posto speciale dicevo. Adatto alle capre sicuramente perché nei dintorni trovano castagne, rovi e, soprattutto, non c'è nessuno cui possano dare fastidio. Sì perché Prone, immersa nel bosco, è una frazione fantasma come testimoniano le foto sotto.
Quasi tutti i vecchi fabbricati sono privi di copertura e molte murature perimetrali sono crollate. L'edera cresciuta rigogliosa sui ruderi testimonia di un abbandono che risale a molto prima dell'epoca dell' 'esodo rurale'. Il sito è comunque interessante. Oltre a resti di affreschi esterni vi sono strutture che indicano la vetustà degli edifici come alcuni architravi e piedritti monolitici (foto sotto). Un sito straordinario e pieno di storia come testimoniamo le strutture megalitiche, i resti del tempietto celtico-leponzio e tante altre testimonianze.
Non è giusto, però, finire questa 'tappa' senza parlare delle 'compagne di Annette'. Nelle foto che seguono si osserva una evidente 'francesizzazione' del ceppo nostrano. Una conseguenza della diffusione della CAEV (artite encefalite caprina) presso gli allevamenti autoctoni che ha costretto in qualche caso gli allevatori ad utilizzare becchi 'selezionati'.
Ora, però, nella vicina Val Vigezzo (una delle tante vallate ossolane) una parte della popolazione autoctona appare risanata e le nostre allevatrici hanno iniziato ad acquistare in Vigezzo becchi di tipo Alpino comune (per la precisione dall'allevatore Acchini Paolo di Re).
Il becco Camosciato della foto sotto viene messo in vendita (anche perché ha già lavorato ababstanza nel gregge). Ha quattro anni, è sano e robusto e chi fosse interessato può mettersi direttamente in contatto con l'azienda (otten.gesine@libero.it).
Dell'azienda di Otten Gesine e Daniela Ribotti va anche detto che tutto il foraggio (fieno in ballette prismatiche) è autoprodotto e che per la lettiera si usa la foglia di faggio e quercia del bosco. Abbontande e gratis ma ... va raccolta e ammucchiata. Così si contribuisce a tenere pulito il bosco. La paglia oltre ad essere costosa deve viaggiare a volte per centinaia di km. Stana ecologia quella di certi ambientalisti che vorrebbero che la biomassa nei boschi marcisca per importare legna e paglia da lontano. Forse colpa anche di una certa ignoranza che deriva dal fatto di non sapere o volere prendere atto che l'epoca in cui i ruralpini raccoglievano sino all'ultimo filo d'erba e fogliolina rastrellando i boschi (sino a danneggiare le radici) è finita da tanto tempo. Lo stesso vale per gli 'esiziali danni delle capre ai boschi'.
Un allevamento così ecologico, con tanto alpeggio, tanto pascolo, lettiera locale, fieno aziendale merita di essere bio. Ma forse, anzi, senza forse, merita anche di più.
Da Montecrestese, ridiscesi rapidamente nel fondovalle riprendiamo la strada del Sempione e ci inoltriamo in val Divedro in direzione Varzo. In realtà la meta è molto più in alto rispetto al centro di Varzo che è sul fondovalle a poco più che 500 m. É in queste giornate invernali abbastanza fredde ma secche che ci si accorge come in montagna i vantaggi e gli svantaggi legati all'altimetria, alla distanza dalle arterie di comunicazione siano molto relativi. Nei fondovalle c'è il vantaggio dell'accessibilità (oggi divenuti prioritario) ma è compensato dall'effetto dell' 'inversione termica' e da una insolazione molto limitata. Presa la strada per S. Domenico la lasciamo ad un certo punto per imboccare una stradina stretta e senza alcuna protezione e raggiungiamo una borgata a 1.000 m di quota che fa parte della frazione Torriggia alta. La borgata è ben esposta al sole (S-SE) ed è abbastanza in alto per non subire la 'schermatura' del sole che subisce la valle sottostante. Le costruzioni sono decisamente antiche ma per lo più ancora in buono stato e alcuni particolari denunciano un 'antico splendore'. Sono conservati alcuni affreschi di buona fattura come quello della foto sotto. L'affresco raffigura una Madonna in trono con santi (a destra, forse, S. Carlo a sinistra, forse, S. Giorgio) è poco leggibile (colpa dell'angolo di riprersa obbligato e della luce radente) ma si vede bene il personaggio committente (nell'angolo in basso a sinistra).
Prima di dare un'occiata al villaggio, però, dobbiamo recarci alla stalla di Walter Benetti, un giovane che alleva un'ottantina capre e anche un piccolo gregge di pecore. Walter e la moglie sono intenzionati a dare sviluppo alla loro attività di allevamento cercando di valorizzare meglio il latte e la carne. Purtroppo nel 2009 una frana ha distrutto l'Alpe Losa di proprietà della famiglia Benetti da oltre una decina di anni. L'alpe, che si trova a 1.460 m in comune di Trasquera non è al momento utilizzabile, sia perché un grosso masso ha sfondato la copertura della stalla sia perché la strada di accesso non è agibile. In attesa che venga messo in sicurezza il tutto in modo da poter procedere alla ricostruzione delle stalla ai Benetti è stato concesso un alpe comunale. Qui, però, la situazione è provvisoria. Per il momento il latte delle capre munte (circa la metà, alle altre viene lasciato sotto la capretta) viene utilizzato per ingrassare dei vitelli e per produrre tomette per autoconsumo. Un autoconsumo di un certo rilievo considerato che la famiglia di Walter è numerosa (sono in otto figli). Vi è anche un fratello con le vacche con il quale adranno divisi i terreni (altro elemento di incertezza rispetto alla programmazione dello 'sviluppo d'impresa'). Un caso sempre meno frequente visto che nella maggior parte delle famiglie vi è al massimo un solo figlio che continua ad esercitare l'attività agricola. Un caso che ci fa anche riflettere sui problemi del passato, problemi che oggi - presi da tutt'altro ordine di questioni, abbiamo dimenticato (poca terra, poce case da dividere spesso tra più figli).
La stalla che dall'esterno non appare molto grande dentro si rivela spaziosa (foto sopra e sotto). Ha un'ampia corsia centrale che rende abbastanza agevole la pulizia. Le capre si dividono tra bianche (ma con pelo troppo corto per essere classificate 'Sempione') e le 'colorate', delle tipiche Alpine comuni. Le bianche stanno a sinistra rispetto all'ingresso, le 'colorate' a destra.
Tra le 'colorate' osservo le varie 'combinazioni' che ho imparato a conoscere anche in Lombardia e in Trentino. La mia attenzione è stata attratta da una capra 'Frisona' (sotto).
Una lunga fila di campanacci (loc. sonai) sono appesi in bella vista sopra la mangiatoia. Walter è un appassionato e ne possiede diversi tipi (provenienti da varie parti della Svizzera per lo più). Ogni capra ha il suo bravo campano. E ci si può immaginare quale allegro frastuono si produca quando da qui le capre, a fine aprile, partono per il 'mezzo alpeggio'. Al 'mezzo alpeggio' si resta un mese, prima di salire all'alpe vero e proprio. Ci si sta anche in 'discesa', in ottobre. Basta questo 'calendario' per capire che in questa azienda - come in molte altre ossolane - l'alpeggio resta 'centrale' rispetto all'attività di allevamento caprino. Imprescindibile. Difficilmente che le cose cambieranno. Se questo sistema ha resistito sino ad oggi con l'aumento tendenziale del costo dell'alimentazione importata non sarà abbandonato nemmeno in futuro. C'è però un incognita, il lupo. Un argomento che si insinua sfuggevole nelle conversazioni con gli allevatori. Sanno che in Ossola le avanguardie si sono fatte già vive anni fa ed è di questo giorni la notizia del giovane lupo investito dal treno.
L'idea di realizzare un piccolo caseificio 'a norma' in alpeggio c'è già. Basterebbe dividere la stalla. Ma per ora non si può procedere alla ricostruzione (anche perché non è ancora arrivato il risarcimento). C'è da augurarsi che le pratiche amministrative si sblocchino e che quest'anno possano essere intrapresi i lavori per il ripristino della strada e per la messa in sicurezza dei fabbricati da eventuali nuove frane.
Prima di lasciare i nostri amici diamo un'occhiata ai primi nati dell'anno. Si tratta di un trio molto emblematico: un caprettino nero, uno bianco e uno bianco e nero. Inutile dire che le mie preferenze vanno al 'B/N' ('pavonato' per dirlo alla svizzera).
Vale la pena di scattare ancora qualche foto prima di lasciare la borgata. Quella sopra è emblematica di un'agricoltura di montagna che non c'è più. Non ingannino i colori sgargianti della piccola trattrice che contrastano con il cielo blu. Le case sono raggruppate al margine della 'piana'. Alle loro spalle un pendio terrazzato che era coltivato a prato, davanti i campi. Un'organizzazione dello spazio razionale che si adatta alla morfologia del versante, che inserisce l'abitato all'interno di un'unica funzione di uso dello spazio. Dove 'abitare' e 'produrre' non sono funzioni distinte. Il pensiero va da una parte alle orribili stalle-capannone prefabbricate presenti anche i Ossola (pensavo che le più brutte fossero in Valtellina ma m devo ricredere), dall'altra agli spazi abitativi stile villetta suburbana con giardino e cancellata che 'mangiano' e segmentano uno spazio prima aperto. Qui in questa montagna - fossilizzata - i 'confini' sono presenti ma invisibili.
Ancora oggi si può ammirare dal vivo la perfetta sistemazione idraulico-agraria della 'piana' con campicelli larghi pochi metri 'a schiena d'asino' disposti paralleli. Un modo di evitare ristagni idrici e di coltivare a 1.000 m I cereali. Cose che in un museo non si possono vedere.
Su una delle terrazze una pecora si è isolata dal gregge con il suo agnellino. Mi guarda curiosa o, semplicemente, attenta a che non mi avvici troppo. Scatto e non la disturbo oltre.
Le altre pascolano nella piana. Sarà capitato anche in passato. Gli inverni senza neve erano di certo meno frequenti (almeno dal XVI sec. in poi). Dopo la raccolta, dopo 'i morti' il pascolo era libero anche nel dominio coltivato dei villaggi (è l'antico diritto di vaine pâture che riflette le matrici pastorali dei popoli indoeuropei). Tornando all'accurata sistemazione dle terreno non posso fare a meno di pensare che questo spazio finemente 'modellato' rappresenti l'espressione di un'agricoltura molto intensiva (in termini di manodopera e fatica fisica) finalizzata ad ottenere il più possibile da piccoli fazzoletti di terra (così sembrano a noi, per i vecchi erano campagne).
Ultima tappa a Barzona, in valle Anzasca. É una delle tante frazioni di Bannio Arzino; si trova a 675 m sulla sponda sinistra della valle. Qui siamo andati a trovare Walter Pozzoli, un allevatore di capre giovanissimo (22 anni) che smentisce l'immagine dei giovani poco dinamici che aspettano che le famiglie e le 'istituzioni' suggeriscano loro cosa fare. Walter, con un giovane socio, gestisce una stalla nel fondovalle principale (a Pallanzeno). Giù hanno (divise a metà) 96 capre Saanen che producono latte per la Latteria di Crodo. A Barzona, invece, Walter, aiutato da uno zio, mantiene in due diverse stalle, site al livello inferiore di vecchi fabbricati rurali del paese, una quarantina di Alpine comuni, mantenute prevalentemente per la produzione dei capretti.
Ma Walter, che fa anche il giardiniere, ha un progetto - già avanzato - per la realizzazione di una nuova stalla con caseificio aziendale su terreni di famiglia a Bannio (sulla sponda opposta della valle). La stalla, dotata di palchetto di mungitura meccanica - è prevista per una capacità massima di 150 capi (metà Saanen e metà Alpine comuni).
Potrebbe sembrare un progetto ambizioso per un ragazzo poco più che ventenne ma Walter, oltre a gestire la stalla in 'pianura', ha già maturato esperienza di caseificazione in alpeggio dove produce (per autoconsumo) le classiche tomette ossolane di pura capra. Io e Marco abbiamo convenuto che Walter ha le idee molto chiare e che rappresneta un caso in cui la 'pratica' e la 'gramamtica' hanno trovato una biona sintesi. La frequentazione dell'Istituto professionale per l'agricoltura e l'ambiente di Crodo è stata molto utile per questo ragazzo.
I progetti di Walter che contrastano un po' con la realtà di una montagna che mostra tanti segni di abbandono come la vecchia dimora abbandonata della foto sotto che si rifà al modello Walser di 'sviluppo in verticale' con fabbricati su 3-4 livelli e che 'regge' solo grazie alla copertura di lamiera zincata.
Anche qui, come in val Divedro la montagna era stata accuratamente 'sistemata' per poter ottenere da superfici ristrette, strappate alla montagna grazie ad una grande intensità di fatiche, il maggior volume possibile di frutti della terra. I terrazzamenti di rimpetto al nuceo abitato di Barzona (foto sotto) rappresentano una vera e propria 'agricoltura verticale' volta a sfruttare il più possibile i terreni esposti a Sud nei pressi del paese. Non importava quanto fossero ripidi. Cosa hanno inventato di nuovo le archistar che propongono grattacieli 'agricoli' per colture idroponiche ('soluzione' non proprio economica per far 'compensare' la scriteriata cementificazione e all'altrettanto scriteriato abbandono di colline e montagne?)
Fa tristezza vedere questi terrazzi che franano (in alto a sinistra nella foto) e che sono invasi dalla boscaglia. Però giovani come Walter dimostrano - in forme diverse - la stessa tenacia degli antichi costruttori, coltivatori e manutentori di queste terrazze. Ci vuole tenacia a vivere in montagna di montagna. Ma non esiste una montagna (almeno quella alpina) senza l'uomo allevatore e coltivatore.
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